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L'universo in ogni respiro
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E-book297 pagine4 ore

L'universo in ogni respiro

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Info su questo ebook

È la storia di una madre a cui hanno ucciso il proprio figlio e che da trent'anni si batte, strenuamente ma invano, per ottenere verità e giustizia. È la storia di una donna che non si è arresa mai, anzi è riuscita a trasformare il dolore in gioia pura e totale rendendo universale l'Amore per il figlio.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2019
ISBN9788831613910
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    Anteprima del libro

    L'universo in ogni respiro - Olimpia Fuina Orioli

    633/1941.

    Brancolamento

    Quando il cuore dolente e indolente, smarrito e brancolante, ramingo e rantolante, vinto dall’urlo tenebroso degli abissi, sopraffatto dal lento suo migrare senz’anima e sentiero, s’arrende alle infinite somme perdenti di sogni infranti e di speranze morte, disancorato da se stesso e dall’universo intero, non può che naufragare, inesorabilmente, negli anfratti tenebrosi del suo burrascoso tempo, nell’agonia crescente del suo nulla infante.

    Ed io, ancorata unicamente ai miei vincoli spazio- temporali, vi naufragavo senza opporre resistenza, non avendo né voglia e né forza a proseguire in quell’aspro cammino a me serbato. 

    Cominciai a scrivere parole alla rinfusa e a descrivere i rantoli gementi di quel mio nulla errante.

    Pensavo che averli fuori a debita distanza, avrei potuto leggerli e gestirli invece che subirli, prigioniera.

    Leggevo… Scrivevo… Leggevo… Cercavo…

    Cercavo il mio sogno tra le casse ammucchiate e sparse nella rimessa del mio cuore mentre la mia anima, sepolta, ruggiva intrappolata in un tempo senza vita e senza prospettive d’altro Tempo.

    Genesi

    Questo libro è nato come bisogno di portare fuori ciò che ruggiva dentro per poterlo leggere, comprendere, affrontare e superare per non essere vinta dalla morte e dalla vita, ma essere vincente su entrambe. È nato come ricerca di pace interiore, tant’era incredibilmente faticoso sostare in quella sanguinaria guerra (come dice FRIDA KAHLO) tra la crudeltà della morte ingiusta e traditrice, le oscenità e le umilianti persecuzioni riservate al caso, che si preannunciavano sul fronte della nostra vita senza Luca e che ci avrebbero confinati nel nulla. Tanti gli anni di brancolamento nel buio del dolore più disperato. A tratti si schiariva per poi tornare più torbido e inquietante di prima e lo si evince dall’assillante andirivieni di brevi spiragli altalenanti e alterni di luce e buio, nel tentativo disperato di uscire da quel tenebroso tunnel risucchiante. Cercando la sua vita che non c’era, trovavo che la forza mia non c’era e barcollante vagavo nel limbo di un dolore senza fondo. Tante le involute e i tentativi vani di risalita! Al buio della mia anima smarrita e del mio cuore spento ruggenti erano i pensieri ruminanti di quel dolore reiterante che nel silenzio urlava, disperato, inascoltato e a fari spenti. Era quel grido muto il tentativo di venire fuori dai tumultuosi suoi gorgheggi che, volteggiando ansiosi negli arcani abissi, sembravano essere l’unico estremo rifugio al mio naufragio.

    L’impulso invece a mettere su carta le acrobazie del mio travaglio interiore è derivato dalle insistenze dei miei gruppi avvalorate da un sogno di Eleonora Di Marzio, una persona innamorata della bellezza interiore di Luca, ragione che l’ha indotta a cercare nei suoi scritti la sua anima stupenda e a evidenziare i significati profondi di ogni sua parola, che invece io evitavo, per non soffrire oltre. In quel sogno Luca le ha mostrato un libro con tante alterne pagine bianche da riempire. Era un chiaro invito a rendere pubblico quanto io andavo meditando nel tentativo di tradurre, in parole scritte, le immagini interiori delle involuzioni ed evoluzioni del dolore, tra virtuosismi e incompetenze. Era come portare su tela le forme e i colori più cupi ed opprimenti scoperti sul fondo di quell’abisso torbido avviluppante e avere così la possibilità di poterli guardare con distacco e decidere, in base alle reazioni registrate, di rimanerci impantanata o cercare altro, altrove.

