Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Ritratto al carboncino
Ritratto al carboncino
Ritratto al carboncino
E-book409 pagine5 ore

Ritratto al carboncino

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

“Ritratto al carboncino”, sottotitolo “la mia e altre storie” non è solo un romanzo, è uno spaccato di vita, dalla prima infanzia alla terza età del protagonista che si narra in prima persona.
Gli episodi in cui si divide il romanzo, pur definiti ed autonomi sono tutti concatenati l’uno all’altro nella loro logica e cronologica successione.
Paolo, nato nei primi anni cinquanta, cresce in un mondo quasi di sole donne, popolato dai fantasmi di figure maschili, quasi tutte negative, sopra le quali troneggia la figura profondamente negativa del padre.
Tutte le fasi successive di un’intera vita si susseguono segnate da questi presupposti, anche se non vengono espressamente ricordati; fino a quando, come in una resa dei conti, il padre, ormai vecchio, torna prepotentemente ad imporsi nella vita del protagonista.
Attraverso la narrazione scarna, essenziale, che volutamente si limita ai fatti e che relega le emozioni ad un ruolo marginale anche quando sono particolarmente intense, prendono forma momenti della società italiana della seconda metà del secolo scorso e prendono vita gli altri personaggi del romanzo. Queste figure, pur interagendo profondamente con la vita del protagonista, attraversano la scena in punta di piedi, con discrezione, e vengono volutamente definiti solo nei tratti essenziali utili alla narrazione, come in un ritratto eseguito con la tecnica del carboncino.
Riteniamo importante, per seguire il dipanarsi cronologico delle vicende, leggere le note e le “lettere mai spedite” (sono alla fine del romanzo) quando vengono espressamente richiamate nel testo.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita25 gen 2018
ISBN9788871638959
Ritratto al carboncino

Correlato a Ritratto al carboncino

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Ritratto al carboncino

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Ritratto al carboncino - Pier Paolo Galiani

    dolore.

    Prefazione alla seconda edizione

    La chiusura della casa editrice, asettico indicatore della situazione editoriale italiana, troppo spesso più che meritata, mi trova costretto a soddisfare autonomamente le rare ma non assenti richieste di questo romanzo. Nasce perciò questa seconda edizione, quasi copia anastatica della prima dalla quale differisce solo per la correzione di qualche refuso.

    Prefazione autografa alla prima edizione.

    Ho sempre desiderato scrivere un romanzo. La vita ci ha provato, ma non è riuscita a portarmi lontano dalla penna e dalla carta. Le mie numerosissime e disparate letture giovanili, uniche amicizie di un lungo periodo della mia vita, mi hanno tenuto vicino, anche se in modo occasionale e irrazionale, al mondo del libro. Principalmente prediligevo leggere libri di viaggi, o comunque libri che narrassero fatti realmente accaduti, solo in seguito sono riuscito ad apprezzare il piacere di varcare in modo consapevole, o a volte inconsapevole, il labile confine che esiste tra la realtà e la fantasia.

    Ora che sono arrivato a quella maturità che gli indelicati chiamano vecchiaia, ora che i libri che ho letto ricoprono intere pareti, mentre quelli che mi piacerebbe leggere vengono stampati al ritmo di decine al giorno, la vita mi costringe ad una pausa di riflessione.

    E’ il tempo in cui si cominciano a trarre quelle noiose conclusioni di cosa si è fatto e cosa non si è ancora fatto nella vita. E’ il tempo nel quale ci si sorprende a pensare ormai non riuscirò più a fare tutto quello che vorrei fare. E’ il tempo in cui occorre mettere in ordine e stabilire delle priorità tra i vari progetti che ancora ti frullano per la testa, perché è vero: non si riuscirà a realizzare tutto.

    Dovete sapere che sul mobile del soggiorno tanti anni fa, invece di buttarlo, ho messo un grosso vaso di vetro di quelli tondi, tipo quelli da pesci rossi, ma grande, molto grande. Nel vaso, accuratamente piegati, sono finiti nel tempo tanti bigliettini; su ogni bigliettino c’è scritto qualcosa che mi sarebbe tanto piaciuto fare, ma che fino a quel momento non ne avevo trovato il tempo.

