Riflessi di morte
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Alessandro Incandela riceve un messaggio da un numero anonimo, contenente un indirizzo e una sorta di provocazione. Preso dalla curiosità, imposta l’indirizzo sul navigatore e in una radura trova il cadavere di una donna crocifissa. Sconvolto dalla macabra scoperta, decide di scappare e attendere che venga chiamato dal questore a occuparsi del caso. Inseguito dall’ombra del killer, Alex dovrà indagare anche su alcuni strani eventi che gli stanno accadendo e si convince che il maniaco sia una persona che lo conosce bene, più di quanto lui si conosca se stesso.
Laura Mancini, oltre a indagare insieme ad Alex sugli ultimi omicidi avvenuti in città, si trova, suo malgrado, a essere testimone di una violenza domestica.
Il killer sembra essere ovunque, ma è in una stanza oscura, segreta, che i lettori lo troveranno. A rivivere i momenti dell’uccisione della donna che tanto lo hanno esaltato.
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Anteprima del libro
Riflessi di morte - Rita Angelelli
Cover
Scatti
Alessandro Incandela dormiva beato sul suo letto quando, all’improvviso, la musica gli riempì la testa. Aprì gli occhi e si guardò intorno. Nessuno.
Le luci dei lampioni e del faro erano fastidiose e si appropriavano dello spazio aperto dell’appartamento, illuminandolo quasi a giorno. Dalla posizione in cui si trovava, disteso sul letto, riusciva a distinguere il profilo frastagliato dei tetti della città, i campanili delle chiese. Qualche finestra era illuminata, poche per la verità. Le luci delle auto, poche anche quelle, sfrecciavano lungo le vie ancora libere dal traffico.
Chiuse gli occhi e si tappò le orecchie con le mani, ma era del tutto inutile: la musica continuava a suonare nella sua mente. Nessuna voce, nessun cantante. Solo quella melodia struggente. Tentò di ricordare dove l’avesse sentita prima di allora, ma nei suoi ricordi non c’era alcun collegamento, un titolo, una band, dei volti. E nessuna voce.
Ricordi. Dove erano finiti i suoi ricordi? Non rammentava nulla della sera prima. Che cosa aveva fatto? Come era tornato a casa? Tutto era avvolto in una fitta nebbia. E quella melodia? Perché continuava a ronzargli in testa? Era forse legata a qualcosa che aveva fatto la sera prima? Si era ubriacato e per questo non ricordava nulla?
Si sentiva stanco, spossato, come se il giorno avanti fosse stato costretto a correre una maratona. Aveva i muscoli rattrappiti. Cercò di allungarsi, di sciogliere i nodi fisici e psichici e ritrovare nella ragione il senso di quella musica. Come poteva quella canzone avere così tanto potere su di lui? E perché proprio quella? Non riuscì a trovare una risposta plausibile. Si sentì sconfitto. Così rimase con gli occhi chiusi ad ascoltare la musica, la testa appoggiata sul cuscino.
La melodia si fece sempre più flebile e poi smise di suonargli in testa. Si riaddormentò. Sognò un bambino e i suoi genitori. Una famiglia all’apparenza normale, due genitori amorevoli.
Il bambino aveva costretto sua madre a guardare sotto il letto e dentro gli armadi, convinto che alcuni mostri si fossero intrufolati in quei posti. Dopo il controllo, la donna aveva cominciato a leggergli la favola della buonanotte, ma la storia era così brutta e paurosa che per lui era anche peggio dei mostri immaginari. Il bambino piangeva, nella stanza era entrato anche suo padre, un uomo grande e grosso dal viso butterato. L’uomo aveva subito infilato le mani sotto le lenzuola e gli aveva bloccato i piedi, intimandogli di stare fermo. La donna aveva smesso di raccontare la favola, sorrideva. Un sorriso strano, malato. Rideva solo con la bocca, mentre gli occhi, neri e grossi come un’unica, enorme pupilla, occupavano tutta l’orbita.
«Voi non siete mamma e papà», urlava il piccolo. «Siete dei mostri, andate via! Non vi voglio qui. Mamma! Papà!»
Urlava e si dimenava in preda alla paura, e cercava di liberarsi dalle mani dell’uomo che sembravano una morsa d’acciaio. Le unghie gli graffiavano le caviglie e lui singhiozzava dal dolore. La donna fumava e rideva, una risata sguaiata, e a tratti incitava l’altro ad affondare di più le unghie nella carne tenera del bimbo.