    Dinanzi all’oscurità angosciante di quelle immagini senza luce né colori, mi ritraevo sempre più insofferente. Provavo una tale riprovevole ripugnanza da rinnegarle appieno senza però avere, inizialmente, alternative più appaganti. Segni, forme, suoni, colori, silenzi eloquenti e grida silenziose in quei sogni infranti. Visti a distanza di tempo e di spazi, mi sono resa conto che sono stati quegli strazi a dare vita alla mia ricerca interiore e a darmi la voglia matta di sperimentare l’avventura più interessante della vita proiettandomi su un futuro senza più limiti e confini braccanti. n queste pagine sono tratteggiate le tappe più significative del cammino interiore del dolore più grande del mondo.

    Infiniti, interminabili e impietosi gli anni di vana ricerca e di attesa sperante in un pronto risveglio di prodighe coscienze solidali e in un coinvolgente coro d’anime e di menti vincenti sull’omertà, menti invece ormai asservite al migliore offerente, quando non alla paura di contrastare i poteri forti. Difficile sperare contro ogni possibile speranza.

    Antefatto

    Una notte eterna ed infinita quella del 23 Marzo 1988. Il mondo esplose intorno e mi implose dentro. Luca Orioli, mio figlio, 20 anni, brillante studente della Cattolica di Milano, venne trovato morto a Policoro (Matera) in una stanza da bagno, insieme a Marirosa, in casa della stessa. Escusse, escluse e riproposte, inadeguatamente ed esclusivamente, tutte le probabili cause di morte accidentale, chiudendo più e più volte il caso con verosimili ipotesi, non supportate da alcun elemento tecnico, scientifico, medicolegale, né investigativo serio e credibile. Ma dinanzi ai pareri personali non c’è Legge che tenga, non c’è diritto che valga o dovere che possa intelligere la mente e spronare le coscienze, forse troppo avvezze a seguire calcoli mentali a cui cedere lo scettro della propria vita.

    Agli atti si può riscontrare una serie interminabile di omissioni, depistaggi, contrasti e contraddizioni ignorate, intollerabili giustificazioni a difesa delle manipolazioni dei corpi e modificazioni dei luoghi avvenute quella notte, prescrizioni di riconosciute false perizie, testimonianze false, approssimazioni investigative inaccettabili, leggerezze, superficialità, evidenze eluse, negligenze santificate, reati banalizzati, astuzie vincenti da azzeccagarbugli, fantasiose ricostruzioni indimostrabili che, tuttavia, legalizzate, ci hanno condannati all’isolamento, al non diritto, al deserto avanzante intorno, fino a quando, costretta a cambiare ambiente, non ho provato la gioia della condivisione solidale di tutta la bella gente materana che ringrazio infinitamente.

    Nessuna seria attività investigativa. Nessuna pietà. Nessuna Legge. Nessun Dovere. Nessun colpevole. Nessuna risposta. Nessuna verità. E quando quest’ultima stava per affacciarsi sul nostro orizzonte, grazie alla competenza investigativa di una squadra di Carabinieri coraggiosi capeggiata dal Capitano Salvino Paternò, attualmente colonnello dei C.C. in pensione, è successo un pandemonio riscontrabile nel libro "Aspettando Giustizia" di Angelo Jannone ex colonnello del ROS.

    Il tutto si è consumato sotto il sole e gli occhi indifferenti del mio mondo circostante. Nessun segnale di presenza attiva dello Stato. Soltanto brevissime parole di circostanza in risposta alle mie richieste di un più serio accertamento del caso continuando così a negare un diritto dovuto. Trent’anni di buio totale e di lotta, tanto strenua quanto inutile, a testimonianza dell’inadempienza e dell’inefficacia della Giustizia. La mia lotta è caduta nel vuoto e nel silenzio delle cronache. Denunciate, bloccate, rassegnate al silenzio? Il dolore di un diritto negato non può tacere dinanzi a tanto scempio procedurale.

    La verità è ancora ingabbiata, imbavagliata, sepolta dal tempo, volutamente reso infinito tanto quanto bastasse perché i responsabili potessero godere dei privilegi della prescrizione e continuare a esercitare, indisturbati, la propria professione, forse anche certamente più redditizia.

