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Akiko: Anima spezzata
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E-book264 pagine3 ore

Akiko: Anima spezzata

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Info su questo ebook

Anno 2030, Kyoto. Akiko, maestra di arti marziali e figlia dello spirito del Tempo, rinasce richiamata da energie maligne che bramano il controllo sul mondo.
Ma la sua anima è divisa in tre, lei è debole e non ha memoria di chi è stata in passato. Basterà l’amore di un antico guerriero a risvegliarla o dovrà cercare Sashimasu, la sua temibile catena, sepolta nell’antico monastero del drago Ichiban?
In un mondo ipertecnologico, le leggende dimenticate riprendono vita per l’ultima, decisiva, battaglia!
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2019
ISBN9788833170619
Akiko: Anima spezzata

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    Anteprima del libro

    Akiko - Michela Cavaliere

    Akiko

    Anima spezzata

    Michela Cavaliere

    Epic fantasy

    I Edizione novembre 2019

    © 2019 Astro edizioni

    S.r.l.s., Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN 978-88-3317-061-9

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Elisabetta Di Pietro

    Editing:

    Arianna Teso

    Illustrazione di copertina:

    Livia De Simone

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    A Gabriele

    Prima parte

    Butaman senza sapore

    «A ciascuno di noi è riservata una persona importante, più importante di tutte le altre».

    «Stai parlando del grande amore?», enfatizzai le ultime parole e aggiunsi un sorriso sghembo. «Non ho mai creduto negli amori delle favole».

    «Non sto parlando di favole», si fermò a guardarmi e seguitò: «E, comunque, dovresti crederci; sono più vere di quello che immagini».

    «Ti vorrei ricordare che questa mattina, quasi allo spuntar del sole, tu minacciasti mio fratello maggiore nel ristorante dove andiamo da sempre e convincesti mio padre a cacciarlo dagli affari di famiglia», lo schernii. «Ma che dico? Proprio dalla famiglia, lo ha disconosciuto e questo dopo aver conosciuto te... dopo mezza giornata o poco più».

    «E a te dispiace così tanto? Tuo fratello ti ha sempre trattata male».

    «Voglio dire che in nessuna favola il principe azzurro rovina la famiglia della principessa».

    «Non mi hai risposto».

    «A cosa? Tu non riesci nemmeno a reggere questa discussione».

    «Sei tu quella che non crede alle favole e io non sono quel tipo di principe azzurro che ti piace immaginare».

    «Immaginare? Io? Stai scherzando? Nemmeno per sogno!».

    «E allora non ti dovresti scaldare così tanto», allungò le gambe, come per rilassarsi, il braccio poggiato con indolenza sul tavolino di legno grezzo e l’altro a frugarsi nella tasca del pantalone scuro.

    Arrivò la cameriera, vestita di blu come le hostess sugli aerei di linea a basso costo e poggiò due tazze di tè verde chiedendoci cosa desiderassimo. Tenevo in mano il menù elegante da un minuto, ma mi accorsi di non averlo nemmeno scorto quando lui mi chiese: «Akiko, fai tu per tutti e due?».

    Poi Haru quasi si sdraiò sulla sedia, gli occhi chiusi e il volto verso il sole del pomeriggio, ignaro, o forse consapevole, ma all’apparenza indifferente alla ragazza che non riusciva a toglierli gli occhi di dosso.

    «Haru, non so i tuoi gusti».

    «Mi va bene qualunque cosa».

    «Uff», scorrevo lo sguardo su piatti, dolci al cucchiaio, bevande fredde, calde, piccoli panini imbottiti, torte e biscotti secchi, ma non riuscivo a decidermi.

    «La signorina sta aspettando».

    Mi sentii in panico.

    E a disagio.

    Possibile che non riuscissi a decidere nulla?

    Nemmeno una torta o un succo di frutta?

    Mi domandai se quello che pensavo potesse essere di suo gusto, poi mi chiesi cosa volessi io stessa e pensai che mi sarebbe piaciuto qualcosa di salato o forse dolce o, magari, non avrei voluto nulla da mangiare, una cioccolata calda chissà, sì, ma a quale gusto? C’era il fondente con note piccanti, il cioccolato bianco, quella rosa alla fragola con la panna e le praline d’argento per le ragazzine e così via.