    Raramente ho avuto modo di estrarne qualcuno e sovente, estratto il biglietto ed apertolo, ho dovuto ripiegarlo con cura e rimetterlo nel vaso con amarezza. Alcuni biglietti recano scritte cose che non sarebbero sufficienti altre dieci vite per riuscire a realizzarle, figuriamoci poi se a spingermi ad estrarre il biglietto è stata una banale domenica di pioggia. Ho dovuto constatare che molti dei miei desideri non si accontentano di un breve pomeriggio, ed il bigliettino è dovuto ritornare subito nel vaso.

    Con il passare degli anni perciò il vaso si è quasi riempito e adesso sono sempre più restio ad aggiungerne, consapevole che ormai è venuto il momento di guardarsi alle spalle con lo stesso interesse con il quale il marinaio scruta l’orizzonte per avvistare terra.

    Su di un biglietto, che d’altronde non è mai finito nel vaso, c’è scritto: scrivere un romanzo. Ovviamente sarà solo per mio diletto e certo noia profonda di chi avrà la ventura di leggere la copia base, perché certamente non sarà mai pubblicato, ma ...

    Il romanzo è palesemente di spunto autobiografico, ma ho il vezzo di lasciare al lettore la più importante e la più delicata delle decisioni: quali brani sono autobiografici e quali di completa fantasia.

    Infatti va specificato che, tra tutti i fatti narrati in questo volumetto, alcuni sono realmente accaduti e sono riportati con assoluta fedeltà, mentre altri, principalmente per facezia di chi scrive, sono assolutamente di fantasia.

    I personaggi sono realmente esistiti, magari con altri nomi anche se quasi tutti, ormai, non sono più tra noi da tempo. Anche i luoghi sono reali ed ovviamente i fatti reali narrati si sono svolti esattamente in quei luoghi, come si addice ad una seria e precisa autobiografia.

    Ma quali veri, se qualche episodio vero c’è, e quali falsi, di fantasia, se qualcuno di fantasia c’è, lo lascio decidere al lettore.

    In fondo ciascuno di noi ha avuto qualche momento nella vita che pareva proprio tratto da un romanzo ...

    Capitolo 1

    le patatine con il pane

    Una scampanellata annunciò il suo arrivo come ogni giorno. Numerosi colpi veloci sul campanello, di seguito, senza alcun ritmo. Oggi la definirei una scampanellata maleducata. Allora diceva: è arrivato papà.

    Il mio compito era di andare ad aprire la porta, mentre la mamma ai fornelli stava certamente già sentendo se la pasta era cotta. Il babbo era piuttosto puntuale a pranzo perché un’ora per venire a casa, pranzare e tornare fino quasi a Borgo Panigale non consentiva nessuno spreco di tempo.

    Entrando non mi degnò di uno sguardo, come il solito. Andò diritto in cucina e si sedette al suo posto, capotavola, le spalle al frigorifero. Non si era tolto nemmeno gli occhiali da sole.

    «Ciao Iolly!»

    Beh, la mamma l’aveva salutata. Non ho mai capito e non mi ha mai saputo spiegare perché chiamasse Iolly (non Jolly) la mamma, che si chiamava Iole. A volte ha sostenuto perché è la carta più importante del mazzo, ma doveva ottenere qualcosa. Altre volte perché in italiano il Jolly viene chiamato la matta. Ma in questo caso voleva dire che avevano litigato.

    Era una giornata speciale a tavola. La mamma aveva comperato un sacchetto di patatine fritte, le Pai. Allora esistevano solo quelle ed erano un lusso per noi.

    Il rumore del cartoccio delle patatine infranto, il ciotolare della cascatella croccante che cade nel piatto, mentre io mi arrampico sulla sedia e mi siedo con l’acquolina in bocca. Ma prima bisognava mangiare la minestra. Nel nostro lessico la minestra era la pastasciutta, condita con il ragù, molta verdura, sedano in particolare, e poca carne. A me non piaceva la pastasciutta con il ragù, anzi non mi piaceva il ragù lavato dalla pastasciutta. Perciò la mamma mi serviva pasta poco condita e dopo, quando l’avevo finita, c’era una bella cucchiaiata di ragù dove tociare il pane.Finii la mia porzione più velocemente del solito, senza farmi pregare od imboccare delle ultime forchettate. La forza delle patatine!

