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L’Angelo primogenito
L’Angelo primogenito
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E-book271 pagine3 ore

L’Angelo primogenito

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Info su questo ebook

Angelo Trevisan ha un tormento che lo obbliga a fuggire. Ma un giorno il richiamo per la sua terra e la sua gente si fa così forte che è costretto a tornare. È l'inizio dell'estate del 1939, e al suo ritorno in paese fa eco un altro arrivo inaspettato: è quello di Marianna, una ragazza di città in villeggiatura con i genitori e i fratelli fino al termine dell'estate. Angelo è deciso a ignorare la fanciulla e a evitarla in qualunque modo. Pian piano, però, la determinazione di Marianna riesce a fare breccia nella solitudine di Angelo, che si libera del passato e finalmente ricomincia a vivere con gioia il presente. L'amore dei due giovani, tuttavia, dovrà fare i conti con il padre di lei che, contrario al rapporto, minaccia Angelo di mettere fine alla relazione. Ma Angelo non ne vuole sapere di gettare al vento la felicità ritrovata, e disubbidisce. Una mattina, però, Marianna sparisce, portata via di forza dal padre. Angelo va alla ricerca di Marianna specchiandosi con una notizia inaspettata. Ma la guerra incombe e sono tempi duri per l'amore. Angelo dovrà lasciare Marianna e partire per servire il suo Paese. È in quelle terre così lontane che Angelo lotterà per sopravvivere, finché l'incontro imprevisto con un soldato cambierà il suo destino. La fede e la speranza saranno sufficienti a tenere saldo un legame che si complica con il passare del tempo? Ambientata fra il 1939 e i giorni nostri, questa storia ricca di intrecci e colpi di scena crescenti è destinata a trascinare il lettore sino al gran finale.
LinguaItaliano
Data di uscita3 gen 2012
ISBN9788866185031
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    Anteprima del libro

    L’Angelo primogenito - Stefano Rozzarin

    ancora.

    PROLOGO

    A volte ho la sensazione di essere solo al mondo.

    Altre volte lo so di sicuro.

    Charles Bukowski

    Il mio sangue è malato. Dalla nascita. E io non ne ho nessuna colpa, se non quella di essere venuto al mondo.

    In questo momento sono sdraiato su un letto duro e per niente comodo. Ho la vista appannata, fatico a respirare e sono intrappolato da lacci che mi impediscono di muovermi. Mi sento uno schifo, e non riuscirei comunque a scappare. La stanza che mi ospita è bianca ed è illuminata da una luce accecante. Il luogo è familiare e le persone si rivolgono a me con gentilezza. Poi avverto una puntura che brucia sul braccio, e perdo i sensi.

    La piazza è invasa dalla gente. Giovani invecchiati, occhi lucidi che rigano visi commossi. Immortalo quegli sguardi mentre rievocano il tempo della memoria. Tutti sono immobili e ammutoliti da un silenzio in costante crescendo. Ma poi il silenzio è squarciato dalle note di una banda musicale. La bandiera tricolore inizia l’ascesa e gli astanti osservano la stoffa che si contorce alle raffiche di vento. La corsa finisce e provo una forte emozione. È un sottile incanto che dura pochi secondi. La musica si interrompe e una voce roca si apre una breccia tra la folla. Un vecchio dalla pelle raggrinzita si avvicina e mi sussurra all’orecchio: «Fuori c’era la bufera e la notte si confondeva al giorno. In mezzo a quell’inferno pensai che fosse la fine. E la fine vi è stata. Quel giorno sono sopravvissuto, ma la disperazione mi ha condotto al peccato. La giustizia non mi ha condannato, ma io mi sono condannato da solo…»

    Non riconosco quel timbro, ma rimango paralizzato.

    Mi ridesto di soprassalto. Spalanco gli occhi e tutto svanisce. Sono senza fiato, il cuore che pulsa a mille. Ero sicuro che fosse reale, non un sogno. Un sogno di quelli brutti, di quelli che non ti lasciano dormire per giorni. E poi i ricordi si sono accesi di nuovo, come una fiamma che arde all’improvviso, e mi sono ritornati alla mente quei giorni, riportandomi a quando tutto è cominciato.

    PARTE PRIMA

    1

    A chi mi domanda ragione dei miei viaggi,

    solitamente rispondo che so bene quel che fuggo,

    ama non quel che cerco.

