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Chiudo gli occhi per vedere meglio
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Chiudo gli occhi per vedere meglio
E-book202 pagine2 ore

Chiudo gli occhi per vedere meglio

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Info su questo ebook

“Che altro è la vita dei mortali se non una specie di commedia nella quale gli attori che si travestono con vari costumi e maschere entrano in scena e recitano la loro parte finchè il regista li fa scendere dal palcoscenico?”

Questa è una storia senza tempo, incredibile, assurda, difficile da raccontare. Potrebbe sembrare una fiaba, e come in ogni favola ci sono tristezza e meraviglia. Questa, però, non è una leggenda, come non può essere una favola il paradosso dell’esistenza.

Questa è la storia di Paul, ventenne, che da un po’ di tempo si sente osservato da un anziano, spiato da un vecchietto che si nasconde tra le pieghe della vita e lo guarda da lontano, con occhi di compassione.

Ma questa è anche la storia di Paul, quasi ottantenne, emigrato in Asia alla significativa età dei 33 anni e tornato a casa più di quarant’anni dopo, per trovarsi davanti, paradossalmente, se stesso ventenne, nella sua quotidianità di allora.

Come se si fosse aperto un varco nella barriera del tempo, come se i vari universi paralleli convergessero in uno stesso luogo, i due Paul si trovano a confrontarsi con riflessioni coinvolgenti e ironicamente serie da ciascuno dei due punti di vista: il se stesso giovane e il se stesso anziano.
LinguaItaliano
Data di uscita30 dic 2015
ISBN9788891195708
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    Anteprima del libro

    Chiudo gli occhi per vedere meglio - Paul Valenti

    terra.

    Capitolo 1 A

    È una normale giornata di sole

    È una normale giornata di sole, di quelle che non annunciano nulla di speciale.

    Mi chiamo Paul, ho vent’anni, sono giovane e, secondo alcuni, scapestrato. Approfittando della mia comoda condizione di giovane disoccupato, accompagno il cane al guinzaglio delle mie inquietudini.

    «Quello è il tuo cane?», mi chiede Liza guardando Chicco con quell’atteggiamento apatico e supponente da vispa teresa.

    Indossa grandi occhiali da sole con una montatura in plastica verde ramarro, capelli di colore ultravioletto rizzati tra la testa e il cielo, mentre una serie di orecchini a catenella sfidano la forza di gravità aggrappandosi a lobi formato braciola.

    Ha un’aria esigente da donna-bambina cresciuta a capricci e pretese, e il solo starle accanto mi crea uno strano effetto di sovrapposizioni temporali.

    «Sì, anche se sono certo che lui preferisce pensare che io sia il suo umano» rispondo felice come un orsacchiotto per avere intrapreso un dialogo con lei.

    Nessuno lo sa, tanto meno lei, ma Liza mi piace, mi fa impazzire. Scalerei le montagne più ardite pur di poter poi riposare all’ombra del suo cuore.

    «Beh, sì, potrebbe essere, anche se non riesco a capire come potrebbe pensare una cosa del genere. Piuttosto, dimmi, come fai TU a pensare queste minchiate?»

    Me ne sto zitto, leggermente imbarazzato, mentalmente bloccato dalla mia timidezza.

    Secondo me, quelle tortuosità psicologiche fatte di esitazione, di impaccio, di pudore che compongono la timidezza, sono causa di infinite sofferenze nella vita pratica, ma, nello stesso tempo, la principale origine di ogni ricchezza interiore, conseguenza naturale delle frustrazioni subite nella vita esteriore.

    Eppure, ho sentito dire che invece la timidezza è figlia di uno smisurato orgoglio, gravida dell’immaturità di sentirsi al centro del mondo, al centro dell’attenzione. I timori e le angoscie con le quali si manifesta sono spessofortificazioni edificate da una esagerata considerazione di sé, dietro le quali essa vive in prosperità nutrendosi delle energie della vittima: il timido!

    Ma com’è che Liza deve essere sempre così scorbutica e indisponente?

    Come dicevo prima, nessuno lo sa, a volte nemmeno io, ma questa stronza mi piace, mi fa letteralmente impazzire.