    M’inceppai su un menù dai prezzi giusti, i piatti attraenti e la varietà piena di colore. Trascorsi qualche minuto in silenzio e poi, sempre più nervosa, borbottai a caso: «Potremmo... no, questo no», guardando la cameriera che sperava che gli occhi di Haru cogliessero il suo sguardo adorante e che lanciava a me, invece, rare occhiate infastidite. A un certo punto dissi: «Trovato!», come se avessi davvero scoperto un antico tesoro imperiale, ma tornai subito sui miei passi: «No, nemmeno questo».

    Akiko, non può essere difficile, dai! Scegli qualcosa! Che figura sto facendo... sembro una ragazzina!

    Pensieri di questo genere vorticavano nella mia mente. Pensieri di vergogna, di umiliazione, un’umiliazione che mi stavo dando da sola. Non potevo appellarmi a nessuno, nemmeno a me stessa, il peggior avvocato difensore che potessi avere.

    «Due butaman, a seguire due fette di torta, la più buona che avete, sceglila tu», riemerse Haru dal silenzio, mettendosi seduto e guardando la ragazza che fece un immediato sospiro. «Una spremuta d’arancia per la signorina, un sakè caldo per me, tè verde in abbondanza, è tutto, grazie».

    «Certo, signore», prese in mano i due menù e tornò indietro a passo svelto.

    «È mai possibile che tu non riesca nemmeno a decidere cosa mangiare?».

    Abbassai gli occhi sulle mie mani abbandonate sul tavolino.

    «Quanto ci voleva a farlo», sbottò.

    «È vero... hai ragione».

    «Non mi devi dare ragione! A tratti non ti riconosco», quasi gridò spaventandomi. «Un attimo prima sei una persona, un attimo dopo un’altra...». Rimase in sospeso, mentre io non avevo nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi.

    «Scusami».

    «Scusami?», mi domandò lui di rimando. «L’Akiko che conosco non avrebbe mai detto così, non con quel tono, non con quella postura. Guardati! Sembri una bambina indifesa, incapace di reagire, ma io so che tu hai quella forza, perché la nascondi?».

    Iniziai a singhiozzare.

    «Non è vero, non ce l’ho, non l’ho mai avuta».

    Le lacrime non servirono a calmarlo, Haru sembrava una furia repressa sul punto di esplodere: «Stai piangendo perché non riuscivi a decidere quale torta ordinare? Se fosse meglio l’acqua liscia o frizzante? Stai scherzando? E dov’è quell’Akiko che sale su una moto e scappa di casa per andare a una corsa clandestina?».

    Questa domanda mi scosse. Aveva ragione e glielo dissi, finalmente guardandolo negli occhi, «Non lo so... chi sono», e, anche se non capii come mai, questa mia frase sembrò calmarlo del tutto.

    «Vado a fumarmi una sigaretta», si alzò e andò nell’isola riservata ai fumatori, distante una ventina di metri, mentre la cameriera portava al tavolo le bevande e i panini.

    Aspettai, sorseggiando il mio tè e cercando di calmare il tremore alle mani che mi era venuto non appena lui si era allontanato.

    Volevo gridargli di tutto perché mi aveva fatto piangere, mi aveva messo in imbarazzo, perché non mi meritavo tutto questo, ma poi mi maledicevo per la mia insicurezza. Sapevo di averla, era la stessa che mi aveva spinto ad abbandonare gli studi e rinchiudermi in casa, uscire con quei pochi veri amici che la mia vita sociale mi permetteva e difendermi con una facciata impassibile dalle critiche che alcuni mi avevano rivolto. Per fortuna il mio cognome mi aveva evitato situazioni spiacevoli. Ero vigliacca, dovevo ammetterlo. Avevo goduto della mia posizione sociale, dei vantaggi acquisiti da mio padre, da mio nonno e da coloro che contavano nella mia famiglia per vivere come una parassita, nutrendomi dei loro legami, del loro successo, dei loro soldi e di tutto il prestigio che questo comportava.

    Io, Fujiwara Akiko, da sola, non valevo nulla.