    Michel De Montaigne

    Mia madre mi diede alla luce il 24 maggio 1920, dopo tre ore di travaglio. Superavo i tre chilogrammi ed ero in buona salute. Nonostante fosse terrorizzata che qualcosa andasse storto, il parto filò tutto liscio e senza complicazioni. Aveva pensato molti nomi per me, ma nessuno le sembrava essere il più appropriato. Fu quando i suoi occhi si posarono per la prima volta sul mio viso che decise, e capì che Angelo era il più adatto, poiché mi considerava un dono prezioso inviatole da Dio. E così, fui registrato all’anagrafe come Angelo Trevisan.

    La gente del posto si ricordò a lungo quella giornata, ma non fu per l’avvenimento della mia nascita né per l’anniversario dell’entrata nella Grande Guerra dell’Italia, bensì per una violenta grandinata che sconvolse il paese. Il cielo denso di nubi cupe si oscurò fino a intonarsi perfettamente al viola della stola sacerdotale; cumuli di vapore più che mai minacciosi saturarono un cielo che in pochi minuti scaricò una quantità di ghiaccio sufficiente a rifornire le ghiacciaie dei dintorni per anni. Chicchi grossi quanto noci ricoprirono il terreno di uno spessore di dieci centimetri. Il raccolto di quell’anno andò in fumo e la povertà di quella gente sprofondò nella miseria a livelli paragonabili solo a quelli del 1916. Quell’anno, un bombardamento rase al suolo il centro abitato di San Nazario e mia madre scappò dalla morte non so se più per fortuna o più per miracolo. Si trovava a passeggiare nei campi innevati, un caso fortuito visto che era un gennaio particolarmente freddo. Appena udì il sibilo dei motori degli aeroplani si nascose nel bosco. E attese. Molte persone non furono fortunate allo stesso modo. Civili senza colpe furono colpiti e persero la vita. E fra questi vi erano i suoi genitori. Al ritorno trovò uno scenario irreale; la casa era un cumulo di macerie fumanti e nell’aria si respirava ancora l’odore delle bombe. Stessa sorte toccò ai miei nonni paterni e ai futuri zii che mai conobbi. Morirono tutti schiacciati dal peso dei detriti della loro abitazione.

    I miei genitori si conobbero due anni dopo, al ritorno di mio padre dalla guerra che, paradossalmente, era stata la sua salvezza. Erano soli al mondo, due anime in cerca di un solo corpo. Bastò qualche sguardo tra di loro. Un colpo di fulmine veloce e la sensazione di un sentimento magico. Quel freddo inverno di solitudine fu infiammato dal loro amore e, assaltati dalle emozioni, decisero di convogliare a nozze nella primavera del 1919. Rimasero a vivere a San Nazario, un semplice paese di campagna dove mia madre era nata e cresciuta e diventata donna, mentre mio padre imparò a destreggiarsi con la vita contadina, lui che fino all’alba del conflitto mondiale aveva vissuto in mezzo alle paludi.

    San Nazario era un piccolo paese, perciò tutti sapevano tutto di tutti e le donne meno giovani si conquistavano la fama di gran pettegole facendo a gara come in una competizione. Qualsiasi avvenimento attirava il malcelato interesse della gente, sia che fosse una notizia gioiosa sia che fosse un pettegolezzo senza fondamento. A quanto pareva non aveva grossa importanza, poiché in pochi minuti erano in grado di raccontare ciò che sapevano e anche quello che non sapevano, mitragliando parole a una velocità straordinaria, senza prendere fiato e immaginando il tutto quasi per convincersi che fosse davvero così.

    Ma San Nazario era anche un luogo incantato, circondato da montagne meravigliose e luoghi nascosti in grado di sedurre. I vecchi del paese pensavano che quelle terre riservassero un destino speciale a ciascuno dei suoi abitanti. E, chi fuggiva, prima o poi sarebbe tornato.

    Ed era vero. Quell’affermazione mi vagava in testa da mesi e finì col sopraffare il dolore. Così, dopo un anno e mezzo di esilio volontario in alta montagna presso un pastore cugino di mia madre, dovetti tornare. Era il 1938 e l’estate era ormai imminente.

