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Il gusto salato della libertà
Il gusto salato della libertà
Il gusto salato della libertà
E-book176 pagine2 ore

Il gusto salato della libertà

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Info su questo ebook

Tra i corridoi dei reparti di un ospedale, si intrecciano le amicizie, gli affetti e gli incontri fortuiti di Andrea: giovane e brillante cardiologo dedito alla sua professione. Il suo unico credo, sul lavoro come nella vita, è cercare di ascoltare e aiutare sempre gli altri. Andrea è capace di leggere dritto nel cuore delle persone senza soffermarsi sulle apparenze e senza pregiudizi. La sua spiccata empatia lo porterà ad accorgersi di una bambina nascosta e impaurita, Hasmaara, la cui madre è ricoverata nel suo reparto. Le due donne sono immigrate, sole e prive di aiuto. La situazione sembra disperata, ma Andrea, con la sua gentilezza e professionalità, riesce ad attivare i suoi genitori, i suoi colleghi e i suoi amici: nessuno si tira indietro e tutti offrono il proprio aiuto. Una storia incredibile fatta di sentimenti e legami che passo dopo passo si stringono sempre più. I protagonisti senza nemmeno accorgersi si ritrovano a far parte di una grande famiglia, capace di andare oltre i semplici legami di sangue. Le persone altruiste, però, spesso nascondono un vuoto dentro. Andrea lavora senza sosta e mette sempre gli altri al primo posto, ma chi pensa a lui? Forse non si ferma un secondo proprio per questo, per non ascoltare i suoi dubbi interiori e la sua tristezza. Lui ancora non lo sa, ma quello che sembrava solo un ricordo e un lontano passato sta per tornare. Il sogno è a portata di mano, serve solo il coraggio di afferrarlo.
LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2023
ISBN9788892967465
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    Anteprima del libro

    Il gusto salato della libertà - Luigi Di Piazza

    PRIMA PARTE

    ANDREA

    Era già sera. Finalmente ero a casa. Quella sera ero preso dalla malinconia e non sapevo darmi una spiegazione. Ogni tanto mi capitava e avvertivo dentro di me un senso di vuoto che aveva il sapore dello smarrimento. Dopo aver poggiato la giacca sulla sedia e la borsa sulla scrivania, versai della grappa nel mio solito bicchiere e mi distesi sulla poltrona. Subito dopo, come una sentinella, apparve Billo che, scodinzolando, mi saltò addosso accucciandosi sulla coscia che considerava, sicuramente, un morbido cuscino. Un cuccioletto che mi fu regalato, poco tempo fa, da un bambino, in segno di riconoscenza per aver curato la sua mamma. Ricordo ancora quel gesto gioioso e, al contempo, imbarazzante, quando Giacomo lo prese tra le sue braccia e lo poggiò tra le mie mani.

    «Grazie, dottor Andrea, abbi cura di lui. Il suo nome è Billo» mi disse, quella mattina, con il suo dolcissimo visino dal quale traspariva un’espressione di orgogliosa soddisfazione. Rimasi profondamente sorpreso e perplesso perché non era nei miei pensieri adottare un altro cagnolino. Ma per lui, quel cucciolo rappresentava la cosa più cara che potesse offrire a un amico e io non potevo deluderlo.

    «Grazie Giacomo, terrò Billo con me e lo curerò. Stai tranquillo». Subito dopo, con un balzo istintivo e improvviso mi abbracciò, quasi a soffocarmi, mormorando mille volte «grazie, ti voglio bene».

    Billo, caso volle, aveva lo stesso nome del cagnolino che avevo adottato alcuni anni fa. Questa coincidenza, forse un segno del destino, mi riportò indietro nel tempo. Ho ancora vivo nella mente il momento in cui parlai con il veterinario, dopo che lo aveva operato per la frattura scomposta della colonna vertebrale, provocata da un automobilista.

    «Dottore, com’è andato l’intervento? Vorrei avere notizie sulle sue condizioni.»

    «L’intervento è stato molto difficile e complicato ed è finito due ore fa; è ancora sedato e non può muoversi, né reggersi sulle zampe. Se ce la farà, non potrà sicuramente camminare. Vedremo nei prossimi giorni.»

    Parole secche, prive di qualsiasi sensibilità e di partecipazione. Un comportamento distaccato e incredibilmente strano che mi colpì profondamente. A quel punto, benché l’infermiere tentasse di fermarmi, andai nella saletta dove Billo si trovava assieme ad altri amici. Mi avvicinai e l’accarezzai.

    «Ciao piccolo, come stai». Subito dopo, aprì gli occhi e mi fissò intensamente con quegli occhioni meravigliosi, castano chiaro, accennando con un’espressione sofferente, un flebile e sereno sorriso. Mentre lo coccolavo, si alzò lentamente con le zampine anteriori, si prese le mie carezze e subito dopo si adagiò stancamente sulla piccola lettiga, chiuse gli occhi e gli diedi un bacio. «Billo, ci vediamo domani», ma non fece alcun altro movimento. Furono momenti terribili e di grande intensità emotiva. Vederlo alzare, con uno sforzo incredibilmente sovrumano, per dimostrarmi tutto il suo affetto lo considerai un gesto di grande e commovente amicizia che non potrò mai dimenticare. L’indomani, mentre ero in ospedale, ricevetti la temuta telefonata.

