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Non ti scordare di me
Non ti scordare di me
Non ti scordare di me
E-book203 pagine2 ore

Non ti scordare di me

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Info su questo ebook

Serena è da poco iscritta all’albo degli psicologi, quando le viene affidato il caso dello strambo del paese, un cinquantenne che vive in un camper malmesso davanti a casa sua, denunciato per stalking da una giovane ragazza. Durante le sedute, scopre che si chiama Edoardo e inizia a scavare nel suo passato per capire cosa si cela dietro al suo gesto. Emerge così, mano a mano che Edoardo abbassa le difese, come tutto sia riconducibile alla storia d’amore con una ragazza, Ginevra, interrotta molto tempo prima a causa di un tragico incidente. Ma cosa ha portato Edoardo a vagare per vent’anni, da solo, in un camper arrugginito? Per aiutarlo a elaborare il lutto rimasto ancora in sospeso e per scoprire tutta la verità, Serena dovrà assecondarlo, così da guadagnarsi la sua fiducia, arrivando a intraprendere un viaggio che porterà entrambi ad affrontare le ombre del proprio passato. Un romanzo che si interroga sul confine sottile tra ciò che è giusto e ciò che è necessario per riuscire a sopravvivere a un dolore tanto profondo. Una storia che, con i conflitti interiori dei suoi personaggi, restituisce la libertà di essere imperfetti e la speranza di potere sempre ricominciare.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2023
ISBN9791222406114
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    Anteprima del libro

    Non ti scordare di me - Martina Monti

    Prologo

    Edoardo

    Ho perso il conto di quante persone mi hanno chiesto cosa ricordassi di quella notte.

    Ci sono tre cose per cui tutti noi proviamo una curiosità morbosa e vorace, che non ci rende mai sazi di ingurgitare nuovi succulenti dettagli: il sesso, gli scandali e il dolore degli altri. Ci abbuffiamo alla tavola dei dispiaceri altrui; arraffiamo tutto ciò che possiamo e lo facciamo perché la nostra vita ci sembri meno miserabile, o forse solo per soddisfare quel sadismo malato di cui ci vergogniamo tanto.

    Non saprei. Lei non è come loro, mi ripeto, lei fa solo il suo lavoro. Eppure, mentre attende che le confidi cosa accadde nella notte peggiore della mia vita, mi accorgo di come prova a nascondere quella curiosità famelica, che la rende uguale a tutti gli altri: avvicina le unghie curate al viso e sistema gli occhiali sul naso con un gesto meticoloso, accavalla le gambe minute, raddrizza la schiena e, con un movimento impercettibile, si protrae in avanti, pronta all’ascolto.

    Non così in fretta, cara dottoressa mi dico tra me e me, allungando la mano verso il bicchiere d’acqua sul tavolo. Chiudo gli occhi e butto giù tutto d’un fiato, come se fosse un bicchiere di assenzio, che mi avrebbe permesso di raccontare ogni cosa, nascondendo il mio dolore.

    Non volevo darle quella soddisfazione.

    Non l’avrei data a nessuno.

    «E va bene» dico ad alta voce, «iniziamo».

    Capitolo 1

    Serena

    Il vecchio camper era rimasto parcheggiato davanti a casa mia per mesi. In quel periodo gli abitanti del paese l’avevano etichettato come La casa mobile del terrore e se ne tenevano alla larga, non tanto per il suo aspetto, quanto per le stranezze di chi ci abitava. Questo appellativo incuriosì i miei coetanei dell’epoca al punto da sceglierla come luogo designato alle prove di coraggio che, inizialmente, mi avevano divertita… finché non era arrivato il mio turno. Ripensando a quel momento, sento ancora un tremito scuotere il mio corpo e quelle parole lontane mi risuonano nelle orecchie, come se fossero state pronunciate solo qualche giorno fa: «Dai Sere, ora tocca a te! Non avrai mica paura? La finestra è aperta e il matto è andato a scolarsi una birra! Devi solo entrare, rubargli uno dei suoi cappelli e uscire!». Avevo quattordici anni, un’età infida e ingannevole, e non ero certo una ragazza che si faceva notare: capelli biondo cenere che arrivavano a metà schiena, due castagne al posto degli occhi, fisico standard, peso standard, altezza 1.58, che avevo magicamente trasformato in 1.60 sulla carta d’identità.

