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Autopsia di un'emozione
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E-book260 pagine3 ore

Autopsia di un'emozione

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Info su questo ebook

Collana Policromia

“La depressione è una condizione raccapricciante, un malessere che ti priva di ogni cosa. Ti sembra di non riuscire più a vivere, hai la mente e il cuore paralizzati dal tuo disagio e nei rari momenti in cui riesci a provare ancora qualcosa è solo perché ti senti morire”. La depressione è definita il “male del secolo” anche se, in realtà, è una piaga che non ha tempo, non ha età. Ha colpito Egidio, giovane uomo che negli anni cinquanta si è ritrovato rinchiuso in manicomio per “Incapacità di condurre una vita normale” e ha colpito Anna, brillante trentacinquenne che nel nuovo millennio è sprofondata in un abisso profondissimo rischiando di non risalire più. Due storie che corrono parallele, distanti nel tempo, ma vicine nel significato e nell’epilogo che infonde speranza e sprona a non arrendersi mai, nonostante il dolore, nonostante il buio che sembra non volersi dissolvere mai.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita30 mag 2019
ISBN9788833662800
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    Anteprima del libro

    Autopsia di un'emozione - Ilaria Caserini

    PROLOGO

    Bondo Basso, 24 maggio 2013

    Mancava poco al tramonto. La temperatura iniziava a scendere in quel tardo pomeriggio di un maggio che si stava contraddistinguendo per le basse temperature, soprattutto quando il sole calava e l’imbrunire, con la sua fresca brezza serale, gli rubava la scena. Avevo dimenticato la giacca a casa; me ne ricordai quando un brivido mi attraversò la schiena anche se, in realtà, non ero sicura dipendesse solo dalla temperatura. Ero agitata, stavo agendo controvoglia, cosa che detesto, ed ero sempre più convinta che ciò che stavo per fare sarebbe stata solo una enorme perdita di tempo.

    «Hai la pelle d’oca, Anna. Metti questa» mio zio, attento e premuroso, mi porse la sua giacca e mi sorrise.

    «Grazie» la presi e me la infilai. «Secondo te sto facendo la cosa giusta, zio?»

    «E chi può dirlo?» mi rispose lui con dolcezza. «Solo il tempo potrà fornirti una risposta. Male non può farti. Al massimo non ti servirà a nulla.»

    Abbozzai un sorriso e annuii. «Facciamoci una promessa, zio. Ci stai?»

    «Per starci devo sapere di che promessa si tratta…»

    «Se io mi impegno e ce la metto tutta con questo strizzacervelli, tu scrivi un libro sul Sant’Emilio.»

    «Più che una promessa, mi sembra un ricatto.» Si mise a ridere e il suo viso, bello, ma sciupato da una vita colma di dolore, si illuminò come di rado accadeva. «Vedremo» aggiunse, «sai che questo è un tasto dolente per me.»

    La distensione che avevo notato qualche istante prima, era sparita dal suo volto tanto velocemente quanto era comparsa.

    Più volte, negli anni, avevo provato a sondare il terreno, azzardando domande sulla sua reclusione al Sant’Emilio, ma non avevo mai trovato terreno fertile. Mio zio era tanto sensibile e buono, quanto introverso, taciturno e riservato, soprattutto riguardo a un periodo della sua vita che gli aveva lasciato sul corpo e nell’anima cicatrici di ferite profondissime.

    «Io sono arrivata» gli dissi, sollevando il mento in direzione di una targa dorata che spiccava sul muro di una palazzina gialla: Gianluca Greco, psicologo e psicoterapeuta.

    Gli restituii la giacca e aggiunsi: «Mi ha fatto piacere incontrarti, zio. Ci vediamo così di rado. Grazie per il giubbotto e… per la chiacchierata.»

    «Grazie a te, cara. Il giubbotto tienilo, altrimenti rincasando prenderai freddo. Me lo restituirai quando ci rivedremo. Così abbiamo un pretesto per non lasciar passare troppo tempo.»

    Mi posò una mano sulla spalla, mi salutò e se ne andò.

    Ero arrivata al numero civico nove di via Garibaldi con qualche minuto di anticipo. Sei ancora in tempo per scappare, Anna pensai tra me e me.

    Non credevo nella validità della psicoterapia, almeno per quanto mi riguardava. Avevo già tentato più volte un percorso del genere e ogni volta l’esperienza deludente aveva confermato la mia tesi: a me la psicoterapia non serviva.