    Meno di quella cameriera che aveva l’obbligo di compiacermi, pena la perdita del lavoro. Chissà quanto guadagnava in una giornata, chissà quanto alla settimana o al mese, chissà se con quei soldi pagava un affitto o un corso universitario, magari un master che le avrebbe permesso di essere inserita in una delle aziende della mia famiglia o di quelle dei nostri amici. Chissà se un giorno l’avrei vista entrare nel mio palazzo, andare negli uffici dei dirigenti, chissà se lei sarebbe mai diventata direttrice di un dipartimento. Ci saremmo incontrate, quel giorno, io con un abito migliore del suo, con le scarpe che lei non sarebbe mai riuscita a comprarsi e che a me regalavano solo per amicizia, io con un trucco impeccabile, i capelli curati, un bambino in una carrozzina dopo essere andata a trovare Haru sul lavoro perché sarebbe stato il mio compleanno, ma lui non sarebbe riuscito a venire a casa per cena, «Un impegno imprevisto, cara», mi avrebbe detto e io avrei accettato il suo regalo, un gioiello che sarebbe stato freddo al tatto, ma brillante sotto le luci degli ambienti giusti. Io sarei stata così e lei, l’ex-cameriera ora direttore, un tailleur blu e una borsa porta documenti, avrebbe avuto gli occhi vivi di colei che ha lottato per ogni singolo passo nella sua vita, ma ora si sente libera e fiera di guardarsi allo specchio, che si riconosce per quel che è, che ha scelto chi essere e non chi avrebbe dovuto essere.

    «Preferisce che vi porti le fette di torta ora o dopo, signorina?». Feci per rispondere, ma non abbastanza in tempo.

    «Dopo, grazie», disse Haru sedendosi al suo posto.

    Ecco sarebbe stata così la mia vita.

    «Cosa ne pensi di mangiare? Sei molto pallida», mi chiese lui cercando di essere attento, ma con un senso di cura che non apprezzai.

    Questo è il primo passo.

    Lo sentivo con estrema chiarezza. Questo era il primo passo verso la perdita della mia vita, di me stessa, mentre sarebbe stato lui a decidere chi o cosa avrei dovuto essere. Forse mi meritavo tutto questo, visto che nella mia vita non avevo dimostrato poi granché, dovevo ammetterlo.

    «Sì, mangiamo».

    Il resto del pasto trascorse in silenzio, tra monosillabi e bocconi che faticavo a mandar giù. Il butaman fatto con la farina di riso e ripieno di carne di maiale mi sembrò pesante come un intero animale, il sapore doveva essere buono, a giudicare dalla velocità con cui se lo mangiò Haru, ma io non ne sentivo nemmeno un briciolo.

    «Akiko...». Mi chiamò lui senza continuare nessuna frase.

    «Dimmi».

    «Dobbiamo risolvere questa situazione», mi disse enigmatico.

    «Ora che ho fatto?».

    Notai che si irritò, lo vidi nel momento in cui strinse a pugno la mano, affilò lo sguardo e la sua voce divenne ancora più profonda.

    «Nulla... ed è questo il problema».

    «Non capisco».

    Lo vidi arrovellarsi nei propri pensieri come se la rabbia di prima ora fosse scomparsa in una nuvola di fumo e avesse lasciato quello che c’è sotto per davvero. Delusione? Disillusione? Frustrazione? Mortificazione?

    C’era tanto in lui che non stava mostrando più di questa blanda tensione che esprimeva negli occhi e nella mano chiusa a pugno.

    «Fra due settimane ci sarà una corsa... vuoi partecipare?».

    Sussultai. «Io...». M’infiammai. Una corsa? Dove? E poi ora non dovevo pensare a una famiglia? A sposarmi e a prendere il mio posto nel mondo degli adulti responsabili? «Non pensavo...», fu l’unica cosa che riuscii a dire, temendo di dire troppo o troppo poco, temendo cambiasse idea, temendo mi stesse prendendo in giro.

    «Voglio che sia tu a correre, nessun altro e se vinci... ti riprendi Ninja».

    Mi accesi.

    «Voglio i miei amici, il mio team».