    Ah, se solo Dio si decidesse a provare la propria esistenza mettendomela fra le braccia, la farei lievitare di felicità, la consumerei di cortesie e premure, la terrei come la cosa più pregiata di questa Terra.

    La mia amata non avrebbe il tempo di respirare da sola, perché io respirerei con lei; non potrebbe avere fame, perché io l'avrei già saziata; non potrebbe avere sete, perché io l’avrei già dissetata; non potrebbe dubitare, perché io l’avrei già rassicurata; non potrebbe desiderare, perché io l'avrei già soddisfatta; non potrebbe scappare... perché io l'avrei già incatenata.

    Lei sarebbe per me il riposo dopo un lungo giorno d’affanni, il conforto del risveglio dopo una notte d’incubi, pietra preziosa pendente dal cuore, colei che mi farebbe sentire uomo finalmente felice e appagato. Lei sarebbe padrona e regina dei miei pensieri, sogni e azioni, l’incantatrice che toglie sonno e appetito, inquietudine e dolore.

    Sarebbe lei, quella lei, e chiunque abbia mai amato veramente, conosce bene tutte le meravigliose implicazioni che contengono quelle tre lettere: L-e-i.

    Questo è Amore, quello stato di grazia e disgrazia che toglie il sonno, che rimanda la fame, che distrae la mente... Il castigo degli dèi perché non siamo riusciti a restare da soli con noi stessi. È una fiamma che acceca e corrompe la ragione, la dignità, il rispetto di se stessi… in fondo però, resta pur sempre la sublimazione dell’esistenza.

    Se mai potessi averla, ringrazierei Iddio per aver posato sulla Terra un angelo tutto per me, da carezzare e stringere tra le braccia, una creatura in grado di liberarmi l'anima e innalzarmi al di sopra di tutto e tutti, al di là della realtà stessa... Vedrei in lei la madre dei miei bambini, saprei finalmente che il mio cuore avrebbe trovato un posto in cui fermarsi: sono convinto che la mia vita inizierebbe con lei, e senza di lei potrebbe addirittura finire.

    Dicasi amore quello stato passeggero ma confusionale

    che trascorre da un’illusione a una delusione.

    (M. Veneziani)

    Mi scopro a sognare di assaggiarle le labbra, con la lingua pulirle i denti e rimuoverne tartaro e calcare, soffiarle il naso, sfiorarle i padiglioni auricolari, marchiarla di succhiotti, palparla, palpeggiarla, titillarla.

    Con zelo scolastico studierei la geografia del suo corpo, la trigonometria delle sue forme, la storia della sua vita, l’educazione del suo fisico, la biologia... delle cozze!

    Ebbene sì, perchè questa è più di una vagina, questa è il sorriso di un mollusco!

    La vagina, con quel suo segreto inviolabile anche sotto la luce di un faro, è dimora di tante voglie e ardori, è causa di travagliate irrequietezze maschili, è l’istintiva molla alla procreazione. Quante sbornie alla sua salute sono state confuse con l′amore, quante lacrime portano ancora il suo nome, più o meno consapevolmente, e quanto alta viene portata su scudi di ataviche crociate addobbate di nobili propositi!

    Goloso di questo miele uterino, l′uomo fa di tutto per sedersi al banchetto del piacere, spinto da palpabili appetiti anatomici.

    Il corpo della donna va sfiorato con leggere mani d′angelo, lambito sulla sua superficie come una veste in seta che ne accarezza la carnagione, fluttuando su di un cuscino d′aria mentre lei si muove.

    La donna va vestita di suadenti pensieri, affinché ogni luogo del suo essere si dischiuda per ricevere infiniti omaggi d′amore.

    Va scoperta svestendola, bottone dopo bottone, come quando si sbuccia una caldarrosta in una fredda notte d’inverno.

    In lei va cercata la bellezza celata negli angoli più reconditi, e in lei va liberato il desiderio di sentirsi amata, per poi lasciarsi completamente avvolgere in quell’indicibile ardore che sa donare.

