Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Adam
Adam
Adam
E-book239 pagine3 ore

Adam

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Virginia vive una vita felice a Cagliari con i suoi genitori, ha 18 anni e frequenta l’ultimo anno di liceo.Una sera, diretta ad un concerto con i suoi genitori e la sua amica Anna, hanno un brutto incidente d’auto.Virginia riesce ad uscire dalla macchina e a salvarsi ma prima che prenda fuoco davanti ai suoi occhi: i suoi genitori e Anna muoiono, lasciandola sola al mondo.Per la prima volta sente l’odore di Adam e lo vede: lui comincia a seguirla e si presenta anche al funerale dei suoi genitori.Un giorno lei decide di ascoltarlo. Capisce che è un fantasma e che tra loro si è creato una sorta di legame.Rendendosi conto di non avere più nulla da perdere, si trasferisce in Scozia per seguire un fantasma che la spinge a lasciare sua nonna e la sua vita in Italia.Col passare del tempo, si rende conto di aver sviluppato una dipendenza psicologica nei confronti di un ragazzo morto 60 anni prima che la sta isolando dal resto del mondo.Decidono di fare un viaggio a Copenaghen, ma durante una passeggiata in una scogliera, lui le chiede di fare qualcosa di talmente terribile che Virginia, terrorizzata e infuriata, scappa via…

Veronica Serreri, nasce a Olbia in sardegna dove attualmente vive. Adora leggere e scrivere fin da quando era bambina, soprattutto il genere urban fantasy. Usa la sua fervida immaginazione per creare personaggi fantastici. Adam è la sua prima pubblicazione.
LinguaItaliano
Data di uscita14 ago 2019
ISBN9788834170618
Adam

Correlato a Adam

Ebook correlati

Articoli correlati

Recensioni su Adam

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Adam - Vero S.

    bugia.

    PROLOGO

    Adam, Copenaghen, 9 aprile 1940

    Quando il proiettile colpì il deposito di munizioni, pensai di essere troppo giovane per morire.

    Avevo mille progetti da realizzare, per poter rendere mio padre fiero del suo unico figlio.

    Volevo diventare un architetto e lavorare alla costruzione di un ponte che unisse la Danimarca con la Norvegia, incontrare la donna che avrei sposato e che mi avrebbe reso il padre dei miei figli, progettare una casa sul lago, dove avremo passato il resto dei nostri giorni a contarci le rughe sulla fronte davanti a un caminetto.

    Avevo solo sedici anni; tante esperienze da fare, emozioni da provare e perché no, cuori da spezzare.

    L’esplosione mi colpì il viso, bruciava così tanto che pensai di morire dal dolore.

    Schegge di ogni tipo volavano nel cielo: frammenti di vetro, pezzi di cemento e di legno, e tra tutte quelle macerie qualcosa mi colpì il volto.

    All’inizio non fece neanche tanto male, ma durò solo una manciata di secondi, perché poi credetti che qualcuno mi stesse strappando via la pelle con un arnese rovente.

    E pensai di essere finito.

    È così ingiusto morire quando si ha così tanta voglia di vivere.

    Un boato, fumo, fiamme e la voce di un soldato che gridava: «Portatelo in ospedale, forse si salverà.»

    Ed io, ero sdraiato sulle macerie di quella che fino al giorno prima, era la strada che percorrevo per andare ad aiutare mio padre in pasticceria.

    E poi il vuoto.

    Mi risvegliai due mesi più tardi, in un letto di ospedale, con la voce di mio padre che diceva al medico di avermi visto muovere gli occhi:

    «Signor Hansen, quando suo figlio si sveglierà del tutto, dovrà essere pronto al peggio, potrebbe avere danni permanenti sia a livello cerebrale che fisico.»

    Sentivo tutto: il cinguettio del passero sull’albero di fronte alla mia camera, le infermiere muoversi al piano di sotto, il ticchettio dell’orologio da taschino di mio padre, il suo respiro, le lacrime calde che bagnavano le bende che avevo sulla mano, e il mio viso che continuava a bruciare.

    Avevo paura, solo questo.

    Una lacrima mi rigò la guancia.

    Mio padre se ne accorse.

    Lo sentii piangere più forte e stringermi la mano:

    «Adam non lasciarmi.»

    E in quel momento ebbi paura di morire per la seconda volta.

    Morire di crepacuore.

    Capitolo 1

    Virginia, Edinburgh, 5 luglio 2009.

    Fu il ricordo di un odore a convincerla che stava sognando, un odore che anche a distanza di anni la attirava in maniera incontrollabile. Non sapeva perché fosse attratta da un odore tanto disgustoso. Forse perché nel giorno peggiore della sua vita ci si era imbattuta, forse perché la memoria olfattiva è l’ultima a morire; un odore, un profumo appena carpito, riesce, a distanza di anni a rievocare particolari, richiamare dettagli visivi ma anche emozioni. O forse perché quel puzzo le infondeva sicurezza, significava che non era più sola, significava casa.