    Quel giorno, ero sopraffatto da una grande emozione, e trattenni le lacrime a stento. E poi, quando mi ritrovai di fronte a quell’edificio con le mura spesse più di mezzo metro, fui avvolto da un turbinio di ricordi. L’aveva ricostruito mio padre, e di certo non era lussuoso. Come tutte le case dell’epoca non aveva riscaldamento e i servizi igienici si trovavano in cortile, ma era nostro e nessuno ce l’avrebbe portato via. Già, mio padre, che a quell’ora era ancora in segheria. Lavorava tutti i giorni di tutto l’anno, dall’alba al tramonto in una frazione di poche case di San Nazario, e il tempo che passavo con lui era piuttosto raro. Ma una volta, da bambino, mi portò con sé. L’opificio era molto in basso rispetto alla strada che lo fiancheggiava, ma riuscii comunque a intravedere un enorme portone di legno scuro, con cornici in pietra che subito m’incuriosirono. Alla sommità di queste vi era appeso un buffo viso modellato grottescamente a mo’ di ornamento e a fianco risaltava una specie di simbolo colorato. Quando gli chiesi che cos’era, papà mi rispose che quello era lo stemma del comune, e io strabuzzai gli occhi dallo stupore. Poi entrammo e fui abbagliato dalla luce di molte finestre. Mi affacciai a una di quelle e il mio sguardo si perse verso il basso e vide il fiume che scorreva impetuoso. Papà mi spiegò che il Brenta in quel punto aumentava la sua portata permettendo così di alimentare meglio la segheria. Le rocce spuntavano dall’acqua e rifrangevano la luce del sole in uno strano luccichio scintillante. Avevo otto anni, e quella fu l’ultima volta che passai l’intera giornata con lui. Da allora non mi portò mai più con sé. Pareva che volesse schivare di proposito le attenzioni che invocavo. Era un tipo solitario, silenzioso e abitudinario che pensava solo a lavorare sodo. A tavola rivolgeva a stento la parola alla mamma. Una volta terminata la cena, se ne andava fuori a fumare e poi subito a letto. E anche nei giorni di festa la musica era la stessa. Presenziava alla messa del mattino, poi, una volta di ritorno a casa, pranzava per poi rintanarsi immediatamente nel suo limbo per trascorrere il pomeriggio a lavorare il legno.

    Quando arrivai sulla soglia di casa l’aria era immobile e tutto taceva. L’equilibrio si ruppe nel momento in cui comparve la sagoma di una figura femminile. Individuai nelle forme di quel corpo le stesse di mia madre, e così corsi ad abbracciarla. Era ancora di una bellezza seducente che avrebbe fatto girare la testa a parecchi giovani. Mi accarezzò dolcemente i capelli e io ricordai quando da bambino mi coccolava con gli stessi gesti. In quegli attimi, mi raccontava di quando si era resa conto di essere incinta di me. Una nuova vita stava crescendo dentro di lei e l’emozione che provò fu immensa. Voleva avere altri figli, una famiglia numerosa. Aveva il desiderio di darmi un fratellino o una sorellina, non importava il sesso purché godesse di buona salute, ma si accorse che di miracolo ce n’era già stato uno e il suo corpo non avrebbe più potuto avere altre gravidanze.

    Raccolsi da terra la mia roba, senza perdere altro tempo, e m’infilai in casa dietro di lei, riconoscendo un odore familiare. Avevamo tante cose da raccontarci e avevamo un sacco di tempo. Mio padre non sarebbe arrivato prima del calar del sole.

    2

    La grande maggioranza delle persone lavora

    soltanto per necessità, e da questa naturale avversione

    umana al lavoro nascono i più difficili problemi sociali.

    Sigmund Freud

    Mia madre aveva un fratello, più grande di qualche anno: zio Oreste. Viveva accanto a noi in una casa edificata agli albori della prima guerra mondiale, con un vasto appezzamento di terra che gli aveva fruttato una piccola fortuna. Era molto premuroso nei miei confronti. Mi trattava come un figlio, lui che di figli non ne aveva. La moglie, tanto era sterile, non gli aveva saputo dare nemmeno un erede. Tuttavia, da quando dieci anni prima se n’era andata all’altro mondo, non era più lo stesso. Continuava a vivere in solitudine, nella stesse stanze impregnate dall’odore della donna che aveva amato, rimuginando su una vita che non gli si addiceva. I capelli che incanutivano e la pelle abbrustolita dal sole erano i segni più evidenti dell’incombente degrado fisico e di una giovinezza che non sarebbe più riaffiorata.

    Gli stavo talmente a cuore che, ancora prima del mio ritorno, si era impegnato a garantirmi un’occupazione come garzone nella bottega di un fabbro, in una borgata di San Nazario. Si incontrava con il mio futuro titolare nel bar del centro. Erano amici di vecchia data e frequentavano quel luogo di perdizione da anni, per dedicarsi alle loro passioni preferite: le carte e la grappa. Zio Oreste era convinto che se gli avesse domandato di prendermi nella sua bottega, non avrebbe risposto di no. Non poteva negargli un favore in nome dei vecchi tempi, specie se riguardava il suo unico nipote. E, poiché la sua più grande debolezza era l’alcol, un sabato pomeriggio ne approfittò. Farfugliò parole incomprensibili a mo’ di richiesta e l’amico, che era talmente ubriaco da non riuscire a tenere le carte coperte, abboccò e rispose di sì senza fiatare.