    «Billo, nella notte, si è spento.»

    Adesso riposa in un angolino del mio giardino, dentro una piccola nicchia naturale di una montagnetta, dove ho riposto una piantina di ciclamini rossi. Un triste epilogo, che mi ha segnato per sempre.

    Il camino, intanto, era già in pieno vigore. La legna bruciava e scoppiettava come un gioco d’artificio, fatto di mille stelle variopinte e di arcobaleni. Sensazioni che avvertivo a pelle e che si incrociavano come un valzer, per accompagnarmi, con quel tenue calore, in quella dimensione misteriosa, che sta dentro di me: l’anima, che considero una cara amica, una misteriosa entità spirituale che dà voce alle mie emozioni, che sa disegnare, su una tela immaginaria fatta di nuvole e di sfumati colori, i sogni che vorrei ancora realizzare. Non so in quale parte del mio cuore si annida, ma io la sento, la sfioro e l’accarezzo dolcemente per paura di farle male, perché è viva e custodisce gelosamente tutti i miei ricordi e i miei pensieri.

    L’orologio aveva già battuto la mezzanotte e malgrado la stanchezza, non avevo ancora sonno. In quel momento, mi venne in mente quell’uomo di quarant’anni che, in visita alla madre ricoverata presso il mio reparto di cardiologia, ebbe un infarto, di quelli che nella letteratura medica sono classificati ad altissimo rischio. Lo salvammo in extremis, con la soddisfazione di tutta l’equipe. Non era la prima volta che ci capitava un caso così complicato e complesso. Nella nostra professione questi eventi, purtroppo, non sono rari e tutte le volte che interveniamo su un paziente, scatta in noi una lucida e forte responsabilità che dà forza ed energia al nostro sapere, per tentare di salvargli la vita. Vederlo, poi, riprendersi e piano piano riappropriarsi della sua vita, è per noi motivo di grande soddisfazione tanto che, a quel punto, la stanchezza, la tensione e lo stress, che si accumulano, in episodi di questo genere, passano, in secondo piano. Ricordo il momento in cui, uscito dalla sala operatoria, vidi piangere e pregare, in una muta e sconvolgente disperazione, una ragazzina dagli occhi verdi e con le treccine color castano chiaro, che le scivolavano sulla spalla.

    «Perché piangi?» le dissi accarezzandole i capelli.

    «Per il mio papà. È in quella stanza, da dove sei uscito tu. Come sta?»

    «Sta bene, piccola. Stai tranquilla. Abbiamo curato il suo cuore e adesso non farà più i capricci. Io sono Andrea il direttore del reparto. Tu come ti chiami?»

    «Serena.»

    «Ecco, appunto. Devi stare serena, altrimenti il tuo nome ci resta molto male. Vedrai, che papà si riprenderà presto. Vuoi dirmi qualcosa?»

    «Sì, Andrea. Ero con lui in visita alla nonna che era ricoverata qui e a un tratto non l’ho visto più accanto a me. Era a terra e non dava segni di vita. Ho avuto tanta paura e mi sono messa a gridare aiuto. Subito dopo, sono intervenuti i medici.»

    «Non pensarci più, è andato tutto bene e tra qualche giorno lo dimetteremo. Dimmi, c’è qualcuno con te?»

    «Sì, mia zia»

    «E tua madre?»

    «La mamma non ce lo più. È andata in cielo, tre anni fa. Io e papà, viviamo con la nonna.»

    «Mi dispiace piccola. Ma ti prometto che la nonna e tuo padre torneranno a casa, molto presto.»

    «Grazie, Andrea.»

    «Ciao Piccola e quando vuoi vienimi a trovare. Adesso fammi un sorriso.»

    Con quella scena ancora davanti agli occhi, mi alzai, accesi una sigaretta e andai verso la finestra; aprii le imposte e mi affacciai sul giardino. Un soffio d’aria fresca mi sfiorò il viso, provocando in me una deliziosa sensazione, fatta di piacevoli brividi. Poi, come faccio spesso, cominciai a giocare, con il fumo della sigaretta, creando dei cerchi, che sembrano frutto di una magia, per farli scivolare verso la cima degli alberi, fino a quando si allargano e si disperdono tra i cespugli. Sarebbe una cosa banale e senza senso, uno spasso da bambini, se questo diversivo non avesse, invece, come protagonista, la sigaretta, nemica della nostra salute. Questo gesto lo considero una delicata sfumatura che mi fa pensare alle dinamiche della vita. Si nasce da un sospiro, si viaggia fino a diventare grandi e poi, quando inevitabilmente sta per finire il ciclo vitale, svanisce nel profumo dell’aria. Alla fine rimarranno soltanto briciole di ricordi che continueranno a vivere nel cuore dei nostri cari, fino a quando, anche loro, saranno in vita.