    Come un pugno nello stomaco risvegliò in lei sensazioni che aveva accantonato ormai da troppo tempo.

    Sapeva che sarebbe tornato nella sua vita, in un modo o nell’altro, ma comunque in maniera violenta.

    Può bastare un attimo a far perdere la concezione della realtà; un’immagine, un profumo, una canzone e in un secondo capì che non sarebbe mai riuscita a liberarsi di Lui.

    Lui era una parte di lei e in quel momento realizzò che lo sarebbe stato per il resto della sua vita, nonostante le avesse procurato tanto dolore.

    Appoggiò entrambi i piedi nudi sul pavimento freddo, e si alzò in piedi stiracchiandosi.

    Decise che era solo un sogno, e i sogni non potevano fare del male, o meglio, quelli che non comprendevano Adam.

    Si svegliò con lo stomaco sottosopra, un turbinio di emozioni si fecero strada dentro di lei e così, decise che una doccia calda e un dolce da Starbuck’s avrebbero alleggerito quel malessere.

    Shot through the heart and you’re to blame, il suo telefono stava squillando sulle note di You give love a bad name di Bon Jovi.

    Si mosse verso il comodino per andare a rispondere, sfilò dalla testa la canotta di Bon Jovi che usava per dormire, pronta per fiondarsi sotto la doccia non appena terminata la telefonata, e sbadigliando, sibilò:

    «Pronto?»

    «Ciao amica! Che ne pensi di un bikini verde mela?»

    «Lindsay, sono le sette del mattino. Non puoi svegliarmi e chiedermi cosa penso di un bikini verde mela!»

    Rise con la sua amica. Lindsay era così, riusciva a farsi detestare perché ti buttava giù dal letto, ma era così adorabile da farti dimenticare tutto. Una bionda tutta curve, gambe chilometriche e occhi azzurri. Inglese, veniva da un paesino vicino a New Castle, si era trasferita a Edimburgo qualche tempo prima, tentava una convivenza con la sua vecchia fiamma. Ma poi uno dei due aveva rotto e ora lei viveva sola in un appartamento di quarantacinque metri quadrati. Non le raccontò mai il perché della rottura, ma era sempre più convinta che lui l’avesse tradita con la sua amica Kate. Sorvolava l’argomento ogni volta che si nominava uno dei due. E Virginia non chiedeva niente, se un giorno avesse avuto voglia di parlarne, l’avrebbe fatto lei.

    «Dai Vì non prendertela con me! Ho bisogno di un consiglio.»

    Disse con la voce più infantile che riuscì a tirare fuori.

    Virginia alzò gli occhi al cielo e sorridendo rispose:

    «Lindsay sono mezza nuda, devo farmi una doccia e sto rischiando di fare tardi. Ci vediamo a pranzo e ne parliamo. Porta il costume, ok?»

    «Ti adoro. A dopo amica mia!»

    E chiuse la conversazione mandando una serie di baci con lo schiocco.

    Accese lo stereo e corse a farsi una doccia, bollente e rigenerante.

    I gotta feeling dei Black Eyed Peas la catapultò nella realtà, era il 2009, non sentiva quell’odore da così tanto tempo, ormai, che rimase per un attimo disorientata.

    Usò il suo bagnoschiuma preferito; cannella e menta piperita, e cercò di mandare via quella sensazione di malessere che si annidava nello stomaco.

    Si vestì di fretta e furia, indossando le prime cose che le capitavano a tiro: un paio di jeans e una maglia degli Aerosmith che coprì con una felpa. Aveva dimenticato di fare il bucato, quella settimana.

    Fece un bel respiro e uscì di casa, pronta ad affrontare il mondo.

    Mark la salutò scendendo le scale:

    «Hey Vì. Buongiorno.»

    Disse facendole l’occhiolino.

    Era un bel tipo. Uno scozzese doc; veniva dal nord delle Highlands e aveva un forte accento marcato. Capelli e barba rossicci, occhi verdi, un bel sorriso, un fisico muscoloso e tre tatuaggi sulle braccia che lo rendevano ancora più seducente.

    Stava andando al Royal Oak, il pub dove lavorava. C’era stata qualche volta: un locale carino su due piani, dove poter gustare una tipica birra scozzese e assistere alle performance musicali di artisti locali. Si trovava in Infirmary Street, a due passi da South Bridge e dall’Università di Edimburgo.