Li vide trasformarsi in fumo nero. Due mostri veri e propri, dalla grande bocca aperta e la gola profonda e orrida; le dita finivano con artigli acuminati e neri. Il fumo denso lo avvolgeva sempre più. Fino a che anche lui scomparve al suo interno.
Alex si svegliò di soprassalto e si mise a sedere sul letto. Era madido di sudore e stanco; gli occhi appiccicosi. Riuscì ad aprirli quel tanto che gli bastò per accorgersi che si era fatto giorno. Si sfregò gli occhi, anche se muovere le braccia gli costava fatica.
La stanza era invasa dal sole e i raggi tagliavano le volute di pulviscolo come lame affilate. Scostò le lenzuola. Era nudo. Alzò un braccio per proteggersi dalla luce del sole e un improvviso dolore alla spalla lo colpì. Lasciò ricadere il braccio sul materasso. Cercò di muoversi, tentò anche di alzarsi, ma era tormentato da dolori terribili.
Un’ombra scura si delineò fuori dalla finestra: una nuvola, forse l’unica esistente in quel primo mattino, e restituì alla stanza una luce quasi tranquilla. Scese dal letto e prese la scatola del Brufen da un cassetto del comodino. Tirò fuori un blister e schiacciò sulla plastica, estraendo una pastiglia. La ingurgitò con l’aiuto di un sorso d’acqua da una bottiglia che teneva accanto al letto.
Gli tornò in mente il sogno; il bambino che aveva immaginato gli ricordò se stesso, ma non i suoi genitori. Loro li riconosceva solo dalle foto sparse per casa e i suoi ricordi d’infanzia erano sepolti in un limbo in cui non riusciva ad accedere.
Mosse qualche passo, ma non era stabile sulle gambe e la testa gli girava. Si appoggiò come poté ai mobili che trovò sul suo cammino e si diresse verso l’unica porta esistente nell’appartamento. Dietro la porta, il bagno. Aveva bisogno di pisciare, di lavarsi, di togliersi di dosso il sudore della notte e un insistente profumo di vaniglia che non riusciva a sopportare. Rimase sotto il getto della doccia per almeno una decina di minuti, senza muoversi. Voleva che l’acqua portasse via la nebbia che invadeva il suo cervello, che i ricordi tornassero limpidi, soprattutto quelli della notte appena passata. Per il resto, la sua vita era ben chiara.
Uscì alla doccia e si asciugò. Cominciò a rasarsi canticchiando Impressioni di settembre
della Pfm, e mentre cantava "E leggero il mio pensiero vola e va. Ho quasi paura che si perda…", vide un’ombra passare nello specchio.
Smise di cantare e si voltò di scatto, ma dietro di lui non c’era nessuno. E neanche nel resto dell’appartamento, come poté verificare sbirciando dalla porta socchiusa. Uscì dal bagno per controllare meglio. Afferrò la pistola che teneva nella fondina appesa alla parete e la impugnò con entrambe le mani.
L’open space era come lo aveva lasciato. O quasi. La porta-finestra che dava sulla terrazza era socchiusa. Non si ricordava di averla aperta poco prima, ma non ricordava nemmeno quello che aveva fatto la sera precedente, quindi pensò di averla lasciata in quel modo già dalla notte.
Posò la pistola sul piano della zona cucina. Si disse che era troppo prevenuto e che il mestiere che faceva lo aveva reso così: sospettoso, sempre pronto all’attacco, troppo incazzato con il mondo intero. Scrollò la testa dandosi dell’imbecille.
Prese del latte dal frigo, lo scaldò nel microonde e lo sorseggiò seduto su uno sgabello della penisola della cucina, senza fare altro se non fissare un punto imprecisato dell’appartamento, vuoto di pensieri.
Il suono di una notifica del cellulare, che non lesse, lo scrollò dall’apatia; decise che era arrivato il momento di vestirsi e uscire. Prese gli abiti della sera prima per infilarli nel cesto della biancheria sporca e sentì ancora quel profumo di vaniglia. Era così dolciastro che ne ebbe repulsione. Indossò abiti puliti che Luisa, che andava ogni giorno da lui a fare le pulizie, aveva riposto con cura negli armadi e nei cassetti, e si sentì a posto.
Il bip del cellulare richiamò di nuovo la sua attenzione. Stavolta andò a controllare. Un messaggio. Anonimo. Nel testo, un indirizzo e la frase: Chi cerca trova
.
Posò il cellulare sul comodino senza riflettere sul contenuto del messaggio e finì di vestirsi, deciso ad andare in questura. Poi, però, ci ripensò. La curiosità era più forte