    E poi c’erano i farmaci a supportarmi. Mi bastavano quelli. Al diavolo ore e ore perse a raccontare i fatti miei a qualcuno che si arrogava il diritto di sapere cosa significassero certi pensieri, certi atteggiamenti, certi stati d’animo.

    Alla fine, fu il pensiero di Sebastiano a spingermi a pigiare il pulsante del citofono. Gli avevo promesso che avrei intrapreso quel percorso.

    E suonai.

    Mi venne ad aprire il portone una donna, dal sorriso gioviale e dall’aria bonaria.

    «Il dottor Greco sta arrivando» mi disse in tono gentile «se intanto mi vuole seguire e si vuole accomodare...»

    Mi spiegò che era la mamma dello psicoterapeuta, il quale, in ritardo di qualche minuto, le aveva raccomandato di accogliermi e condurmi nel suo studio in attesa che arrivasse.

    Questo è pure un ritardatario, iniziamo bene.

    Mi suscitavo antipatia da sola, lo ammetto, ma ero davvero indisposta e prevenuta.

    La signora mi fece strada e mi condusse in un’ampia stanza. Varcandone la soglia, mi sentii come se stessi saltando nel vuoto, priva di protezioni e con nessuna speranza di potermi salvare. In quel luogo avrei solo perso tempo. Senza nemmeno guardami intorno, mi sedetti e aspettai l’arrivo del dottor Greco. Sguardo a terra, rapita dall’indifferenza e dalla voglia di essere in qualsiasi posto, tranne che lì, aspettai. Mi sentivo a disagio, fuori luogo.

    Dopo un’attesa che durò una quindicina di minuti, ma che a me sembrò un’eternità, la porta si aprì e fece il suo ingresso, in quella stanza, come nella mia vita, il dottor Gianluca Greco.

    Era poco più vecchio di me, non alto, dal fisico asciutto, forse un instancabile sportivo; il colore particolare dei suoi occhi, grigio-verde, rendeva il suo sguardo affascinante e profondo. I delicati lineamenti del viso ovale, insieme al naso alla francese e alla bocca ben disegnata gli conferivano un aspetto piacente.

    Si presentò, stringendomi la mano proprio come piace a me: una stretta forte e decisa, ma non in modo eccessivo, quel tanto che basta per trasmetterti sicurezza e determinazione, senza arroganza o desiderio di prevaricazione.

    Il primissimo impatto fu, contro ogni aspettativa, positivo. Il suo sguardo mi piaceva e mi ispirava fiducia.

    Iniziò così il mio percorso di psicoterapia, nella mia diffidenza e scetticismo più totali.

    CAPITOLO 1

    Bondo Basso, un anno dopo

    Cosa non va in me:

    Ero partita col piede sbagliato, non era questo che intendeva Gianluca quando, qualche giorno prima, mi aveva proposto di ricominciare a tenere una sorta di diario.

    «Ricorda che siamo buio e luce, tutti, nessuno escluso; siamo un abbraccio intricato e affascinante di punti deboli e punti di forza. Nulla è inutile, nulla è sbagliato, tutto serve.»

    Queste le parole che sovente mi ripeteva durante i nostri incontri. Non era quindi il caso, ne ero consapevole, di cominciare col buttare fango sui miei punti deboli definendoli cosa non va in me.

    Poggiai la penna, stiracchiai la schiena e volsi lo sguardo alla finestra. Un tiepido sole primaverile mi faceva l’occhiolino, invitandomi ad abbandonare il mio primo fallimentare tentativo di autoanalisi per preferire, senza ritegno, una passeggiata all’insegna dell’ozio e della spensieratezza.

    Vinse il richiamo del sole e rimandai la cerimonia d’iniziazione alla sera stessa.

    Infilai giacca e scarpe e mi incamminai lungo la via che, in pochi minuti, mi avrebbe condotto al centro del paese in cui ero nata e cresciuta. Paese che mi aveva vista bambina, adolescente, adulta.

    Forse per suggestione (non era cosa consueta tentare di approcciarsi alla propria vera essenza), osservai tutto con uno spirito diverso. I negozi che conoscevo da decenni sembravano vestirsi di luce nuova. Mi fermai qualche istante tra la bottega di Alfredo, il panettiere, e quella di Gianni, il calzolaio. Sguinzagliai l’olfatto e fui inondata da una miscela di pane caldo e cuoio, un accattivante e piacevole connubio di profumi antichi, odori rari come rare sono le botteghe, ormai rimpiazzate dai centri commerciali.