    Staccatomi da quel pensiero, che rischiava di portami sul ponte della malinconia, pensai al momento in cui, alcune sere fa, finito il turno di guardia, portai a casa Billo. Appena arrivò cominciò a saltellare di gioia, come se conoscesse quel luogo, da sempre. Aprii la porta che dà nel giardino e uscì fuori. Rimase fermo nel mezzo di quello spazio verde, guardandosi attorno, come se volesse scrutare il territorio. Poi, camminando lentamente, cominciò ad annusare, con la fierezza di un guerriero, tutto quello che gli capitava. Dopo questo teatrino, mi venne incontro e mi guardò come se volesse dirmi «E adesso, che si fa?». Si distese davanti a me e cominciò a scodinzolare. A quel punto, mi abbassai, lo presi tra le braccia, lo strinsi a me e rientrammo.

    Billo è bello come il sole. Con quegli occhietti bellissimi e ruffiani e con il viso costantemente sorridente, riesce sempre a trasmettermi tanta appagante serenità. Ha l’abitudine di ruotare continuamente la coda, come fosse una girandola e questo fastidioso movimento ogni volta fa a pugni con il dolce tepore che proviene, invece, dal camino. Quando gli prende questa mania, i miei inviti a farlo smettere, non servono a nulla. Fa sempre finta di non capire e, come se nulla fosse, continua con quel sadico gioco, osservandomi con un’espressione, a dir poco, dispettosamente ironica e truffaldina. Tutte le volte, nel tentativo di fermare quel crudele rito, devo ricorrere inevitabilmente alle uniche cose che con lui funzionano benissimo: amorose coccole sulla pancia, mentre è disteso con le zampine in aria e, per finire, nella più classica delle cose, la grattatina sulla testa. Adora le carezze che, molto spesso, riescono ad addormentarlo e a farlo sprofondare in un sonno quasi surreale, tanto che, in qualche occasione, comincia anche a russare, provocando un insopportabile frastuono. Non ho mai visto un animale con queste caratteristiche. Nonostante questo viziaccio, nel vederlo così sereno, provo tanta tenerezza e molto spesso mi metto a ridere come uno scemo. Poi, per mettere fine a quella che appare una sceneggiata, sono costretto, anche se a malincuore, a svegliarlo, a prenderlo tra le braccia e ad adagiarlo sulla sua brandina dove, tanto per non smentirsi, con gli occhi beffardamente ancora quasi socchiusi, riprende a russare. Per fortuna, quando dorme nella sua stanzetta, socchiudo la porta per non sentire quel rumore assordante.

    Fuori, intanto, la neve aveva cominciato a fioccare cullandosi lentamente per adagiarsi sui rami del pino, sugli ulivi, sul carrubo secolare e sul prato dove, la rosa del pittore, che avevo interrato lo scorso Natale, mostrava orgogliosamente i suoi boccioli, fatti di petali multicolore. Sembrava un delicato dipinto poggiato sul verde intenso del giardino, tanto da sembrare, per quel periodo, un palcoscenico fatato. Solo un poeta avrebbe potuto esaltare la bellezza che traspare da quel magico scenario, impreziosito da un ciuffo di lillà e di margherite gialle. L’atmosfera è molto bella e suggestiva, tipicamente natalizia, con il cielo a tratti nero e a tratti plumbeo, in una cornice dove il bianco, il verde, il canto di qualche sperduto pettirosso, il rumore delle onde del mare, che si infrangono sugli scogli, danno risalto a un paesaggio sublime e incantevole, dal quale è difficile staccare lo sguardo. Sebbene affascinato da quel fantastico sogno vivente avvertii, tuttavia, la necessità di portare altrove la mia testa e i miei pensieri, per non rimanervi inghiottito. Presi, così, con un gesto istintivo, il libro, regalatomi giorni fa da un paziente e che avevo poggiato su uno scaffale della libreria. Accesi un’altra sigaretta, piacevole vizio che non mi lascia mai e che non riesco o forse non voglio togliere, e iniziai a leggerlo. Un romanzo che via via mi portò indietro nel tempo, tanto da farmi rivivere alcuni periodi importanti e spensierati della mia giovinezza. Emozioni e sentimenti mai più provati e che sono rimasti inchiodati nel mio cuore e a un sogno che, alla fine, si è bruciato come la legna del mio camino. Ero ancora un ragazzo quando io e Lara, ci innamorammo. Una bellissima storia fatta di sguardi, di baci, di carezze e di progetti. Eravamo felici e vivevamo quell’innocente passione, come la cosa più bella e pulita che ci potesse capitare. Dopo qualche tempo, i nostri sogni si sono dolorosamente infranti. Quella sera eravamo sotto casa sua, dopo essere stati a cena.

    «È stata una bella serata. Sono felice, Andrea. Stare con te è come vivere un sogno. Non voglio perderti perché ti amo, perché sei la mia unica ragione di vita, perché…»

    «Che è successo

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