    Neppure la curiosità ha spinto il dovere a ricercare almeno i committenti.

    A chi chiedere aiuto se il Capo dello Stato "non ha poteri di verifica e intervento sulle vicende giudiziarie che sono affidate alla competenza esclusiva della magistratura, la quale esercita le proprie funzioni applicando le legge, in autonomia e indipendenza"?

    È come dire che il potere giurisdizionale è così perfetto da non dover essere soggetto a nessun controllo anche quando il giusto dovere non venisse fatto. Sono le cosiddette astuzie da Azzeccagarbugli a impedire la difesa del giusto diritto che, leso, non interessa a nessuno, tranne ai malcapitati.

    La verifica di una mancata giustizia è nella miriade di casi irrisolti in Basilicata, sottolineati dall’Associazione Libera guidata da Don Marcello Cozzi. Il mio, infatti, non è un caso isolato. Perché continuo a lottare? Perché non è possibile subire passivamente la negazione del diritto, l’oltraggio del dolore, l’umiliazione della dignità, e persino l’offesa dell’intelligenza. Perché dovevo dare un Senso a un tal dolore lottando per un sistema più giusto per tutti in quanto, come dice Papa Wojtyla: Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono, ma il perdono esige il rispetto della verità.

    Continuo a lottare perché nessun essere umano rimanga indifeso e ai margini della vita, abbandonato a se stesso e al proprio destino, in casi del genere. Alla luce di quanto accade in più parti d’Italia ecco il Senso della mia appassionata lotta. Certamente non mi riporterà Luca in vita, ma restituirà il diritto al rispetto del dolore e ad aprire nel cuore un più facile accesso al perdono.

    Ho dovuto esplorare, affrontare e superare tutte le trepidazioni incalzanti di un cuore ribelle a un tale dolore e quelle pressanti inquietudini incontenibili dell’anima e della mente, riuscendo così, nel tempo, a verificare quale fosse realmente la mia effettiva forza e resistenza al massacro puntuale di decenni d’inferno, in tutti i sensi.

    Ho incontrato, nel corso di questi anni, anime irretite in prigioni di cristallo. Ho incontrato i silenzi ostili degli omertosi. Ho assistito, impotente, allo sgretolamento della mia famiglia, della mia situazione economica, delle mie umane certezze conseguite a fatica. Un piano distruttivo che prevedeva il lento ma sicuro mio sfiancamento emotivo, economico e psicologico. Nessun essere umano avrebbe potuto reggere, infatti, a tanto disumano impegno malefico, ingiusto ed illegale. Ma sono ancora qua, più forte e decisa che mai a continuare per Amore la mia lotta.

    Amore per la verità. Amore per una giustizia giusta. Amore per la vita. Amore per la continuità della Vita. Amore per chi non ha voce e reclama in silenzio il mancato suo diritto.

    La prescrizione, ormai di prassi, evitando la certezza della pena, incoraggia a delinquere e foraggia le leggi della giungla. L’indifferenza, poi, lascia che il male avanzi incontrastato.

    Lottare per la verità è dare Senso alla vita e alla morte. È dare vita al Senso di Legalità responsabile che deve contraddistinguere un popolo civile.

    Quella del 23 Marzo è la notte degli orrori, dell’intrigo cancellato ma anche la lunga notte buia della Magistratura.

    Il mio tempo registra una congrua serie di giorni non vinti, di notti vincenti di stelle serene e convinte che nulla può uccidere il cuore e il pensiero, la lotta e il dolore che è grembo fecondo di vita interiore.

    Cielo e terra in guerra

    23 Marzo 1988

    Erano da poco passati i giorni brevi di luce e pregni di intimo profondo raccoglimento che l’inverno regala. Ormai cominciavano, stillanti, col torpore vinto dalla effervescenza dell’incipiente primavera fluttuante tra gli odori di alberi in fiore e gli sbuffi scherzosi e sferzanti del vento, i primi albori di luce fiorita e ventosa di notti e mattini meno opachi, cominciavano i tramonti scarlatti più lenti e focosi lungo i declivi di monti e colline e il sommesso sciacquio dell’onde di un mare vestito d’un azzurro più intenso e lucente, speranza di giorni futuri più lievi e gioiosi.