    Come sempre si mangiava in silenzio, in sottofondo il rumore di posate sui piatti. Uno sguardo di assenso della mamma rispose al mio interrogativo e la mia manina prese un grosso pizzico di patatine che finirono in un unico grosso e difficoltoso boccone. Al secondo pizzico di patatine la mano di mio padre si abbatte sul tavolo, afferra una pagnottella di pane e con essa si abbatte nuovamente sul tavolo a pochi centimetri dal mio piatto.

    «Col pane si mangiano le patate, col pane!» urlò.

    Gli occhi mi si riempirono di lacrime, ed il naso di moccio. Non mi sembrava di avere fatto niente di male, avevo mangiato tutta la minestra, dopo avrei mangiato anche il ragù col pane...

    «Ti sembra il modo di trattare il bambino» intervenne mia madre, «e poi da che pulpito, tu che mangi la forma a morsi senza pane, solo per fare il gradasso.»

    «Ecco! Adesso non posso più neanche sgridare mio figlio!»

    «No se lo sgridi solo perché hai il nervoso! Cos’è? Ti è andata storta con una delle tue puttane?»

    La frase magica era stata detta. Il piatto di mio padre partì, veloce e preciso come le altre volte.

    Esattamente al lato opposto della tavola c’era la finestra, e tra la finestra e la tavola giusto un posto per sedersi ma un poco stretto, scomodo. Così di solito lì non ci si sedeva nessuno. Alle volte il nonno, quando rimaneva a mangiare da noi, ma succedeva davvero di rado. Al lato sinistro della finestra un mezzo metro di muro faceva da spalla a quella zona di cucina che ora chiameremmo antibagno, mentre allora si chiamava secchiaio, semplicemente perché c’era il lavello per i piatti. Così il piatto lanciato da mio padre volava rasente all’altezza dei nostri nasi, il mio più basso, quello della mamma più alto, e si andava a infrangere su quel mezzo metro di muro. Mai sulla finestra, che avrebbe rotto il vetro, mai più a sinistra, che avrebbe potuto colpire la mamma in viso.

    Il muro, ormai avvezzo a quegli impatti, aveva preso nel tempo colore dei ragù, dei sughi, delle minestre di verdura, fino ad essere poi verniciato con pittura ad olio, lavabile. Ancora adesso è verniciato in quel modo, perché per riportarlo a tempera bisognerebbe togliere e rifare l’intonaco.

    Io, spaventato come tutte le altre volte, non capivo il perché di queste situazioni, di queste frasi e delle reazioni che poi si scatenavano. Questa volta però avevo una certezza: era colpa mia perché avevo mangiato le patatine senza pane!

    Scappai da tavola e mi andai a rifugiare in tinello, dietro alla poltrona d’angolo, scosso da singhiozzi disperati. Malgrado un corridoio ed una stanza ci separassero, il seguito del litigio mi arrivava forte e chiaro.

    «Sei una cretina, ti immagini le cose!»

    «Sei un puttaniere, ti hanno visto!»

    «Dì a chi ti detto di avermi visto di farsi i fatti suoi!»

    Capivo la metà, un terzo di tutte quelle parole urlate e spesso scandite dal rumore di altri piatti infranti. Rimanevo tremante e singhiozzante nel mio inutile rifugio in attesa di una punizione che sicuramente sarebbe arrivata, visto che era colpa mia. Ma da chi dei due, il babbo o la mamma?

    La punizione, ovviamente, non sarebbe mai arrivata. Non sotto forma di punizione in ogni caso. Al massimo mio padre mi avrebbe urlato Sei un cretino! facendomi nuovamente piangere, ma questo molti giorni dopo e per motivi completamente diversi, ma per me strettamente collegati alle mie colpe.

