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Akiko
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E-book421 pagine5 ore

Akiko

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Info su questo ebook

Un dio è morto. Un dio è appena nato.

Il patto maledetto tra un’ingenua regina e un diavolo millenario darà alla luce una bambina. La piccola, aiutata dal Kami (spirito) del Vento, sarà adottata da famiglie semplici, e mostrerà un dono portatore di morte e distruzione ogni qual volta si trovi in pericolo.
Degli assassini inviati a ucciderla, conquistati dal suo fascino diabolico, faranno di lei l’erede del Ryūjinja, un monastero di spie e ladri. Qui la ragazza sarà chiamata Akiko e svilupperà la capacità di vedere le Ōra, anime degli esseri viventi, e imparerà a usare la catena chiodata Sashimasu.
Akiko verrà mandata in un’isola lontana per uccidere un principe, ma nulla andrà com’era programmato. Da quel momento, la giovane si muoverà attraverso antichi miti, alla ricerca di un artefatto per riportare l’equilibrio, in un combattimento epico che deciderà le sorti del mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2017
ISBN9788899768614
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    Anteprima del libro

    Akiko - Michela Cavaliere

    Glossario

    Akiko

    Michela Cavaliere

    Epic fantasy

    I Edizione aprile 2017

    ©2017 Astro edizioni Srls, Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN: 978-88-99768-61-4

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Elisabetta Di Pietro

    Copertina:

    Livia De Simone

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione,

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    Prologo

    Era bella.

    Fatale e bella.

    Strana, anche.

    Mi soffermai un secondo ad ammirare quest’arma così inusuale nel mio mondo. Sashimasu, questo il nome scritto con caratteri classici sulla sua cassa, pareva essersi dimenticata di tutti i secoli che portava sulle spalle... sorrisi.

    «Sashimasu...», sussurrai a lei, illudendomi per un attimo che potesse rispondermi. Allungai le mani e la tirai su, pesante e fastidiosa!

    «Sei bella, ma come ti porto via di qua, ora?», ancora una volta mi illusi.

    Hatsu non mi aveva parlato delle dimensioni, né della scomodità di Sashimasu. Avrei dovuto trascinarmi una catena chiodata di tre metri circa nel buio della notte, mentre ad Atarashii Yamato la Keisatsu Seidō stava facendo la ronda di controllo.

    Non erano più i tempi dei miti e della magia, eh!

    Ce li eravamo giocati con l’ultima guerra e la costruzione delle grandi metropoli sui nuovi mondi, mentre avevamo lasciato il nostro al proprio destino.

    Avevamo abbandonato la Terra.

    Eppure quest’arma ricordava i tempi dei grandi eroi, del sudore sulla pelle durante i combattimenti, degli scontri frontali tra i nemici, delle bandiere e i tamburi di guerra...

    Non avevo molto tempo.

    Hatsu la voleva. Ottimo, gliel’avrei portata!

    Con attenzione a tutte le sue punte, me l’avvolsi attorno al corpo e tornai sui miei passi, il livello più basso di Atarashii Yamato mi stava aspettando.

    Prima parte

    Un cuore morto

    Destino

    A volte il destino si beffa delle macchinazioni degli esseri umani

    che si credono tanto scaltri e che cercano di far ruotare gli ingranaggi dell’esistenza a proprio piacimento.

    C’era stato un tempo in cui avevo vissuto in esilio, oh sì, un esilio lungo un’eternità, sarebbe il caso di dire. Ma anche i piani più astuti a volte vengono infranti dalla casualità,

    dall’intreccio inaspettato di diversi destini che si incontrano

    e che danno vita a qualcosa di nuovo.

    Oh sì, ripensare a questo quasi mi fa sorridere, ma cos’è un sorriso al pensiero

    di tutto quello che ho trascorso per poterlo raccontare?

    Sei sprovveduto e avventato, se hai fra le mani questa pergamena

    e vuoi conoscere la mia storia.

    Stai attento... Non sai dove ti porterà e rischierai di perderti.

    Né giuste né sbagliate sono le parole e le azioni dei suoi protagonisti,

    non schierarti mai, non legarti a nessuno, non provare sentimenti,

    non provare affetto né amore perché, caro lettore, rischi la mia condanna.