    «D’accordo. Ti darò anche un’auto, ma voglio essere lì quando ci lavorerete».

    Sbuffai, ma il mio tono ora era deciso, non piagnucoloso, non infantile, era il tono di chi conosceva Akiko nelle corse, una volta tolti i vestiti di marca e il trucco sobrio: «Non voglio che tu mi dica cosa devo fare, tu non sei del mio mondo».

    Haru, stranamente, accettò, mise solo una condizione a tutto: «Lo capisco e lo accetto, mi basta avere l’accesso all’officina per controllare i progressi. Giuro non metterò parola su nulla, ma io ci metterò la macchina e la quota di partecipazione, dovrai vincere, no secondo posto, no ultima, niente scuse. Vinci, Akiko».

    Sentii un formicolio lungo la schiena arrivare alle braccia, alle mani, le guance arrossirono di piacere, i peli sulle braccia si elettrizzarono.

    «Oh sì», lo guardai con una sicurezza negli occhi che scalzava via tutta la malinconia di pochi minuti prima. Lo volevo con tutta me stessa.

    «Vincerò».

    La rana e lo scorpione

    La corsa era prevista per la settimana seguente, ma avevo un piano in testa: far riappacificare mio padre con mio fratello. Per quanto fosse detestabile, non potevo sopportare il pensiero della mia famiglia divisa, così lo contattai e lo andai a trovare nell’ufficio in cui gestiva le sue attività.

    «Prego, signorina Fujiwara, può entrare», la segretaria mi fece un cenno veloce dopo aver ricevuto il via libera.

    «Grazie».

    Ringraziare, nella mia cultura, è sempre stato un obbligo a cui, anche nei momenti più difficili e rabbiosi, non riuscivo ad andare contro. Entrai in quell’ufficio dai toni scuri, immerso in un silenzio totale. Vidi Gorou dietro schermate che proiettavano indici finanziari, acquisizioni e salvataggi estremi di aziende che non dominavano più il mercato, infine le notizie dal mondo, tra cui spiccava il volto di mio padre.

    «Il mondo sta cambiando», gli dissi rimanendo di fronte alla porta che si era chiusa da sola, mantenendomi a una distanza dettata da un filo di paura.

    «Il mondo cambia sempre, Akiko, non è una novità... soltanto quelli che sentono il cambiamento prima che accada davvero vincono, tutti gli altri sopravvivono a stento e poi crollano in miseria».

    «E tu ti senti un vincente?», lo sfidai mentre si alzava e mi soppesava da lontano, io immobile, lui sempre in movimento. Pareva nervoso, ma forse era solo la proiezione della mia tensione.

    «Solo la storia lo dirà», il suo ghigno non faceva presagire nulla di buono, eppure continuai a restare lì. Mio padre, senza troppe spiegazioni, aveva escluso Gorou dalla famiglia e dalle imprese che controllava, aveva perso tutto e aveva portato me, la seconda figlia, al primo posto in linea di successione. Ancora non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile, visti i dissapori che si erano palesati in quello strano incontro a colazione, eppure avevo creduto che si potessero riavvicinare. Mio fratello minore mi aveva detto, con soddisfazione crescente: «Gorou non se l’aspettava, ma ha fatto alcuni traffici che ho scoperto e denunciato a nostro padre. Il tuo fidanzato aveva messo in chiaro che non si sarebbe preso in famiglia un delinquente, so che hanno parlato a lungo, in privato e quel litigio ha solo anticipato i tempi».

    «Ma è nostro fratello», avevo cercato di replicare io. «È suo figlio».

    «Ci ha sempre disprezzati, lo difendi pure? Stai molto attenta, Haru non gradirebbe questa tua debolezza».

    Haru... Haru... sempre Haru! Ora dovevo stare attenta a cosa dire, fare, pure pensare che non lo urtasse e che fosse in linea con quelli che erano i suoi desideri? Una femmina asservita al maschio, mai libera di uno spirito proprio, di sbagliare e scegliere per sé. Infatti, avevo scelto di venire qui, cercare di mediare tra le parti, augurandomi di far leva sul legame che Gorou aveva sempre mostrato verso i nostri genitori.