    In verità mai uno schiaffo o una sculacciata. Ma mai nemmeno un tentativo di consolazione, da parte di nessuno dei due.

    In fondo mio padre non mi aveva neanche salutato entrando, e quindi non doveva nemmeno salutarmi uscendo. Meglio se mi aveva dimenticato. Il tremolone che dava tutta la casa allo sbattere della porta quando usciva annunciava il cessato allarme su quel fronte.

    Dalla cucina venivano tirate su di naso e rumore di cocci mossi con una scopa. Quando, dopo un tempo che a me sembrò infinito, vidi che anche dalla cucina non veniva nessun giustiziere ad eseguire improbabili sentenze, sgusciai dal mio nascondiglio. Silenzioso, passo dopo passo, mi riaffacciai alla porta di cucina. Mia madre mi lanciò solo una occhiata; aveva gli occhi rossi, e questo non aiutò il mio coraggio. Una mamma che piange non è mai una buona cosa. Mi avrebbe forse aiutato essere preso in braccio e cullato, distratto con discorsi buffi. Forse mi avrebbe anche aiutato finire il pranzo con una mela, una banana. Che buone le banane! Invece la frase:

    «Hai visto! Hai visto cosa ha combinato tuo padre?» mi lasciò nella mia disperazione a tirare su con il naso.

    Più tardi un timido trillo del campanello annunciò invece l’arrivo del nonno Galiani. Puntuale come la sirena della O.R.M.E.C., veniva per portarmi ai giardini di Porta Saragozza.

    Uomo di pochissime parole, non fece domande. Nessuno comunque gli diede spiegazioni, o raccontò nulla.

    «Vèn mò cinno»

    Mano nella mano fino a varcare la soglia dei giardini, dove la stretta si lasciava. Da quel momento avrei goduto (io credevo) della massima libertà e autonomia pur nel limite della siepe di recinzione.

    Il nonno mi avrebbe, come ogni giorno, accontentato nel mio più grande desiderio: saremmo tornati a casa solamente quando ai giardini si fossero accesi i lampioni. Non importa se gli altri bimbi erano già a casa da tempo, io volevo restare ai giardini fino a quando non si accendevano i lampioni, anche se ero a correre da solo, da solo giocare con la fontanella o con la palla di stoffa.

    Lui, abbastanza lontano perché io non lo notassi, ma abbastanza vicino da essere al mio fianco prima che io stesso mi rendessi conto di essere caduto, mi seguiva instancabile con lo sguardo muovendo solo i passi resi necessari dai miei infaticabili movimenti all’interno del giardino.

    La sera, e con essa il tempo del ritorno a casa, sarebbe venuta anche quel giorno. Ma i bimbi, si sa, dimenticano presto.

    Capitolo 2

    le mani addosso

    Probabilmente anche quel giorno tutto cominciò con la solita scampanellata, come il solito. Anche quel giorno andai io ad aprire. Ero già in grado di sentire quando intorno c’era aria di tempesta, e quel giorno l’aria era molto elettrica.

    Il rumore delle stoviglie appoggiate sulla tavola era più secco, quasi venissero sbattute. La mamma era molto silenziosa, ed aveva già cominciato a piangere, da sola, in silenzio, soffiando rumorosamente il naso di tanto in tanto.

    Tutto era cominciato con la visita di una signora che ricordo benissimo. Si faceva fare dei vestiti dalla mia mamma e così veniva spesso e rimaneva lungo tempo a chiacchierare con la scusa della prova. Io avevo potuto vedere e ascoltare tutto benissimo, perché la signora... (fatico a chiamarla così, perché ancora oggi non la stimo e non la ritengo degna del titolo signora.) già a me, così piccolo, diventò subito antipatica. La odiai subito per questo rapporto diretto tra la sua presenza e le lacrime di mia madre. Poi in seguito ebbi seri motivi per averla in forte antipatia. Solo antipatia, non più odio, perché crescendo i sentimenti istintivi ed assoluti di un bambino sovente riescono a stemperarsi di pari passo al comprendere che le colpe e le responsabilità non sono mai di una sola persona.