    Proseguii.

    Le case, per lo più villette, si presentavano adornate di dettagli mai notati prima: il verde dei giardini, costellato di novelli fiori primaverili dai colori sgargianti, litigava con il triste grigio dell’asfalto della strada. La luce del sole, che si preparava al tramonto, accarezzava le tegole rosse e marroni dei tetti, accentuandone le terree tonalità. Dalle finestre aperte, giungeva il suono di piatti e bicchieri che, cozzando gli uni contro gli altri, davano vita a un concerto che evocava una rassicurante immagine di famiglia riunita per l’ora di cena.

    Era incredibile come certi dettagli mi fossero sempre sfuggiti, in tutti quegli anni vissuti a Bondo Basso, piccolo paese della Pianura Padana.

    Anche i passanti, gente che conoscevo da decenni, costituivano fonte di novità: non erano solo ombre fugaci colte con la coda dell’occhio, ma veri e propri protagonisti della scena che si stagliava davanti a me. I vari Buongiorno, ciao, buonasera si tinsero di una colorazione così viva e intensa da farmi girare la testa. Stavo tornando a vivere, palpando con consapevolezza il mio esistere nel qui e ora. Senza rendermene conto, stavo applicando l’ennesima dritta di Gianluca che da un po’ di tempo aveva introdotto nei nostri colloqui settimanali una tecnica, a dire di molti, portentosa e indispensabile in un percorso di terapia cognitivo-comportamentale: la cosiddetta mindfulness ovvero, citando le parole del padre di questa pratica, Jon Kabat-Zinn, la consapevolezza che emerge dal prestare attenzione di proposito, nel momento presente e in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento. I benefici di questo sentire consapevolmente sono molteplici; si arriva, col tempo, a comprendere i propri automatismi mentali nocivi che limitano la possibilità di approcciarsi alla vita con apertura e sana curiosità e che possono causare malessere psicologico e fisico.

    In quella passeggiata, scandagliando tutto con precisione e accuratezza, stavo quindi praticando la mindfulness.

    Giunsi alla piazza principale dalla forma ovale e, ponendomi al centro, girando su me stessa per qualche istante, la osservai nel suo insieme: la chiesa, il municipio, l’ufficio postale, un bar e qualche negozio si affacciavano sul grande blocco di beole grigio chiaro. Il rumore metallico e deciso delle saracinesche indicava che il tramonto era ormai imminente.

    Proseguii per la pista ciclabile che dalla piazza portava alla periferia e che costeggiava il fiumiciattolo del paese. Camminai a lungo, assaporando ogni dettaglio. Il sole, ormai basso all’orizzonte, stava lasciando il posto alla luna, piccola falce pallida in un cielo azzurro, arancione e indaco. L’umidità, sopraggiunta con la dipartita del sole, rilasciava un forte odore inconfondibile e donava ad abiti e capelli uno strato appiccicaticcio e fastidioso. Il tempo volò e, a un certo punto, iniziai a sentire freddo. Era fine aprile e i pomeriggi tiepidi, all’imbrunire, lasciavano posto a serate ancora freddine.

    Iniziavo, piano piano, a sentirmi meglio: da poco avevo ritrovato la bussola in quel labirinto che era stata la mia vita fino a non molto tempo prima e ciò mi infondeva una bellissima sensazione di pace e tranquillità.

    Decisi di fare tappa nel mio pub preferito. Varcai la soglia e un forte profumo di carne grigliata mi diede il benvenuto, ricordandomi che non mangiavo da diverse ore. Avevo un discreto appetito. La musica, solitamente a volume medio alto, quella sera era invece contenuta e me ne rallegrai; non avevo voglia di eccessivo rumore. Entrando, attirai gli sguardi degli avventori. Qualche volto conosciuto si alternava a qualche faccia nuova. Attorno al bancone, seduti sugli alti sgabelli di legno marrone scuro, erano posizionati gli irriducibili, coloro che restano ancorati all’angolo dove viene spillata la birra, si alzano solo per uscire a fumare o andare in bagno e, nell’arco della serata, arrivano a bere quattro o cinque medie a testa. Alzai un braccio nella loro direzione per salutare, ma non mi avvicinai.

    Lontano dal bancone erano sedute ai tavolini dello stesso legno scuro di bancone e sgabelli alcune coppie a me sconosciute.