    Mi appoggio allo schienale del mio studio, chiudo gli occhi e lascio che la mia mente ripercorra ancora una volta quella notte di tanti anni fa. Non avevo avuto scelta, o meglio, ce l’avrei avuta, ma implicava essere tagliata fuori dal gruppo, come era successo a chi si rifiutava. Ricordai il mio patetico tentativo di salvarmi: «Non vorrete far entrare una ragazza da sola?». Mi ero giocata la carta rosa, fingendomi sorpresa, ma in cuor mio sapevo già che non avrebbe funzionato.

    «Non volevate la parità dei sessi?» aveva replicato tagliente Giulio, il capobranco, e mi aveva passato la torcia, digrignando i denti in una smorfia animalesca, mentre il resto del gruppo sghignazzava dietro di lui.

    Senza dire una parola, la afferrai e guardai l’esterno della Casa mobile del terrore: aveva le sembianze di un rettile dalle squame scrostate, che lasciavano intravedere soltanto un pallido ricordo del rosso fiammeggiante di tanti anni prima. Non c’erano luci accese al suo interno, ma una finestra era stata lasciata aperta per fare passare un po’ di aria, in quell’afosa serata di fine maggio del 2003. Qualcuno mise le mani sotto il mio piede per aiutarmi a salire. Feci un respiro profondo e iniziai lentamente ad arrampicarmi, tra le grida di incoraggiamento di quelle che al tempo reputavo mie amiche.

    «Ne varrà la pena» continuavo a ripetere fra me e me, «sarò considerata la più coraggiosa del gruppo».

    Solo molti anni dopo avrei capito che il vero atto di coraggio, nella vita, era imparare a dire di no.

    Mi ritrovai così a cavalcioni sul bordo della finestra. Tutti applaudirono, anche Giulio, ma l’unico suono che riuscivo a sentire erano i battiti del mio cuore che, come un treno ad alta velocità, inghiottivano i rumori che mi circondavano: tu-tum tu-tum tu-tum.

    «Ne varrà la pena» continuavo a ripetermi come un disco rotto e, con un balzo, atterrai dall’altra parte.

    L’interno della Casa Mobile non era affatto come mi sarei aspettata e sembrava impossibile che appartenesse proprio alla carcassa che avevo visto da fuori. Ogni dettaglio era curato con un’attenzione maniacale, come se il proprietario aspettasse un ospite da un momento all’altro: l’occhio mi cadde subito su un mazzolino di margherite, accuratamente riposto in un minuscolo vasetto di vetro sulla tavola della cucina, che era apparecchiata per due e coperta da una tovaglia lilla con ricami fiorati. Eppure ero certa che ci vivesse un uomo solo…

    Lasciai vagare il fascio di luce della torcia, cercando la mia unica via d’uscita, il cappello dell’uomo, ma al suo posto mi ritrovai di fronte al disegno di una mappa dell’Italia che occupava quasi tutta la parete. Diverse regioni erano coperte da post-it colorati che riportavano delle note scritte a mano. Ne lessi qualcuna: donna, orologio al polso, capelli biondo cenere. Mi avvicinai per osservare meglio quella strana cartina, dimenticando per un attimo dove mi trovassi, e non mi accorsi che gli schiamazzi dei miei compagni non mi accompagnavano più, ma avevano lasciato spazio a un silenzio tombale. Non feci in tempo a realizzare cosa stava accadendo che la porta del camper si aprì ed entrò una figura vestita di nero, come un’ombra, che nascondeva il volto sotto ad un cappello a cilindro.