    Dicevo che la signora, appena entrata, fece cenno a mia madre di rimanere in corridoio, dove stavo giocando, e di non entrare in camera da lavoro, dove c’erano le ragazze.

    «Ecco... signora...» cominciò a dire rivolta a mia madre, falsamente indecisa e combattuta se dire o non dire, ma con l’atteggiamento di chi dirà tutto, aggiungendo alle parole una mimica che riesce a fare di una farsa un dramma.

    «Ecco signora...» pausa «... mi deve perdonare ma io glielo devo proprio dire...» pausa «...per l’amicizia e la stima che le porto...»

    «Ma dica» incalzò mia madre.

    «Li ho visti sa! Insieme!» nuova, lunga pausa « ...a braccetto in via Saragozza... Lui e quella là»

    Il mento di mia madre cominciò a tremare e gli occhi le si riempirono di lacrime.

    «La Maria M.? » chiese con voce già tremante.

    Inutile specificare che l’altro componente della coppia a braccetto era mio padre. Della rivale la mamma sapeva già tutto: nome, cognome, indirizzo, età, vaccinazioni e titoli di studio, professione e numero di scarpe. Tutto!

    La delatrice, l’inutile delatrice, inutile per sé e dannosa per gli altri, un poco intimorita dalla reazione di composto dolore di mia madre, uscì con l’unica parola compassionevole che non avrebbe dovuto dire:

    «poverina!»

    Detta in tono miserevole, con la mano che si allungava ad accarezzare il viso di mia madre mentre i sui occhi disperati guardavano attorno in cerca di qualcosa che neanche loro sapevano cos’era.

    Era troppo! La compassione no, non la sopportava, e poi la beffa: a passeggio assieme ad un passo da casa sua. Non avrebbe più avuto il coraggio di passare Lei, la Moglie Legittima, per via Saragozza. Ed esplose in un pianto dirotto.

    La delatrice, fatto il danno, goduto lo spettacolo, si esibì in una breve sceneggiata di comprensione e solidarietà; poi batté rapidamente in ritirata. Sarebbe tornata a provare il vestito un altro giorno, in modo da sapere, magari da una delle lavoranti, quali erano stati gli sviluppi della situazione.

    La delazione. La delazione non è denuncia, la delazione è una vigliaccata mostruosa, sopratutto quando fa del male gratuito come succede sempre in questo genere di argomenti.

    Non è che mia madre non sapesse, quindi a che pro sbatterle ancora in faccia le relazioni extraconiugali del marito? A chi giova? Forse che se ti ricordo che anche tu sei malato di cancro il mio di male diventa meno grave, meno doloroso?

    Molti anni dopo capii i perché di questi comportamenti, ma questa volta per me l’associazione (signora B.) = (mamma che piange) era un’equazione di una chiarezza lampante.

    Le lavoranti furono mandate a casa anzitempo, e la mamma, come un tenore che scalda la voce dietro le quinte, come l’attore protagonista che ripassa la drammatizzazione pochi minuti prima di andare in scena, provava la scenata che avrebbe fatto di lì a pochi minuti. Girava avanti e indietro per casa, piangendo e dicendo frasi a me incomprensibili, ora tra sé e sé ora a voce alta.

    Forse era il fatto che ero più grandicello, facevo già la seconda elementare, o l’abitudine ai litigi, o che pian piano si andasse definendo dentro di me la consapevolezza che anche io ero parte della scena, che non dovevo solo subire ma anche partecipare; fatto sta che questa volta non ero terrorizzato come al solito.

    Osservatore quasi distaccato soffrivo in silenzio della situazione, del prepararsi della burrasca che nella mia immaginazione poteva già essere l’ultima, quella che alla fine si sarebbero lasciati, ed io sarei rimasto solo. Sarei finito con gli orfanelli di San Luca.

    Tutti gli anni passavano in occasione della processione della Madonna di San Luca; una doppia fila di bimbetti circa della mia età, tutti vestiti di grigio, che si tenevano per mano a due a due.