    Erano vicini di casa da un anno o due, non ricordava esattamente quando Mark andò a vivere nel palazzo. Sapeva solo, che una mattina uscì dal portone per portare fuori la spazzatura, indossando una tuta deformata, e lui era lì, che la guardava sorridendo e la salutava:

    «Buongiorno, io sono Mark.»

    E le porse la mano. Lei fece cadere il sacco per terra, arrossì violentemente e, senza dire il suo nome, ricambiò la stretta.

    Lui rise di gusto e disse:

    «Non ho capito come ti chiami.»

    «Virginia. Ma Vì può bastare.»

    «D’accordo Vì può bastare, piacere di averti conosciuta.»

    E salì al piano di sopra, senza nemmeno darle il tempo di rispondere.

    Era proprio affascinante, a Virginia piaceva guardarlo mentre si muoveva e scendeva le scale di corsa.

    A volte, quando la invitava a cena e bevevano un po’ troppo, finivano a letto insieme.

    La sua ragazza storica lo aveva appena lasciato e usava lei per distrarsi.

    Lei cercava disperatamente di non pensare, nel bene e nel male, ad Adam, e usava lui perché era proprio un’ottima distrazione.

    Lo salutò e scendendo le rampe di corsa, dall’ultimo scalino si girò e disse:

    «Stasera passi da me? Hamburger, patatine fritte e due birre ghiacciate.»

    Ghiacciate, come piacevano a lei.

    Diventò rossa, quel ragazzo la faceva sempre arrossire e rispose:

    «Ci sto. Io porto il dolce!»

    «A stasera, bella.»

    Le strizzò l’occhio.

    Gli sorrise, cercando invano di non arrossire un’altra volta e si avviò.

    Erano passati cinque anni ormai, da quando, spaventata e arrabbiata con tutti e con nessuno in particolare per essere rimasta sola, si era trasferita a Edimburgo. Dall’isola calda e immersa nel Mar Mediterraneo, la Sardegna, a quella fredda bagnata dall’oceano Atlantico e dal mare del Nord, la Scozia.

    Impiegò diversi mesi per abituarsi alle differenze di lingua, di usi e costumi e di paesaggi. E impiegò ancora di più a fare a meno di Adam.

    Lui era entrato nella sua vita in maniera impetuosa ma comunque silenziosa, in un giorno devastante che non avrebbe mai dimenticato, e allo stesso modo era andato via. E in qualche maniera, era sempre là, una presenza costante che non la lasciava libera.

    Passeggiando per Royal Mile tra i vari artisti di strada, si fermò davanti a un ragazzo che, con un violino, suonava e cantava una canzone rock.

    Una scelta azzardata quella di mescolare le note e le parole di Don’t stop me now dei Queen con uno strumento musicale così classico ed elegante. Ma era così bravo, che rimase ad ascoltarlo fino alla fine della canzone.

    Era davvero impossibile non apprezzarlo, suonava con tutto se stesso.

    Le sorrise e la sua mente la riportò indietro nel tempo.

    Virginia, Cagliari, agosto 2003

    Adorava ascoltare quella canzone insieme ad Anna, la sua migliore amica. Si conoscevano fin dai tempi dell’asilo. La sua unica vera amica. La chiamavano pel di carota. Era tutta una lentiggine e una massa di capelli ricci arancioni! Ed era divertente, una comica nata. Passavano sempre i pomeriggi insieme, a studiare e ridere davanti ai Simpson con una ciotola di popcorn. Una sera decisero di intrufolarsi nella soffitta della nuova casa di Virginia e mettere a soqquadro gli scatoloni portati il mese prima. Trovarono vestiti anni ’80 e un vecchio cd di Alberto, il padre di Virginia, e così, lo ascoltarono, rimanendo incantate dalla voce baritonale di quel cantante e provando gli abiti ormai fuori moda dei genitori della ragazza; orrendi pantaloni a zampa di elefante e cappotti verdi ancora più strambi.

    Immaginarono di fare una sfilata di moda adornando il tutto con piume e occhiali da sole dalla montatura bianca che coprivano metà viso.

    Anna muovendo il capo a ritmo di musica e chiudendo gli occhi, disse:

    «Wow, questo Freddie Mercury ha una voce da spaccare i timpani, è un vero e proprio uragano!», disse guardando la foto sulla copertina del cd. Ed era proprio vero, cantava in un modo così straordinario da mettere i brividi.

    La sera della festa di Marta, la ragazza più popolare della scuola, adrenaliniche ed euforiche, passarono tutto il pomeriggio ad ascoltare quel cd e a cercare un vestito per l’occasione nell’armadio di Lara, la madre di Virginia. Era una sarta e nel suo guardaroba avrebbero trovato di sicuro qualcosa di adatto. Sarebbe stata la prima festa senza coprifuoco, Virginia aveva intenzione di sedurre Leo e baciarlo. Una settimana prima dell’incidente…

    Capitolo 2

    Era solo una ragazzina allora, avrebbe dovuto godersi di più quei momenti di spensieratezza, perché poi, dovette diventare una donna in una notte.