    *

    I suoi movimenti erano fluidi e veloci. Se qualcuno l’avesse vista muoversi in quel momento non avrebbe mai detto che potessero appartenere a una signora di una certa età. Ma avrebbe sbagliato, perché Kaede, in realtà aveva molti più anni di quanti ne dimostrasse nella sua forma umana.

    E umana non era.

    La bambina stava tra le sue braccia, ignara del mondo attorno a sé, ma consapevole solo del calore della stretta rassicurante della donna. Kaede giunse in un batter d’occhio nelle sue stanze, semplici ed essenziali, con appena un giaciglio, un tavolino e un guardaroba neppure troppo grande.

    Fece un sospiro di sollievo, quando si sentì protetta dalle mura che la separavano dal resto del castello e abbassò lo sguardo verso la bambina.

    «Sei davvero molto bella, peccato per te», le disse pensando alle colpe che non le appartenevano e che tuttavia avrebbe dovuto pagare. «Ora ti porto in un bel posto, principessa».

    Inspirò e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, l’ambiente era cambiato. Non c’erano più il giaciglio, il tavolino e il guardaroba; anche la camera era cento volte più grande.

    Totalmente al buio, Kaede cominciò a risplendere come un fuoco. Si muoveva con sicurezza, quasi potesse vedere nelle ombre, come se i suoi occhi vedessero al di là delle tenebre.

    Poggiò la bimba su un altare, inspirò traendo un respiro molto più lungo di quello umano e infine emise un lento, ma continuo sospiro sul corpo della bambina, un sospiro fatto di colore e calore.

    La sala s’illuminò di una luce dorata e tutto prese vita. Migliaia di gemme – diamanti, rubini, smeraldi e acque marine – si accesero di riflessi scintillanti; oro, oro e ancora oro brillò di luce propria. Lo stesso altare riluceva di ambra e lapislazzuli.

    Sfrontata....

    Kaede prese in mano un ciondolo e lo fece oscillare sulla bambina, continuando ad avvolgerla col suo respiro. Il pendaglio, una pietra blu cobalto, che sembrava plasmata dal vento e dal mare, vibrava in maniera inconsulta.

    «Kameyo, apriti a me, donami i tuoi occhi, cosa vedrai, cosa farai, cosa diventerai...».

    La neonata sembrò risplendere di più e sotto le palpebre le si accese la luce bianca del sole. Così cominciarono le visioni.

    «Re Orochi, ecco sua figlia Kameyo».

    Kaede entrò nella stanza del re portando la piccola e continuando ad augurarsi che tutto rimanesse nascosto alla coscienza degli umani.

    L’uomo cominciò ad andarle incontro, ma si fermò quasi subito.

    Che abbia capito qualcosa? Che abbia percepito il Male che circonda la bambina?.

    No, il terrore le scivolò via. Quella del re era solo emozione.

    «È una bambina, dunque? E la regina come sta?».

    «Sta bene, maestà. Ora sta riposando. L’ha chiamata Kameyo, non trovate sia un bellissimo nome?».

    Orochi guardò la bambina che muoveva la bocca come a ciucciare nel sonno e il suo sguardo, di solito freddo e distaccato, si addolcì. Allungò quindi le braccia e la prese stringendola con una delicatezza che neppure lui immaginava di avere.

    «La mia bambina... mia figlia...», sussurrò.

    Kaede osservava la scena mostrando la propria gioia; era tuttavia solo un’espressione di facciata. La verità era che dentro di sé regnava il caos; non sapeva come Lui avrebbe reagito e, soprattutto, se lo avrebbe fatto.

    «Sei bellissima, amore mio... Non è vero che è bellissima?», riprese a dire il re. «Kameyo... La mia bambina, la futura regina di Shimakaze. Sei tutto per me, ti comprerò il mondo, avrai tutto ciò che desideri, tutto ciò che potrà renderti felice, piccola mia». Alzò lo sguardo su Kaede. «Ci saranno festeggiamenti in tutta l’isola! Tutto il mondo deve sapere della nascita della principessa, tutto deve essere perfetto! Feste grandi ci saranno per te, piccolo angelo mio...».

    Ma la parola, quest’ultima semplice parola, angelo, provocò qualcosa, provocò qualcuno.

    La bambina si svegliò.