    La donna va gustata con l’appetito della trasgressione, fino a farle credere che può essere soddisfatta solamente quando non avrà consumato la lingua che la sta divorando.

    «...E allora? Ti sei incantato! Si può sapere cos’hai da fissarmi con quello sguardo da invasato?»

    Le sue parole mi svegliano di soprassalto dal mio dolce e disperato delirio d’amore...

    Il suo tono aggressivo, notevolmente fuori luogo, mi butta addosso un macigno d’imbarazzo dal quale, lo so per esperienza, posso uscirne solo scappando a gambe levate.

    Silenzio... imbarazzo... come posso correre via senza dare l’impressione di fuggire? Del resto, io quando fuggo non fuggo realmente, ma inseguo me stesso già proiettato altrove.

    Questi sono i momenti durante i quali vorrei non essere mai nato. Possibile che, in particolari contingenze della nostra esistenza, non vi sia un modo per evaporare tra le nebulose di un qualche universo parallelo che sicuramente ci vibra accanto? Non dico per sempre, solo il tempo necessario a riavvolgere il nastro delle nostre vite.

    Ora vorrei solo darmela a gambe e farmi uno spinello carico come non mai, l’unica nebulosa a portata di mano, e liquefarmi tra quel fumo balsamico che mi porta alla realtà che piace a me.

    Era da tanto che sognavo di poterla incontrare, e ora che è davanti a me, dopo il mio esordio con una battuta che non mi pareva neanche male, non mi viene niente da dire, mi perdo nel vuoto totale, un sottovuoto cronico... e lei non mi dice niente.

    Vorrei trovare un modo per sciogliere con le parole quella tensione e rendere la comunicazione più facile, ma non riesco a usare né il tono né gli argomenti giusti. Mi sento rigido e innaturale come un baccalà. Mi rendo conto che la situazione mi sta scivolando tra le mani.

    Lei sposta lo sguardo indagatore tra me e il cane, mentre io sono colto sempre di più dal panico e Chicco perde bave di lato lasciando tracce sulle mie scarpe. Mi sento impacciato e maldestro, privo delle qualità minime necessarie per avvicinare la ragazza che ha abitato il mio intimo fin da ragazzino, i tempi in cui l’ho idealizzata consacrandola all’altare del mio cuore.

    Uomini e donne vivono nello stesso luogo e nello stesso

    tempo, però in dimensioni differenti.

    (I. Allende)

    Dopo un paio di minuti, lunghi quanto un paio di secoli, lei si abbassa al cospetto di Chicco e inizia a coccolarlo, urlandogli nelle orecchie silenziose frasi d’affetto. Lo accarezza in maniera prorompente, si lascia leccare le guance e strusciare il muso tra i grossi seni mentre il cane, incredulo, si lascia trasportare dalla straripante euforia del momento.

    Io osservo, dall’alto della mia insicurezza, inebetito e, a dirla tutta, anche un po’ ingelosito. Il cane di tanto in tanto mi guarda di sottecchi con quell’aria trionfante da presa per il culo: ne sono sicuro, lui è cosciente dei miei sentimenti e mi sta deridendo nascondendosi dietro all’innocenza dell’essere un animale domestico generoso di effluvi emozionali.

    Più tardi faremo i conti, mio bel cagnolino pulcioso e bavoso, penso tra me. Mi costa ammetterlo, ma sono geloso del mio cane...

    Quanto vorrei essere io ad affondare le mie guance tra quei seni tronfi e rigogliosi, sbavare e lasciare autostrade di saliva su quelle gote gentili, facendomi ricoprire delle sue carezze e attenzioni.

    Perché non sono io il cane e lui il mio umano? Possibile che al giorno d’oggi, con tutti ‘sti derivati farmaceutici e miracoli della chirurgia plastica, non ci sia ancora una terapia per diventare cane?

    Sarebbe tutto più semplice: una volta che ti trovi un umano con un minimo di amore e la presunzione di sentirsi padrone, ti fai una vita all’insegna dell’ozio e dell’accondiscendenza. Non devi rendere conto a nessuno dei tuoi sentimenti, hai la libertà di agire secondo istinto e, quando mai ti attizzasse una cagna, basterebbe avvicinarti da tergo con circospezione, fiutarle il buco del sedere e zomparle in groppa.