    In quel momento non mi sembrò più di trovarmi nel camper, ma di essermi teletrasportata in una navicella spaziale, senza ossigeno e senza via di fuga.

    Allo stesso modo di quando venivo colta sul fatto dopo una marachella, ammutolii e fissai lo sguardo sui miei piedi, come se non capissi per quale motivo avessero preso in autonomia la decisione di portarmi fin lì.

    L’uomo non sembrava sorpreso di vedermi, probabilmente gli era già capitato altre volte di ritrovarsi dei ragazzini dentro al suo camper, oppure non si era limitato a bere solo una birretta quella notte. Con un movimento lento, trascinò i suoi piedi sotto al tavolo della cucina, si sedette e, come se nulla fosse, mi chiese se gradissi un bicchiere di tè. Scossi la testa decisa mentre mi rimbombava la voce di mia madre, che mi ricordava di non accettare alcuna sostanza dagli sconosciuti, nemmeno se fosse stata bio.

    «Allora ragazzina, in cosa posso esserti utile?» mi chiese l’uomo-ombra.

    La sua voce aveva un tono divertito e sarcastico, difficile da interpretare. Dal canto mio, nella mia navicella mentale ero a corto di ossigeno e così risposi tutto d’un fiato: «Mi scusi signore, era solo una stupida scommessa con i miei amici. Ora me ne vado subito». Continuavo a fissare i veri responsabili: i miei indisciplinati piedi.

    «Per l’amor del cielo, guardami. Non ho mai mangiato alcun ragazzino…» disse l’uomo, ma poi non resistette e con un ghigno sul viso aggiunse: «… per ora».

    Alzai lo sguardo, incuriosita e spaventata allo stesso tempo, e mi ritrovai davanti a due occhi blu, che mi osservavano beffardi, sorretti, poco più in basso, da un ghigno arricciato all’angolo destro della bocca. Dietro a quello sguardo mi sembrò per un attimo di intravedere un ragazzo della mia età, come se fosse rimasto incastrato lì, in quel corpo invecchiato senza il suo permesso. Una folta chioma di capelli riccioluti e brizzolati incorniciava il viso dell’uomo fin sotto il mento, quasi a voler trarre in inganno chiunque si interrogasse sulla sua età. Scoprii infatti in un secondo momento che aveva solo trentaquattro anni, portati decisamente male.

    «Ah bene, finalmente ti sei decisa. E ora dimmi: cosa avresti dovuto fare per vincere la scommessa?» mi chiese l’uomo.

    Mi vergognavo terribilmente e in un sussurro risposi: «Rubarle il cappello, signore».

    Lui scoppiò a ridere.

    «Questa è bella! Non pensavo che a qualcuno potesse interessare questo vecchio cappello da quattro soldi!» disse e, senza aggiungere altro, si alzò, appoggiò sul tavolo il cappello a cilindro e si diresse verso la porta del camper, sparendo di nuovo nella notte, così come era apparso.

    Sono trascorsi sedici anni da quell’incontro e non ho mai più rivisto la Casa mobile del terrore né l’uomo dal cappello a cilindro. Ma il passato torna quando meno te lo aspetti a bussare alla tua porta e oggi, davanti alla mia, ho trovato una busta con indicate le parole: Alla cortese attenzione della dott.ssa Romano.

    Di cortese, però, non c’era proprio un bel niente.