    Lui si svegliò.

    E il corpicino della neonata iniziò a baluginare e a emanare un calore irreale, insolito.

    «Che succede?», gridò il re. «Kaede! La bambina... la bambina è calda... bollente. Sta male!».

    Il re scoprì la figlia e guardò con orrore il petto illuminato fino a riconoscere nella luce accecante e rossastra, un simbolo dapprima dai contorni confusi, poi, sempre più definito.

    «Kaede, io... Forse lo conosco. C’è un simbolo sul petto... Un cuore morto . Oh no... È un sacrilegio! Questa non è mia figlia! È la figlia di un sacrilegio!», tuonò il re voltandosi verso la donna e mostrando il simbolo. «La regina mi ha tradito! E ha tradito la mia fiducia. Ha creato quest’abominio, questa bambina maledetta!».

    «Aspettate, fatemi spieg...».

    «No! Non c’è niente da spiegare, questo è un abominio! Dev’essere uccisa subito. Non è una bambina, è un mostro!».

    «È vostra figlia, sire».

    Ma il re la ignorò. Mise la bambina sulla sua scrivania, afferrando poi la wakizashi che aveva al fianco. Quasi strappò le vesti della bimba e alzò la lama per conficcargliela nel cuore.

    Poi colpì, con lo sguardo velato di lacrime.

    Ciò che vide bastò a fermargli il braccio. Quello della bimba non era uno sguardo umano. Le pupille si erano illuminate di rosso e oro, e il fondo dell’occhio aveva assunto il colore del sole all’alba.

    La bimba stava sorridendo.

    La wakizashi divenne cenere. Terrorizzato, Orochi balbettò senza riuscire a dire niente.

    «Tu non puoi uccidere questa creatura», gli disse la voce della balia, costringendolo a voltarsi. «È molto più importante di te e di sua madre Minako. Tua figlia dovrà raggiungere il suo destino che tu, semplice umano, non potresti mai arrivare a comprendere. In tempi di dolore e odio, di intrighi e rimorsi, solo lei potrà portare il sole o la luna, quando il ponte tra i due destini sarà di nuovo unito. Lascia vivere questa bambina, Orochi, lasciala al suo destino perché si compia, al di là di te e della tua piccola isola».

    Il re rimase senza fiato.

    Kaede gli si avvicinò e prese Kameyo; le baciò la fronte bollente e le sussurrò all’orecchio: «Devo lasciarti, splendida creatura. Ma ci incontreremo di nuovo, in questo mondo o in un altro». Poi si rivolse a Orochi: «Lasciala al mare. Il tuo odio e il tuo disprezzo non potrebbero crescerla e il Male prenderebbe il sopravvento. Lasciala alle onde e al vento questa notte stessa. Portala alla baia a Est e alle prime luci dell’alba tua figlia inizierà il suo viaggio».

    La porta si spalancò e, come una furia, irruppe Minako, la carnagione bianca come uno spirito del Tempo, stanca e distrutta nel corpo, ma con l’animo combattivo.

    Kaede le si avvicinò e le diede la bambina.

    «Falle sentire ancora una volta il battito del tuo cuore. Allattala solo questa notte e non dimenticarla mai, questo le permetterà di sopravvivere. Orochi sa cosa bisogna fare. Addio, bambina».

    Poi la donna si dileguò in una spirale di vento e polvere dorata, mentre una brezza gentile entrava nella stanza lasciando un vuoto tangibile tra i due sposi.

    Un silenzio mortale scese tra loro.

    Nello stesso momento, in un’abitazione ben più modesta, un bambino si destava dall’incubo che aveva rovinato il suo sonno profondo.

    Ryuu udì un dolore così lancinante al petto e un richiamo così chiaro da destarlo dal suo brutto sogno.

    Si mise a sedere sul futon, in allerta e con i sensi vigili e attenti a captare qualunque segno di pericolo. Guardò il letto di suo fratello e vide che Haru stava dormendo.

    Cosa era successo? Era stato un semplice incubo? Se anche fosse stato così, questa possibilità non placava l’angoscia che ancora lo permeava.

    Sta succedendo qualcosa di brutto, un attacco forse, ma perché Haru non si è svegliato?.

    Aveva sentito qualcuno piangere e, in quel momento, il suo cuore era impazzito.