    Io stavo in prima fila a guardare la processione, e quando passavano li guardavo negli occhi, cercando quella complicità che tutti i bimbi sanno creare in un istante. Niente: non un sorriso, non una linguaccia, non un ammiccare rispondeva al mio sguardo. Solo una infinita tristezza. Per forza, loro erano senza mamma e senza papà. Ed io sarei finito come loro.

    Dopo i lampi, i tuoni e il vento, ecco la tempesta. Come i discepoli dei filosofi greci io già vivevo assieme al mio maestro di dialettica. Mio padre negò, negò l’evidenza, si difese attaccando, ribaltò il significato delle parole. Volarono accuse e offese da entrambe le parti, fondate e infondate. Grazie a qualche altra frase magica, ed erano tante quelle efficaci, anche questa volta i piatti volarono numerosi. Le parole erano più dure, le accuse più incalzanti, i toni più alti. Un vicino urlò di smetterla. Io urlavo di smetterla. Piangevo, piangevo tantissimo, ma per la prima volta non di paura: stavo imparando a conoscere la rabbia dell’impotenza.

    Sul tavolo non c’era rimasto nessun piatto. Gli unici due intatti erano ciascuno in mano ad un genitore. La minaccia di colpire la faccia invece del muro era reale. I miei disperati basta mamma! basta papà! non li sentivano neanche. Dovevo farli smettere, a qualunque costo! Ne andava della mia sopravvivenza. Dovevano fare la pace! Andai alla credenza, presi una pila di piatti, tutti quelli che riuscii a sollevare con la forza della mia disperazione, li portai alti sulla testa e li sbattei a terra.

    Il fragore fu veramente tanto, superò il volume del litigio. Muti, i loro piatti integri nella mano alzata, si voltarono entrambi verso di me. L’avevo fatta grossa. In passato un bicchiere scivolato mi era costato un bello sculaccione, figuriamoci tutti quei piatti, e del servizio buono poi. Vincendo, non so come, i singhiozzi, con la voce resa roca dagli urli precedenti sentenziai:

    «Volevo sapere cosa si prova».

    Uscii dalla cucina e mi rifugiai, ma con estrema dignità, dietro la solita poltrona.

    Mi illudo ancora che la tregua che seguì sia stata causata dalla mia azione, ma è più probabile che mio padre uscisse perché era ora di tornare al lavoro. Anche questa volta nessuno mi raggiunse dietro alla poltrona. Non ricordo se mio padre mise dentro la testa alla stanza per salutarmi, forse sì forse no. Ricordo che mia madre telefonò subito a qualcuno per raccontare cosa avevo fatto. Anche se la porta era chiusa e lei parlava sottovoce la sentivo. Non ho mai saputo a chi l’ha raccontato.

    Che di tregua si trattasse, e non di pace, lo imparai la sera. Da piccoli ci s’illude facilmente, ed io mi ero illuso che il litigio così bruscamente interrotto dalla mia azione si potesse considerare concluso. Invece, la sera, mio padre rientrò usando la chiave. Si palesò minaccioso in camera da lavoro di mia madre:

    «Chi te lo ha riferito?» chiese.

    Il suo intento era semplice: dovendo sfogare la rabbia e la frustrazione dell’essere stato scoperto, voleva sapere il nome del delatore, anzi delatrice, perché un uomo non riferirebbe mai delle corna ad una donna: sarebbe solidale col fedifrago.

    Ovviamente mia madre non rispose, anzi rispose a tono. Inutile scendere nei particolari per riferire di un copione già noto. Ma la situazione degenerò in un attimo quando mio padre afferrò sul tavolo un abito che mia madre stava cucendo e minacciò di strapparlo se non diceva il nome della delatrice. Mia madre amava il suo lavoro, più del marito, e si può capire il perché, ma anche più di suo figlio, sostengo io; ma lei sosterrebbe sicuramente il contrario.

    «Non toccare il lavoro!» urlò, e si avventò su mio padre per cercare di riprendere possesso dell’abito, ma senza rovinarlo. Ovviamente mio padre fece resistenza e mia madre per non essere lei stessa a strappare il vestito trovò conveniente graffiare le mani di mio padre, che le mollò un ceffone.