    In piedi, sparse per tutto il locale, c’erano parecchie persone, molte di loro le conoscevo piuttosto bene. Scambiai qualche abbraccio veloce, qualche abbraccio più corposo, qualche bacio, qualche sorriso da lontano. Sincere ed empatiche manifestazioni d’affetto si mescolarono a falsi convenevoli impacciati e, ne sono certa, il mio arrivo fu accolto da qualche commento non proprio edificante da parte di alcune persone e nella mia mente prese forma il pensiero dantesco Non ti curar di lor, ma guarda e passa.

    «Eccola qui! Finalmente!» quella voce così dolce e calda mi accarezzò il cuore, e me lo cinse in un abbraccio carico d’affetto. Mi emozionai. Simone, il mio migliore amico, mi corse incontro, e la luce del suo sorriso sincero terminò l’opera della sua voce: ero felice di essere lì, di nuovo, ancora.

    Il suo passo deciso e svelto rispecchiava la sua personalità: una persona energica, determinata e sicura di sé, ma non arrogante e nemmeno superba. Superava i due metri d’altezza. Spalle larghe e un torace generoso che sembrava essere fatto apposta per contenere un cuore enorme sempre pronto ad allagarsi ancor di più per fare spazio a nuovi sentimenti d’amore verso il prossimo.

    «Ciao, Simone! Sì, eccomi finalmente» gli dissi, abbracciandolo forte e per un istante ebbi paura di mettermi a piangere, ma riuscii a trattenermi.

    Mi accomodai a un tavolino libero, in un angolo appartato. Simone si congedò dai suoi amici e venne a sedersi con me.

    «Io sto qui da sola senza alcun problema, lo sai, non voglio che interrompi quello che stavi facendo per dar retta a me» gli dissi, ed ero sincera. Non mi dispiaceva affatto starmene per conto mio; pur essendo abbastanza socievole e pur avendo la fortuna di essere circondata da amici, amavo gli aperitivi solitari e cercavo spesso dei momenti tutti per me, in cui starmene in pace. Anche se… dopo quello che era successo, erano mesi che non entravo in un locale.

    «Scherzi? Non ci vediamo da parecchio tempo e non mi sembra vero poter stare un po’ con te. Quando sei entrata non potevo crederci. Perché non mi hai avvisato che saresti passata? Ieri al telefono mi hai detto che non ti sentivi ancora pronta». Gli occhi color nocciola di Simone spiccavano grandi e intelligenti sul bel viso tondo e regolare; incorniciati da una folta chioma rossiccio-castana, emanavano affetto. Percepivo il suo volermi bene sincero e profondo.

    «In realtà ho improvvisato» ammisi, «e mi sono stupita di me stessa. Ero in casa e a un certo punto son stata solleticata dal desiderio di uscire, riaffacciarmi al mondo, respirare aria primaverile; non mi capitava da tantissimo tempo. Credevo di passeggiare lungo il Pregnolo e poi rincasare, ma passando qui davanti ho deciso di fermarmi».

    Tra noi scese il silenzio, ma senza imbarazzo. Quel tipo di silenzio magico che solo due anime in sintonia possono comprendere e apprezzare. Quel silenzio fatto di parole segrete, pronunciate con gli occhi. Quel silenzio intriso di emozioni intense che solo due amici veri possono condividere.

    «Bentornata!» sussurrò Simone. Allungò la sua mano fino a coprire la mia, e il calore che percepii mi attraversò fino a sfiorarmi il cuore.

    «Grazie. Grazie di esserci sempre stato e grazie di esserci ancora» la mia voce si stava incrinando. «Vedi, in certi casi è così difficile capire quale sia la strada migliore da seguire, e tu mi sei stato accanto nel modo giusto». Le lacrime a quel punto divennero inarrestabili, e mi lasciai andare. Le luci erano soffuse e dubito che qualcuno notò la mia reazione e poi, dopo tutto, stavo davvero iniziando a fregarmene degli altri. Permisi così all’emozione di sgorgare libera.

    Chiacchierammo per quasi due ore, senza rendercene conto. Parlammo pochissimo di quello che m’era successo, solo qualche accenno. Mi raccontò dei suoi ultimi viaggi, delle sue recenti frequentazioni. Mi aggiornò su coppie nuove e coppie scoppiate. Mi elencò le ultime figuracce che aveva aggiunto alla sua nutrita collezione e mi fece ridere tanto, di gusto. Mi fece ridere come solo lui riusciva a fare.