    Perché noi umani non siamo come loro Canidi?

    Mi vedrei proprio, in questo preciso momento, andare carponi sul retro di Liza e affondare il naso tra le sue chiappe. Forse in qualità, appunto, di Canidi, invece di tirarmi dietro tutta la sua solita disapprovazione, lei mi gratificherebbe porgendomi al muso quel gioiello che, per destino biologico, custodisce nell’antro (posteriore) delle sue gambe...

    Noi esseri umani siamo affascinati dai cani, e dal loro mondo di espressioni emotive, perché alla fine sono molto simili a noi: devoti a qualcuno seppur a volte fuori luogo, smaniosi di svago ma spesso rassegnati alla noia, grati per ogni gentilezza e per la minima attenzione.

    Sta di fatto che lui si sta godendo l’inaspettato Godot che s’è trovato a tiro di muso, mentre io son qui in piedi a osservare come un pirla.

    Mi guardo attorno per allontanarmi dalla mia inadeguatezza al momento. Il paesaggio è sempre quello, cocciuto nella sua monotonia, paranoico nella sua coerenza d’essere sempre uguale e scontato. Alla natura viene mai in mente di farsi un giorno lisergico e proporsi a noi spettatori con, che ne so, il cielo rosa shocking, i prati rosso aragosta, il vento carta da zucchero, il giorno blu notte e la notte giallo scuolabus?

    All’orizzonte, seduto su una panchina, vedo ancora quel vecchio che da qualche giorno continuo a incontrare, seppur sempre da lontano. Sarà una mia impressione, ma pare quasi mi stia seguendo...

    Capitolo 1 B

    Mi chiamo Paul, ho quasi ottant’anni

    Mi chiamo Paul, ho quasi ottant’anni, sono vecchio e stanco. Non ho rimpianti, ma nemmeno illusioni per fantasticare un po’ su quello che ho fatto, quello che faccio, magari quello che farò, quello che avrei potuto fare e quello che invece non ho voluto fare.

    Ho vissuto quasi cinquant’anni in Vietnam, confine ultimo dell′intangibile logica orientale, dove ho avviato alcuni Ristoranti Italiani, consuete zattere di sopravvivenza per connazionali in cerca di fortuna o in fuga da se stessi.

    Ultimamente sono tornato al mio paesello, rassegnandomi a un presente con tanto passato e poco futuro. Tornando qui mi sono domandato ancora una volta se, dopo tanta strada fatta in mezzo a tante persone diverse, sempre alla ricerca d′altro, qualcosa d′esotico, un senso all′insensata cosa che è la vita, questa valle non sia dopotutto il posto più altro, più esotico e più sensato di ogni altrove da me sperimentato.

    Dicono che viaggiare ha senso solo se la distanza che mettiamo tra noi e il luogo di nascita arricchisce l’anima, solo se è portatrice di risposte alle eterne domande esistenziali.

    Una volta c’era l’eroismo degli esploratori; poi è venuto il coraggio dei viaggiatori; oggi sono la vanità e la presunzione del turista a imperare: pare che bastino quattro settimane di vacanza per sentirsi autorizzati a dire di conoscere un paese e a tranciare giudizi a vario titolo.

    Io che ho viaggiato per decenni, mi vergogno un po’ nel dire che non solo non posso dire di conoscere bene il Vietnam, ma nemmeno di essere tornato con un bagaglio pieno di risposte. Anzi, strada facendo mi pare d′aver perso anche quelle poche certezze che prima credevo di avere.

    Forse proprio questa è la risposta...

    Sono rientrato dal mio Altrove e passo le giornate tra i ricordi, trascinandomi attraverso i percorsi della gioventù e, soprattutto, inseguendo da lontano il mio me stesso giovane, che mi sono trovato davanti per un paradosso del destino. Quanto può essere assurda la vita?

    Sono anziano, anzi, sono vecchio... È vero che già

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