    Dal mio posto di spettatore di prima fila capii al volo che la guerra aveva nuovi sviluppi e che stava facendo un salto di qualità, un pericoloso salto di qualità.

    Dovevo reagire, in fretta, la mia azione del giorno aveva avuto un effetto positivo. Dovevo fare qualcosa! Ma intanto alle sberle rispondevano i calci, ai calci le botte a mano chiusa, sempre più forte, con ovviamente una decisa supremazia di mio padre, sia per la ovvia predominanza fisica sia per il fatto che mia madre invece di difendere sé stessa difendeva il vestito della cliente.

    L’unico intervento che improvvisai fu di afferrare lo spazzone, che era appoggiato al muro.

    A casa mia lo spazzone era quell’attrezzo deputato a trascinare lo straccio (mocio) per i pavimenti avanti e indietro sul pavimento stesso, allo scopo di lavarlo. A quei tempi l’attrezzo era tutto di legno, compresa la spazzola che trascinava lo straccio, e decisamente più pesante di quelli che si usano oggi.

    Presi lo spazzone per il manico e lo picchiai con tutta la forza di cui ero capace sulla schiena di mio padre che, curvo su mia madre che era scivolata a terra, stava prendendo il sopravvento. La spazzola lo colpì sulla schiena alla base del collo, tra le scapole. Il manico dello spazzone, sicuramente difettoso, si ruppe.

    Eppure un risultato ci fu: semi tramortito mio padre stramazzò al suolo. Ancora intontito dalla botta riuscì solo a trascinarsi carponi fin sul letto, aiutato da mia madre.

    Di nuovo silenzio e stupore. Non una parola da parte loro, non una parola od una lacrima da parte mia.

    Ricordo che andai a letto nella mia poltrona letto e mi accucciai con le mascelle serrate mentre le lacrime non riuscivano ad uscire dai miei occhi, ma ne avevano tanta voglia.

    Durante la notte un bacio mi svegliò per un attimo, ma non so chi me lo diede. La mattina mi svegliai da solo molto presto, a causa di quella pipì che non avevo fatto la sera. Andando al gabinetto passai davanti alla camera dei miei. Dalla porta socchiusa vidi mia madre mentre spalmava una pomata sulla schiena di mio padre dove c’era un livido gigantesco.

    Avevano fatto la pace! Bevvi il latte contento quella mattina. Ricordo anche la scompigliata di capelli che mi fece mio padre prima di uscire. La ricordo perché non era sua abitudine, e forse perché era una mattina particolare.

    Non ne abbiamo mai parlato, neanche dopo anni. Poi ci sono stati tanti altri litigi, anche grossi, ma non si sono mai più messi le mani addosso, almeno che io sappia.

    Capitolo 3

    la merenda e l’idrante

    Il mio orizzonte, come credo succeda ad ogni bimbetto, si allargava un poco tutti i giorni.

    Visto che ero un bimbetto saggio e prudente, già in seconda elementare venni mandato a scuola da solo, senza nessuno che mi accompagnasse. La scuola era vicina, in via S. Isaia e c’era una sola strada da attraversare, una strada secondaria con poco traffico.

    La mattina uscivo, con trenta lire in una mano e la cartella nell’altra e andavo. Le trenta lire servivano per comperare dal fornaio una burella per la merenda. Era buonissima: dopo aver giaciuto due ore nella cartella di cuoio, schiacciata tra i sillabari ed i quaderni, aveva un aroma ed una consistenza molto migliore che mangiata fresca.

    Tuttavia scoprii molto presto che se comperavo un ragnino (una crocetta particolarmente sottile e croccante) mi sfamavo altrettanto bene e spendevo solo quindici lire.

    Le quindici risparmiate ogni giorno le nascondevo in una scatolina riposta in fondo al baule di legno che conteneva i miei giocattoli. Intanto perché era meglio avere dei soldi da parte se i miei genitori si fossero separati e mi avessero abbandonato (questa paura è stata veramente il grande spettro di tutta la mia infanzia). E se per pura fortuna non fossero serviti per quello scopo, avrei potuto usare quei soldi per comperare almeno una di tutte quelle cose che desideravo tantissimo ma che mi venivano regolarmente negate, a torto od a ragione, perché non c’erano soldi da sprecare.