    La mattina del mio primo giorno di lavoro, inforcai la bicicletta e mi gettai in picchiata verso il paese. Al fondo della discesa, attraversai il ponte che si elevava sopra il Brenta, dopodiché svoltai a sinistra. Mi incuneai nel centro abitato e avvistai di spalle la figura di un ragazzo. Non avevo dubbi, era Mario. Eravamo come fratelli. Per lui avrei combinato qualsiasi follia. E lui per me. Entrambi eravamo figli unici e, per cementare la nostra fratellanza, avevamo stretto un patto. Ci eravamo incisi i polsi con un coltellino che Mario aveva sottratto di nascosto al padre, e ci eravamo mischiati il sangue. L’accordo avrebbe suggellato la nostra fratellanza eterna.

    Da bambini, Mario e io ne avevamo combinate di tutti i colori. Frequentavamo la quarta classe quando io fui punito dalla severità del maestro Mancini, che aveva sostituito il vecchio insegnante troppo malandato per continuare quel mestiere. Il primo giorno di scuola, il nuovo maestro si presentò in aula con uno sguardo che terrorizzava. Portava degli occhiali che poggiavano su un naso adunco, e ci scrutava in silenzio. Chi versava l’inchiostro sulla carta riceveva energiche bacchettate, mentre chi osava reggere il suo sguardo vitreo veniva scaraventato dietro la lavagna per rimanerci fino al termine delle lezioni. Nei giorni a venire capimmo di che pasta era fatto.

    Un giorno di primavera inoltrata, il maestro Mancini si presentò in classe silenzioso come mai era accaduto. La deflagrazione della marmitta della moto che ogni mattina anticipava il suo arrivo, fu spodestata da un muto silenzio. Quando ci accorgemmo che ci fissava senza fiatare, la quiete calò all’istante, ma era già troppo tardi. Mancini mi afferrò per un orecchio e mi punì davanti alla classe per mostrare a tutti la sua autorità. Fu un’ingiustizia. Rimasi a casa due giorni, con l’orecchio gonfio e la febbre alta. La mattina del terzo giorno, Mario e io ci appostammo ai lati della statale, tra i canali di scolo dell’acqua piovana. E quando all’orizzonte comparve la sagoma del maestro Mancini in sella alla sua motocicletta, estrassi dalla tasca dei pantaloni una fionda di legno. Presi la mira e sferrai un colpo secco. Il sasso dalle sporgenze acuminate roteò nell’aria e colpì il maestro sul ginocchio. L’uomo cadde a terra e si contorse tra gemiti di dolore fino allo svenimento. A quel punto lasciammo la scena incriminata svignando via veloci. Il giorno dopo, il maestro Mancini non si presentò alla lezione e non lo vedemmo più per il resto dell’anno.

    Quando Mario mi vide i suoi occhi lampeggiarono di eccitazione. Mi corse incontro e mi abbracciò istintivamente.

    «Ciò, varda chi che se vede!» disse con voce squillante.

    «Anche tu mattiniero?» domandai.

    Mario annuì. «Sto andando alla macelleria di zio Armando. Lavoro per lui già da qualche mese. Ma tu, quando sei tornato?» mi chiese facendo finta di non sapere niente.

    «Ieri.»

    «Domani sera proiettano un film. Perché non ci vieni?»

    A quella domanda mi trincerai in un silenzio compromettente e non risposi. Mario mi si avvicinò e mi diede una pacca sulle spalle. Poi disse: «Ti prometto che a mezzanotte dormirai già da un pezzo.»

    Esitai. Mario se ne accorse e mi venne in aiuto. «E va bene! Ho capito… Verrò a prenderti a casa, così sarò sicuro che ci sarai. Ho un sacco di cose da raccontarti… Adesso devo andare, zio Armando si mette a bestemmiare quando arrivo in ritardo. Ci vediamo alle otto. A domani…»

    Non mi rimase che annuire.