    Fuggite erano le lunghe ombre dalle valli appena in boccio. Il triste squallore invernale aveva cominciato a far posto ai colori brillanti del nuovo risveglio. La gelida quiete delle gelide ombre il passo cedeva all’attesa esultanza di intrepidi voli ebbri d’azzurro e alla gioia infinita di passi festosi di bimbi felici sul verde smagliante di prati fioriti.

    Dolce la luce mielata dei tardi crepuscoli d’aria sognante gremiva il sereno. Gorgheggiante l’allegro vociare di vicoli e gronde negli scrosci improvvisi e fugaci di pioggia stillanti vita risorta dal nulla si univa ai chiassosi ruscelli e al passo veloce del vento, spazzando le nubi all’istante.

    Intorno e dentro c’era un riverbero d’alta e profonda armonia, gioiosa premessa e promessa di più sereni giorni futuri. L’intensa bellezza di quei focosi tramonti, meno brevi, pareva volesse parlare dell’eterno ardore del sole, segno di vita e di tempo immortali. E il buio di notti più brevi mostrava l’intenso respiro di stelle e all’alba il trionfo dell’unica stella diurna, vincente e sovrana sul nulla imperante sull’umana natura. Quel cielo fiorito di sole pareva presagio di gioia, preludio d’Amore vincente, Valore universale da incarnare e servire. 

    Era quanto sognavo di realizzare avendo una famiglia stupenda, coesa nell’osservanza dei princìpi ancorati alla Fede professata. Dio era il nostro scudo, il nostro vantato punto di partenza e d’arrivo, in cambio però d’una vita serena. Era quella, allora la mia professione di fede, l’unica mia previsione di vita. Ignoravo la morte e il dolore, da cui, per somma paura, prendevo le dovute distanze. Pensavo soltanto alla vita, ai sogni grandiosi da realizzare. E, pur sapendo che la vita è un sogno, un breve soffio, un affacciarsi alla finestra, io vivevo come se il tempo a me dovuto dovesse certamente essere eternamente felice. Mi ero sempre soffermata a paragonare il tempo di ogni vita al grido di indubbie ore diurne e notturne, al ritorno alternante di mille scontate stagioni, all’attesa d’eterni trionfi di sole, di albe infinite sui sognanti tramonti ammansiti dalla speranza d’albe future.

    Nel dolore improvviso che aveva spento tutte le luci del mondo e rabbuiato le vie dell’anima e del cuore spenti ad ogni brivido e preghiera, non c’era posto per la ricerca. Trovai conforto e speranza nelle parole di Arthur Schopenhauer:

    La morte somiglia al tramonto del sole,

    il quale solo in apparenza viene inghiottito dalla notte,

    mentre in realtà, esso, ch’è sorgente unica d’ogni luce,

    senza interruzione, arde,

    a nuovi mondi reca nuovi giorni,

    in ogni attimo si leva e in ogni attimo tramonta.

    Speravo che quella certezza bastasse a farmi vincere il buio struggente del cupo intenso momento di un dolore senza più tramonti né albe. Nessuna Speranza balenava all’orizzonte. Nessuna riflessione sulle tante relazioni di vita e morte registrabili in natura. Ero troppo lontana dal cogliere alcuna relazione tra me e l’Universo. Ormeggiata al mio nulla, di esso vivevo, sperando di vivere fino in fondo quel sogno di vita, sia pure precario.

    Quella mattina, il sole, come ogni giorno sereno senza nuvole, appena alto nel cielo, filtrando tra un palazzo e l’altro, faceva capolino in quella stanza, inondando, radioso, il letto di Luca e il suo corpo in sereno dormiveglia. Ecco come lui stesso descrive il magico momento dell’Aurora:

    … che bello e dolce riposo il risveglio degli occhi

    all’alba

    e il tuo viso docile e giocoso come il sole lento

    s’alzava su di me

    luce radiosa e limpida

    tranquillo homo degli elementi…

    L’arrendevolezza dei tratti metteva in risalto la bellezza docile del suo volto illuminato che, pure se svegliato da quei raggi, continuava piacevolmente a sonnecchiare, godendosi il calduccio accogliente di sole e coperte. Ascoltava, indisturbato, anzi compiaciuto, il fracasso del mio risveglio e delle mie consuete affannate corse contro il tempo, sempre troppo avaro al mattino per chi, come me, non poteva farsi cogliere inadempiente rispetto ai bisogni della casa, della famiglia e del lavoro.