    Devo uscire di casa, magari l’aria della notte mi rinfrescherà la mente.

    Si vestì e fece scorrere la porta di carta di riso, poi sgusciò fuori.

    Guardò l’orizzonte e osservò il mare che si stagliava in lontananza.

    La loro casa era in cima alla collina, vicino al campo di addestramento e alla caserma militare; da quell’altezza potevano scorgere le navi in arrivo e in partenza e avere una buona idea dell’andamento della città sottostante.

    È quasi l’alba, pensò sovrappensiero. Poi un dolore atroce lo colpì alle tempie e al petto; si morse il labbro per non gridare e si accasciò.

    Cosa mi sta succedendo?. Un vento iniziò a sollevarsi da terra e a scompigliargli i capelli. Non seppe darsi una spiegazione per quelle folate confuse, ma sapeva che era così.

    Il dolore aumentava propagandosi in tutto il corpo; i muscoli iniziavano a dolergli a partire dalle braccia e da un irrigidimento del collo e della schiena; le gambe si stavano indurendo e non poteva più muoversi, anche perché il dolore era tale che lo stava facendo impazzire.

    Pensò che stesse morendo per una qualche malattia e non sarebbe mai diventato grande; non avrebbe mai potuto lottare con Haru per decidere chi era il più forte, avrebbe lasciato la sua mamma e il suo papà.

    Si mise a piangere per la sua misera fine, per la sua morte così dolorosa e solitaria; non avrebbe neanche potuto adempiere al suo dovere e proteggere il principe.

    Poi sentì, nel vorticare incessante del vento, qualche parola.

    La sua mente si ribellò all’idea...

    Il vento non parla!.

    Ma una parte nascosta di lui ascoltò comunque il messaggio.

    «Vai al mare».

    Il vento lo sospinse in avanti e Ryuu si rese conto che il dolore era quasi del tutto passato. Cercò di capire come mai e si accorse che era scomparso nel momento in cui aveva pensato al suo principe.

    È in pericolo, capì all’istante e iniziò a correre portando con sé un’angoscia tanto grande che, sentiva, avrebbe potuto ucciderlo.

    Corse talmente veloce che sembrò essere diventato vento lui stesso. Percorse quei pochi chilometri in una manciata di secondi di terrore e angoscia, fino ad arrivare alla Baia della Luna.

    Vide una cesta di vimini al largo della costa e quella che sembrava la coppia reale sul bordo del mare.

    Si avvicinò alla regina.

    Vide che piangeva, mentre pronunciava: «Ti prego, Kami del Vento, proteggi Kameyo, portala in un villaggio dove la accolgano. Ti prego, è la mia bambina, non lasciare che muoia».

    «Nooo!», gridò Ryuu come a sfogare tutto il suo dolore. La consapevolezza di quello che stava accadendo gli ridiede l’uso della parola. Si lanciò verso il mare per andare a riprendere la bambina che lui doveva difendere.

    Orochi capì le sue intenzioni e riuscì ad afferrarlo in tempo, non poteva permettere che quel mostro ritornasse sulla sua isola. Fermarlo non fu facile. Lottarono; Ryuu sembrava una furia e pareva impossibile bloccarlo.

    Poi, quando il ragazzino iniziò a capire che non avrebbe mai raggiunto la cesta a nuoto, iniziò a piangere, a pregare il suo re.

    «Perché? È vostra figlia, perché la mandate a morire? Possiamo prendere una barca e andare a salvarla. Vi prego, non fate questo».

    Il re non rispose, ma continuò a tenerlo bloccato a terra, la testa quasi del tutto nella sabbia bagnata di lacrime, mentre Ryuu continuava a guardare l’orizzonte, lo sguardo rivolto al mare placido che stava allontanando la sua principessa da lui.

    Per sempre.

    Ryūjinja

    Il vento mi conduceva lontano

    lasciandomi alla deriva.

    Ricordo un profumo salato

    che ghiacciava il mio cuore solitario.

    Ma una voce era presente,

    la mia guida

    la mia anima...

    «Non morire».

    Chiudevo gli occhi

    ed ero cullata dolcemente

    dalle braccia dell’Inferno.

    Era successo. Di nuovo.

    Mi bloccai.