    Infatti un giorno entrai nella cartoleria e comperai con i miei risparmi una cosa che desideravo tantissimo da tempo. Avevo passato ore davanti a quella vetrina a guardarla e riguardarla. Una bellissima pistola ad acqua, di quelle di plastica trasparente, dentro alle quali si vede il livello dell’acqua e che si caricano da un buchetto dietro. Tirando il grilletto sparava un getto potente e regolare, non come quelle che si dovevano schiacciare e che spruzzavano al massimo a mezzo metro di distanza.

    Purtroppo nella mia ingenuità la portai a casa e non la nascosi. Alla sua scoperta mia madre temette l’avessi presa a un altro bambino, e all’interrogatorio che seguì crollai subito e confessai: l’avevo comperata con i soldini risparmiati sulle merende. Ma tacqui le ragioni vere dei miei risparmi, ed anche la loro ubicazione. Da quel giorno mia madre pagò in anticipo, direttamente al fornaio, le mie merende. Io dovevo solo passare a ritirarle, e mi veniva consegnato il pattuito: l’ottima burella.

    La mia apprensione sulla mia sorte in caso di abbandono aumentò: senza possibilità di accantonare risparmi sarei potuto rimanere solo e senza soldi. Ma il mio nonno, che aveva sentito la storia, ogni tanto mi regalava di nascosto dieci lire. Non so se lo facesse perché aveva sentore delle mie ansie o invece perché un tempo le persone che avevano patito la fame e la miseria misuravano l’affetto anche con il denaro. (Ho detto anche, non solo: solo con il denaro lo misurano ai giorni nostri i cattivi genitori).

    Presto mi accorsi da dove venivano le dieci lire. C’era un rito che si svolgeva tutti i venerdì, giorno di paga per il nonno: si andava in tabaccheria e si comperava una bustina con cinque sigarette, e poi all’osteria a bere un bicchiere, «uno solo e piccolo» chiedeva.

    A quei tempi infatti le sigarette si vendevano anche sfuse: il tabaccaio rompeva il pacchetto da venti e le metteva in piccoli sacchettini di carta evidentemente fatti appositamente, ci stavano giuste cinque sigarette. Le cinque sigarette erano per una settimana, dovevano durare una settimana. Io che andavo a scuola e conoscevo già bene i numeri capii subito: il nonno si era messo a comperare quattro sigarette ogni venerdì, non più cinque.

    Il nonno spesso lavorava e non poteva accompagnarmi ai giardini, così ogni tanto mi veniva permesso di andarci da solo. Venivo accompagnato fino dentro ai giardini dal nonno o da qualche lavorante. Dopo una frase sola del nonno: «Fa mò a mod e stà atenti» o mille raccomandazioni di una delle lavoranti, venivo abbandonato per un paio d’ore. Più tardi veniva qualcuno a cercarmi: il giardino non è grande, e la consegna era di stare sempre in una certa zona, dove dovevo essere reperibile.

    Tutto cominciò così, poi con il passare dei mesi senza alcun problema, le briglie si allentarono sempre di più. Ed io passai dal trotto al galoppo, ed al galoppo sfrenato.

    Si trattava solo di rispettare puntualmente l’orario di rientro a casa. Del resto avevo la massima libertà di andare a zonzo per la città, mentre mia madre mi credeva dentro ai giardini a giocare a nascondino. Non che si facesse poi nulla di particolare, roba da monelli che ora fa sorridere.

    Un giorno d’estate, subito dopo pranzo, sotto una canicola micidiale, un’autopompa del comune stava lavando le strade della zona. Era un OM Leoncino con una cisterna sopra, e si veniva a rifornire a un idrante che era appena dentro Porta Saragozza, tra il vespasiano e l’inizio del portico. Ora ci sostano sopra i taxi. L’idrante non era all’americana, un tubo fuori dal terreno, ma era un tombino grande sulla sede stradale con dentro la bocchetta dove avvitare il tubo flessibile.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1