    Si ridestò subito, doveva correre al lavoro, non aveva tempo per crogiolarsi o fermarsi da Starbuck’s per un dolcetto. Si ripromise di andarci nella pausa pranzo e strafogarsi di pancakes con succo d’acero.

    Il ragazzo la guardò gettare le monetine nel cappello, e muovendo solo il labiale, ringraziò.

    Lei arrossì, come le succedeva quando qualcuno si accorgeva di lei.

    E sorridendo, lui si rimise a suonare.

    Dava l’impressione di essere timida, sempre così taciturna e sulle sue, ma non lo era affatto. Semplicemente stava bene con se stessa e le piaceva.

    Attraversò la strada e si diresse verso lo studio di Eric.

    Lavorava per il Dott. Kilpatrick come segretaria; lui era un giovane avvocato di successo, bello e single, lavorava in giro per la Scozia, mentre lei, una giovane neolaureata, che cercava di racimolare qualche soldo, per pagare l’affitto del nuovo appartamento in cui si era trasferita due anni prima. Quando Eric non era a Edimburgo, si affidava a Virginia per gestire il lavoro d’ufficio: catalogare, schedare e conservare le diverse pratiche. Di donne e minori maltrattati, divorzi dove entrambe le parti volevano accaparrarsi fino all’ultimo centesimo, e persino qualche caso di detenuto italiano immigrato in Scozia, che non parlava una parola d’inglese, e chiedeva di ridurre la propria pena.

    Passò la mattinata in ufficio, un appartamento in Princes Street, con luminose vetrate che permettevano a quegli sporadici raggi di sole di scaldare la stanza, e una bella terrazza in cui poter prendere una boccata d’aria, magari bevendo un caffè. Si trovava all’ultimo piano di un palazzetto in stile georgiano, tipico di Edimburgo.

    Fece una pausa, preparò un espresso, la sua droga e addentò un biscotto alla cannella che aveva comprato strada facendo. Due mesi prima portò una moka da Eric e, ora anche lui apprezzava la dipendenza da caffeina, procurata dal forte caffè italiano.

    Uscì nella terrazza, e chiudendo gli occhi, inspirò a fondo l’aria di Edimburgo.

    Niente le riempiva i polmoni meglio di quella fragranza. O forse sì. L’odore di Adam.

    Il sogno della notte precedente l’aveva turbata, non ricordava praticamente nulla, ma quando si era svegliata, aveva sentito quell’odore e automaticamente credette di averlo sognato. Doveva averlo sognato. Per forza di cose.

    E così, ricordò…

    Virginia, Cagliari, ottobre 2003

    Aprì la finestra e inalò quell’odore, così raccapricciante ma che in qualche maniera la faceva sentire meno sola.

    La leggera brezza portava il suo fetore fino alle narici di Virginia. Menta e morte.

    E lei l’avevo accolto nella sua vita come qualcosa di cui non avrebbe potuto più fare a meno.

    Non era vivo ma neanche morto del tutto. Una presenza che poteva vedere solo lei. E le dava conforto averlo vicino.

    Ne aveva bisogno. Aveva bisogno di Lui.

    Alzò il mento e azzardò ad aprire gli occhi.

    Lui era lì, seduto sul cornicione della finestra, che la guardava.

    Braccia conserte poggiate sulle ginocchia, sguardo enigmatico e un sorriso perfetto da farle perdere battiti al cuore.

    Voleva toccarlo, sfiorare i suoi lineamenti, i contorni delle cicatrici che gli segnavano il volto, i capelli bagnati di salsedine.

    Allungò una mano verso il suo viso.

    Le rispose con quella sua voce profonda e spigolosa come Lui.

    Anche il suo modo di parlare aveva sbalzi di frequenza e d’intonazione, proprio come il suo umore.

    «Non lo fare.»

    «Adam, perché no?»

    «Lo sai perché.»

    «Sì, so quello che mi hai detto…»

    Lui sostenne il suo sguardo finché Virginia non fu la prima a cedere chiudendo gli occhi.

    Aveva questo potere, di farla sentire sempre come una bambina che non capiva le cose più ovvie.

    «Scusa…»

    «Piccola, non chiedermi scusa, ma non provare a toccarmi, ti faresti male.»

    «Perdonami, non lo farò più. Solo non arrabbiarti con me.»

    Lui rise con fare sprezzante facendola sentire ancora più ingenua.

    Odiava quando le parlava in quel modo, ma aveva un disperato bisogno che restasse con lei, che sottostava a ogni suo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1