    Arrivare ogni giorno a scuola in perfetto orario e lasciare tutto in ordine, era il mio quotidiano obiettivo, temendo spiacevoli complicazioni. Pertanto, preferivo l’affanno all’inquietudine. Prepotente e indomabile in me il senso del dovere, sillabato dall’Amore di madre e di insegnante.

    Quella mattina, dunque, mentre giravo come una trottola per casa, nel tentativo di lasciare ogni cosa al suo posto, la voce imperativa e dolce di Luca reclamava insistentemente il mio buongiorno con un bacio: Ma’ vieni, dammi un bacio. Ed io continuando a sfaccendare gli risposi subito: Non posso, è già tardi. Lasciò passare alcuni minuti e mi ripropose più deciso la richiesta. Per la seconda volta lo implorai di non farmi perdere tempo. Ma alla terza volta pensai che ne avrei sprecato meno a dargli il bacio che a rispondere. E così feci. 

    Me lo sarei perso e per sempre, se avessi dato ascolto alla mia mente che il cuore rimandava a nuovo giorno, supponendo che ce ne sarebbero stati tanti ancora da vivere e da dedicare alle coccole quotidiane. Quante volte ho ripensato a quella stupida frase: Non farmi perdere tempo. Quante nel nostro dire comune! ...

    Frasi però che certamente denotano la mancata riflessione sulla provvisorietà del tempo individuale e sull’eternità del Tempo che tutti li ingloba da sempre per sempre, sin dai primi albori del mondo e della vita. Mai, fino ad allora, alcuna seria riflessione sulle Verità del Credo professato. Mai avevo pensato che per risorgere è inevitabile morire. Ero convinta che il grande Tempo non dovesse inglobare, prematuramente, il nostro breve tempo. C’era la vita a noi promessa e che ritenevo meritata che aveva priorità su tutto il resto.

    Mi era capitato spesso di vivere tra il rimpianto del passato e l’ansia del futuro non cogliendo affatto la bellezza, la preziosità e l’irripetibilità d’ogni momento. Per cui perdevo il meglio della vita ignorando che l’eternità è nell’attimo che è vissuto appieno solo quando è cosciente del suo vero profondo ed ascoltato anelito al Divino. Quell’ultimo bacio l’ho dato come resa alla sua insistenza ma non come scelta consapevole della reale importanza del qui ed ora e quindi della probabile sua irripetibilità. Ho letto, tanto tempo dopo, un concetto meraviglioso di GABRIEL GARCIA MARQUEZ, uno tra gli autori preferiti di Luca, che così testualmente recita: Ho appreso che un uomo ha il diritto di guardare un altro dall’alto, solo quando lo aiuta a rialzarsi. Dici sempre quello che senti e fai quel che pensi (...) Se sapessi che sono gli ultimi momenti che ti vedo, io direi ti amo e non supporrei, stupidamente, che tu lo sappia già (...) Il domani non è garantito per nessuno, vecchio o giovane. Oggi potrebbe essere l’ultima volta che vedi quello che ami. Allora non aspettare, fallo oggi.

    È proprio vero. Cogliere l’attimo, vivere pienamente il qui ed ora è ciò che impreziosisce il passato, valorizza il presente realizzando nell’attimo il futuro che si vuole. Potrebbe quell’attimo non tornare. Inimmaginabile. Nulla lasciava trasparire una simile tragica fine. Quel sole così ridente lasciava presagire un prolungato futuro luminoso e sereno insieme.