    Mario bussò all’ora prestabilita, puntuale come un orologio. Ci incamminammo verso la tenue luce del crepuscolo, costeggiando per un breve tratto la strada che seguiva il fianco della montagna, poi ci gettammo all’interno del bosco per accorciare il tragitto. Imboccammo un sentiero che sprofondava in una ripida discesa e venimmo ingurgitati dalla fitta vegetazione. L’oscurità prese il sopravvento sul chiarore cancellando ogni traccia di luminosità che c’era nell’aria.

    Stavamo camminando da parecchi minuti, senza sfiorarci, in silenzio. A un certo punto Mario mi affiancò e con una voce gentile ruppe la quiete.

    «Da domani il lavoro in negozio sarà meno pesante. Zio Armando mi ha comunicato che per l’estate ci darà una mano anche mia cugina Chiara.»

    «Non la vedo da quasi due anni» dichiarai.

    «Ormai è quasi una donna, ed è ansiosa di riabbracciarti. Be’, speriamo che almeno vada tutto bene. Non deve accadere l’incidente dello scorso anno…»

    «Perché? Che cosa è successo?».

    «La proiezione del film si è interrotta dopo pochi minuti. La pellicola si è inceppata nella macchina da presa e si è spezzata. Gli organizzatori non hanno perso tempo, ma è stato tutto inutile. La sottile lamina rimasta incastrata nell’infernale marchingegno era irreparabilmente danneggiata. Comunque, quest’anno avremo più fortuna…»

    «Sarà meglio per te. Se la serata sarà un fallimento, ti incolperò per il resto dei tuoi giorni.»

    Quando uscimmo dalla boscaglia, divenne improvvisamente buio. Arrivati nei pressi della chiesa, ci infilammo in un sentiero lastricato di pietre così stretto da dover procedere in fila indiana. Attraversammo un cancelletto divorato dalla ruggine e finalmente arrivammo nel cortile della Chiesa, dietro la Casa del Fascio. Un enorme tessuto bianco assemblato a mano era legato a una rete metallica. Dalla parte opposta era adagiata su un tavolino una macchina da presa pronta a rendere possibile il miracolo di far scorrere le immagini movimentate sul telo. Osservai a lungo quel marchingegno tecnologico dall’aspetto sinistro e misterioso. Un attimo dopo, fui avvistato da una folla di ragazzi che mi riconobbero immediatamente. Fui letteralmente aggredito e tempestato di domande a cui non avevo nessuna voglia di rispondere. Quando non fui più al centro dell’attenzione, tirai un sospiro di sollievo.

    Mario mi strattonò e indicò una ragazza che agitava la mano per richiamare la nostra attenzione. Assomigliava vagamente al ricordo che avevo conservato di sua cugina. La smilza ragazzina dal viso lentigginoso aveva smarrito le forme acerbe ed era diventata una donna da marito molto graziosa. Accanto a lei, una fanciulla dal volto sconosciuto non smetteva di fissarmi.

    «Chi è quella ragazza?» chiesi a Mario.

    «Chi?»

    «Quella laggiù.»

    «Non l’ho mai vista prima d’ora, ma sono sicuro che non sia di queste parti. E poi, se si fosse trasferita da poco, di certo l’avrei saputo. Lo sai, i pettegolezzi sono all’ordine del giorno, l’hai dimenticato? Io che lavoro in macelleria ci sono abituato a queste faccende. Mio zio e io siamo abituati a sentire di tutto. Neanche ti immagini il supplizio che dobbiamo patire quando le mogli sono angosciate da certi comportamenti dei mariti. Facciamo anche da confessori…»

    «Be’, allora uno di questi giorni verrò a trovarti in negozio, tanto per darti un po’ di sollievo…»

    «Non fare il cretino e andemo a presentarci…»

    Mario raggiunse le due ragazze con un balzo felino. Io rimasi volontariamente in disparte, per nulla interessato a intraprendere altre conversazioni. Poi si voltò di scatto e, quasi a tradimento, mi chiamò in causa. A quel punto, anch’io fui costretto a dire il mio nome. La forestiera si presentò accennando un mezzo inchino e disse di chiamarsi Marianna Marangon, ma subito puntualizzò che tutti la chiamavano Anna.

    «Non abiti in paese, vero?» chiese Mario.

    «No» rispose lei.

    «Anna vive a Vicenza» intervenne Chiara. «È qui in villeggiatura con la sua famiglia, e si tratterrà per il fine settimana.»

    Mario non riuscì a nascondere un’espressione mista tra sbalordimento e delusione. «Ritorneremo quando la scuola sarà conclusa» aggiunse Anna.

    Quella sera proiettarono un film con Vittorio De Sica, uno degli

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