    Capitolo 2

    Edoardo

    In seguito a un episodio traumatico, dicono che non ricordi esattamente le parole e le conversazioni di quel momento. Forse è per questo che la prima cosa che mi viene in mente, pensando a quella notte, è la teiera fumante di mia nonna, quella bianca con sopra dipinti i fiori blu. Credo fossero dei Non ti scordar di me. A volte il destino comunica con noi in modo sadico e perverso. La storia di quei fiori deriva da una leggenda austriaca che narra di due innamorati che passeggiavano lungo il Danubio, quando videro una grande quantità di fiori blu, trasportati dalla corrente. Il giovane allungò la mano per raccoglierne qualcuno da regalare alla sua amata, ma venne inghiottito dalle acque e si dice che le sue ultime parole furono: Non dimenticarmi mai. Da allora il fiore prese il significato dell’amore eterno e si chiamò Non ti scordar di me.

    Nonna Rina aveva un animo piuttosto romantico e nella vita, a parte la sua famiglia, amava soltanto altre due cose: un buon tè caldo e il suo giardino fiorito. Il massimo della gioia per lei era unire le due cose e sorseggiare il suo tè alla finestra, mentre guardava noi bambini giocare in giardino.

    Il giorno in cui decise che era arrivata l’ora di salutarci, fu come svegliarsi da un lungo letargo e scoprire che fuori era già sbocciata la primavera, leggiadra e prepotente, senza chiederci il permesso.

    Il giardino di nonna era esploso in un tripudio di colori, ma lei continuava a perdere i suoi petali, uno alla volta. Secondo il medico non sarebbe arrivata a vedere quella primavera e ci aveva raccomandato di farle visita al più presto. Entrai nella stanza e le accarezzai la riccia chioma di capelli bianchi. Lei aprì gli occhi, sorrise e mi chiese: «Hai visto com’è bello il giardino?».

    Era costretta a letto ormai da settimane. Come poteva saperlo?

    «Sì nonna, è una meraviglia» risposi, confuso.

    Dietro di lei c’era la foto di una donna sorridente, nel suo giardino fiorito.

    «Il giardino è stato tutta la mia vita e lo conservo qui» disse, indicandosi il cuore con le mani, «lo coltivo ogni giorno».

    «In che senso nonna?» le chiesi con sguardo interrogativo.

    «Ne mantengo vivi i fiori della memoria. Non lascio che appassiscano. Vedi quei gerani colorati?» feci cenno di sì con la testa, assecondandola.

    «Se chiudo gli occhi sento ancora le grida dei bambini, che corrono sul prato. C’eri anche tu, ricordi?»

    Per un attimo sento il vento che mi scompiglia i capelli e intravedo una palla che rotola sul prato, in mezzo ai gerani rossi.

    «E quelle petunie, le vedi?» continua la nonna. «Il loro profumo riempiva la casa di amore ogni volta che il nonno me le lasciava sulla finestra… ma ora devi farmi una promessa».

    «Certo nonna, quello che vuoi».

    «Non smettere mai di curare il tuo giardino. È tutta lì, la felicità» disse sorridendo, poi chiuse gli occhi e nella stanza entrò un inconfondibile, avvolgente, profumo di petunia.

    Ecco, quello fu un bell’addio.

    Non bisognerebbe mai andarsene senza salutare.

    Quel 10 gennaio 1989, invece, si portò via tutto, anche il tempo dei saluti.

    Avevo posizionato la pancia fiorita della teiera di mia nonna sul fuoco e un profumo di cannella stava già iniziando a spargersi per tutta casa. Era da poco passata l’una di notte e Ginevra mi aveva salutato con un bacio veloce, prima di tornare a casa. Sua madre sicuramente l’avrebbe sgridata per l’orario: era incredibile quanto le stesse ancora con il fiato sul collo nonostante lei avesse compiuto vent’anni! Forse, se avesse accettato la nostra relazione, sarebbe stato diverso e non ci saremmo dovuti sudare ogni minuto che passavamo insieme. Forse non se ne sarebbe andata così tardi da casa mia… Da vigliacco vorrei riversare su sua madre tutte le colpe di quella notte ma, dentro di me, la verità è come un grido assordante, impossibile da ignorare: non sarebbe successo nulla se non l’avessi pregata di restare

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