        Quel bacio. L’ultimo, L’ultimo risveglio. L’ultimo saluto. E fu quell’ultimo raggio radioso e felice specchiato negli occhi e nel cuore d’entrambi, sotto lo stesso cielo, tra le stesse pareti che ha fermato bruscamente l’incanto dei miei giorni per sempre. L’ultimo dolce sentir la sua voce appena sveglio. L’ultimo guizzo di gioia condivisa. L’ultimo Buon Giorno. Non ce ne sarebbero stati altri. Mai più. E quante volte benedico la sua insistenza per avermelo strappato, quel bacio, sia pure frettoloso e distratto, ma sempre comunque intenso e avvolgente proprio come quello di ogni madre che vede nel figlio fiorire lo specchio dei sogni suoi più belli. Intensa una luce, un senso diffuso di pace, un lento risveglio, radice e speranza di un giorno felice, veniva dagli occhi di Luca, dal cuore e dal tono suadente di voce profonda, appena risorta dal sonno, assopita e ancor pregna del magico regno dei suoi sogni in cerca d’approdo. Quell’alba brillava radiosa inondando di luce e speranza il mio cuore. Pareva una festa di luci a colori che al tempo, invece, chiedeva, in attesa, una stella: la mia. La più bella.

    Corsi a scuola come se avessi le ali, tant’ero felice di quel bacio preteso. Dopo circa due ore, Luca venne a trovarmi in aula per lasciarmi il suo giubbotto. Fuori faceva caldo. Suadente e sereno era il suo volto. 

    Girò tra i banchi chiedendo ai bambini il loro nome e un loro sogno. Giunto dinanzi a un bambino, col suo stesso nome, sorridendo mi disse: Ah ma’ ce l’hai un altro Luca! Lo guardai sorpresa e contrariata, e seccamente gli risposi: Che significa! Quello non è il mio Luca. Il mio Luca sei tu. Sorrise compiaciuto e andò via. E le ore di scuola trascorsero brevi al solo pensiero che Luca fosse con noi, in quei giorni. Era come se la sua presenza, preziosissima, mettesse le ali alle ore e al mio cuore.

    Tornò all’uscita per prelevarmi e accompagnarmi con la macchina a casa. Quel giorno Luca era particolarmente bello e me ne accorsi, anche, dagli sguardi ammirati e stupiti di tanti, puntati su di lui, mentre attraversavamo insieme il corridoio della scuola. Tutto questo, però, se da una parte mi poteva inorgoglire, dall’altra, mi imbarazzava incredibilmente. M’infastidiva. Ci sentivamo sotto fuochi di sguardi taglienti incrociati. Non eravamo soliti essere sotto i riflettori di qualcuno. Vivevamo tranquillamente in famiglia il dono prezioso della sua vita, in maniera molto discreta. La gioia d’un figlio così buono, bravo e bello la custodivamo gelosamente in cuore. Evitavamo di parlarne con chiunque, non solo perché temevamo le invidie, ma soprattutto perché ci pareva che, mettendo in risalto lui, potessimo offendere altri.

    Vivevamo l’incanto di un dono straordinario, in massimo riserbo e discrezione. A nessuno parlavamo della sua bravura e della sua bontà. Il valore di Luca non era un punto d’arrivo per noi, ma un punto di partenza verso una espansione graduale e progressiva delle sue innumerevoli virtù innate. La sua formazione ci premeva più d’ogni altra cosa. Ci adoperavamo perché si sentisse pienamente appagato nella ricerca di una relazione positiva con se stesso, prima di poterla stabilire, ugualmente positiva, con altri.

    Con lui avevo quel giorno tutta la felicità del mondo. Ne ero talmente consapevole da volerla preservare dalla invidia, per questo m’infastidivano quegli sguardi così persistenti. Non mi pareva vero che fosse finalmente con noi dopo mesi di permanenza a Milano. Quanto avevamo atteso il suo ritorno! E quanta paura avevo provato nei giorni precedenti pensando che potesse accadergli qualcosa in viaggio che gli avrebbe impedito di giungere a casa sano e salvo! Attraversammo tutto il corridoio scortati da quegli sguardi curiosi imbarazzanti. Finalmente fuori, soli e meno impacciati, ripercorremmo il breve tratto di strada fino al parcheggio della nostra auto. Ci ritrovammo di fronte, entrambi, dinanzi agli sportelli della macchina e, guardandolo in volto, mi accorsi di quanto fosse cupo. La cosa mi risultò molto strana tanto che gli chiesi: Luca che hai? Pare che ti sia caduto il mondo addosso! Mi rispose, con lo sguardo in terra ed un peso sul cuore: Sono molto stanco! Quella risposta, da una parte, un po’ mi tranquillizzò perché mi pareva una cosa non grave e per giunta così passeggera da non meritare alcuna preoccupazione, ma dall’altra mi adombrava pensando che in cuor

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