    Ci congedammo con un lungo abbraccio. Tentò di strapparmi la promessa di farmi vedere in giro più spesso, ma non me la sentii di promettere alcunché. Sapevo che i giorni non erano tutti uguali. Era tutto così labile, delicato, precario; era tutto così imprevedibile.

    Stretta nella giacca, mi incamminai verso casa. Fui tentata di ripercorrere a ritroso la strada dell’andata. Ero curiosa di vedere sotto un’altra luce i dettagli che avevo notato al crepuscolo, ma temevo una freddata, la temperatura era scesa sensibilmente e non ero abbastanza coperta. Decisi quindi di prendere una scorciatoia, passando tra le villette a schiera anziché compiere il giro largo che ricopriva tutto il perimetro del paese.

    Mi ripromisi di ripetere l’esperienza del percorso più lungo nei giorni seguenti. Passeggiare in consapevolezza faceva ormai parte di me e sentivo il bisogno di farlo perché contribuiva a farmi stare bene.

    Giunta a casa, salii piano le scale; aprii la porta e, prima di richiuderla alle mie spalle, volsi lo sguardo alle panchine, ai gatti in amore, alle stelle, alle fronde degli alberi, alle luci dei lampioni. E sorrisi.

    Quella sera non cenai, si era fatto tardi, avevo spizzicato qualcosa mentre chiacchieravo al pub, ed era sufficiente così. Mi concessi un lungo bagno caldo. Per coccolarmi a dovere, accesi candele e musica. Il tepore dell’acqua sciolse la tensione muscolare. Piano piano fui pervasa da una sensazione di rilassamento mista a sonnolenza. Prima di cedere al richiamo del letto, però, volevo battezzare il diario, volevo scrivere almeno un paio di righe. Mi accoccolai sul divano e presi la penna, con l’intenzione di affidare alla carta qualche pensiero.

    Un rumore forte e secco mi strappò al sonno. Sobbalzai spaventata; impiegai diversi secondi per capire da dove fosse giunto quel suono. Un temporale coi fiocchi stava imperversando. Un rapido susseguirsi di lampi e la stanza s’illuminò a giorno, poi di nuovo tornò il buio. Un tuono. Ancora lampi. Poi un altro tuono potente e grintoso. Continuò così per almeno mezz’ora.

    Realizzai che mi trovavo sul divano, il diario in grembo, la penna era caduta sul tappeto e la pagina era completamente bianca. Credevo di aver scritto, in realtà avevo solo immaginato e l’immaginazione mi aveva lentamente spinto nell’oblio del sonno.

    Mi trascinai a letto e, prima di riaddormentarmi, mi concentrai sui suoni e le luci del temporale. Era così rassicurante essere in casa, al caldo, protetta, mentre fuori imperversava il finimondo. I temporali mi avevano sempre affascinato, fin da bambina. Nonostante nutrissi una sorta di paura nei confronti di fulmini e tuoni, mi piaceva assaporarne lo scatenarsi, meglio ancora se al riparo e al caldo. Alla fin fine, pensai quella notte, forse i temporali mi piacevano così tanto perché un po’ rappresentavano la mia vita. Il vento che soffia contro, la grandine che colpisce in testa, la pioggia orizzontale che penetra nei vestiti, i tuoni che disorientano, i fulmini che possono essere letali. Tutto ciò rappresentava alla perfezione le avversità che fino a quel momento avevo dovuto affrontare.

    Ma si sa: dopo ogni temporale, torna il sole.

    Con gli occhi ormai a fessura, presi una decisione: prima di ricominciare a scrivere un diario, avrei dovuto trovare il coraggio di addentrarmi nella mia tempesta, avrei dovuto leggere quello che avevo scritto a vent’anni, quando tutto ebbe inizio.

    Milano, anno 1957

    Odore di urina, acido e pungente: Beretta, con tutta probabilità, se l'era fatta un'altra volta addosso e il fetore si stava propagando per tutta la camerata, mischiandosi alla puzza di muffa che impregnava la tappezzeria logora e scrostata.

    Dal corridoio, le urla stridule del paziente della tredici, che si infuriava quando non gli veniva concesso di fumare, spezzavano il silenzio compatto di cui ogni angolo dell’istituto era pregno. Tutti gli altri dormivano o, se erano svegli, giacevano inermi, sepolti sotto dosi massicce di sedativi.

    Sul soffitto, grossi neon sporchi,

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