    «Sono qui per te», gli dissi con sincerità cercando di colmare quella distanza che ci era stata imposta dal brutto seguire degli eventi, ma a queste parole lui proruppe in una risata.

    «Che cazzo dici, Akiko? Tu hai sempre pensato a te stessa, non te n’è mai fottuto di noi, hai fatto e disfatto consapevole che ci sarebbe stato nostro padre a parare i colpi, ricucire le ferite, pagare i debiti».

    «Io non ho debiti!», mi attaccai a questo come una bambina incapace di reagire.

    «No, hai ragione», mi soppesò. «Tu non hai niente».

    Mi sentii gelare.

    Lui mi aveva sempre disprezzata, aveva fatto battute e crudeltà fin da quando ero piccola, ma dentro di me avevo creduto che ci fosse un fondo di bene dato dal sangue, dal nome, da quello che eravamo: fratello e sorella.

    «E tu non sei niente per me, ancora cerchi di piacermi come facevi da bambina?», controllò qualcosa sulla scrivania mentre io rimaneva inebetita da tanta freddezza. «Mako, porta alla nostra ospite del tè», la sua segretaria entrò poco dopo e dovetti sforzarmi di avvicinarmi al tavolino e alle poltrone per non apparire ineducata. «Ascolta, questa favola mi piace», disse poi lui attivando una voce femminile che risuonò nella stanza: «Sulle rive di un fiume, uno scorpione si avvicinò ad una rana e le chiese di poter salire sulla sua schiena per farsi trasportare sull’altra sponda. La rana all’inizio rifiutò, temendo di essere punta dal micidiale pungiglione dello scorpione. Io non so nuotare, disse lo scorpione. Se ti facessi del male, morirei nel fiume con te. La rana allora si convinse e si caricò sulla schiena il pericoloso animale. Arrivati al centro del fiume, lo scorpione punse la rana, che si irrigidì ed iniziò a sprofondare tra le acque. Con il suo ultimo respiro, la rana chiese allo scorpione il perché di quel folle gesto. È la mia natura, rispose lo scorpione, e morì».

    «La conosco, è la favola della rana e dello scorpione».

    «Vedi, Akiko, quando ero piccolo, la sera prima di addormentarmi, nostro padre mi raccontava questa storia e mi diceva: Impara, figlio mio: non importa quali scuole frequenterai, che lavoro deciderai di svolgere o quanto tu possa diventare ricco nella vita. Come tutti gli uomini, anche tu, di fronte a una scelta importante, ti comporterai sempre secondo la tua natura. La situazione, le motivazioni e le conseguenze delle tue azioni non influiranno sulle decisioni che mostreranno a te e a tutti gli altri chi sei veramente. Pensavo che mi amasse... quando decisi di fare investimenti personali lui non comprese».

    «Nostro fratello mi ha detto che hai fatto commerci illeciti».

    «Stronzate, non esistono i commerci leciti, Akiko, cresci una buona volta! E comunque nostro padre non mi ha mai chiesto perché. Sapeva che io non appartenevo più a quel luogo, a quel modo di pensare, a quella tradizione tramandata da secoli che fa nome ai Fujiwara. Sapeva che allontanarmi era una di quelle scelte che avrebbe mostrato chi sono davvero. Sapeva che stavo seguendo la mia natura».

    «Non hai deciso di allontanarti dalla famiglia, lui ti ha cacciato», gli dissi disgustata.

    «Quanto sei ingenua, sorellina», mi sfottò lui. «Tu non hai idea di tutto quello che ho dovuto sopportare in questi anni e di quello che ho costruito senza che se ne accorgesse».

    «Cosa? Hai tradito la famiglia? Nostro padre?».

    «Non io!», urlò di rabbia. «Lui! Lui! Sempre lui! Ha sempre fatto i suoi interessi, mi ha dato quel poco che mi serviva senza concedermi quello che meritavo davvero così mi avrebbe sempre tenuto sotto controllo, sotto la sua ala... mi prometteva di lasciarmi tutto un giorno, ma sentivo che non si fidava».

    «Non aveva tutti i torti...», gli dissi a bruciapelo, ma nemmeno mi ascoltò.

    «Negli anni passati

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