    Dove sono tutti? Perché proprio a me? Perché sempre alle persone a cui voglio bene deve succedere questo? Voglio la mia mamma... Voglio il mio papà!.

    I singhiozzi e le lacrime presero il posto delle parole. Tante persone morte, troppe, tutte e in modo così brutto; ero stata io, io li avevo uccisi. Tutti quanti.

    Girai lo sguardo e provai a contare: uno, due, tre, quattro, cinque... Cosa c’è dopo il cinque? Nessuno me l’aveva mai insegnato.

    Ricominciai: uno, due, tre, quattro, cinque. Ricominciai: uno, due, tre, quattro, cinque...

    "Sono un mostro... Un mostro!".

    Mi chiamavano così a volte, il mostro.

    Ma io non sono un mostro, io voglio solo la mia mamma e il mio papà. Dov’è la mia mamma?.

    Intorno l’aria ancora bruciava e il vento aveva un odore cattivo. Non riuscivo a guardare i corpi morti per via dei loro occhi, avevano un’espressione spaventata. Erano spaventati da me e bruciavano ancora, da dentro.

    Le case erano intatte, due cani si aggiravano lontano dalla piazza del paese; anche loro erano spaventati.

    Dov’è Suri? L’avevo in mano poco fa.

    Suri era la mia bambola, quella che la mamma numero cinque mi aveva fatto con la mia veste vecchia, era l’unico gioco che avevo.

    Eccola qua ai miei piedi, per fortuna non si era bruciata.

    Suri, Suri! Tante coccole alla piccola Suri, che non si è bruciata ed è stata qua. Brava Suri, brava bambina....

    Poi un suono, mi voltai di scatto

    Ho paura, ho paura! Suri stringiti a me, ho paura.

    Due persone si stavano avvicinando, sentivo i loro passi, erano nascosti dietro un’abitazione, proprio lì davanti a me. Forse erano un uomo e una donna, avevano due respiri diversi, non li conoscevo, perché si stavano avvicinando?

    Mi concentrai, volevo ascoltare i loro pensieri, volevo ascoltare le loro parole.

    «È lei?», chiese la donna.

    Che voce dolce che ha.

    «Certo, hai qualche dubbio? Hai visto cosa ha fatto?».

    Lui è uguale a tutti gli altri.

    «È più pericolosa di quanto immaginassimo, ma del resto siamo stati assoldati proprio a causa del terrore che sta diffondendo in queste terre. È un’assassina e, se non fosse così fuori di testa, potremmo prenderla con noi. Ma di sicuro è un pericolo e bisogna farla fuori».

    «Arashi, ma non vedi che è una bambina? Avrà sì e no quattro anni, come avrebbe mai potuto uccidere tutti quei guerrieri? Guerrieri addestrati e armati».

    «È la prima volta che ti sento esitare. Siamo stati assoldati per ucciderla, sappiamo di cosa è capace, non lasciarti incantare da quell’aria innocente... Guarda, si è immobilizzata, non è possibile che ci abbia sentito. Abbiamo poco tempo Reina, sappiamo cosa fare».

    «No Arashi fermati, io non me la sento».

    «Non dirai sul serio!».

    «È solo una bambina, Arashi...».

    «Non mi tiro indietro proprio adesso che l’abbiamo a un passo».

    Viene a prendermi.

    Sentii l’uomo diventare nebbia, chissà come poteva farlo. Poi sentii che si stava allontanando dalla donna, stava venendo verso di me, stava venendo a prendermi.

    Aiuto.

    Strinsi Suri a me, quasi la stritolai.

    Non lo vedevo, ma sentivo che aveva iniziato a correre.

    Era a pochi passi da me.

    Aveva spiccato un salto.

    Aiuto.

    Poi tutto accadde in un attimo.

    L’uomo non era più nebbia, aveva ripreso le sue sembianze, gli vidi cambiare l’espressione del volto: concentrata, terrorizzata, velata... buona.

    Aveva fatto scattare dalla manica una lama luccicante e ricurva. Era quasi su di me.

    Poi sentii la nausea e qualcosa che in lui era cambiato.

    L’uomo arrivò a terra a un passo da me con la lama puntata alla mia gola.

    Ora vomito.

    Sentii un rumore e la lama ritornò al suo posto. Non ero morta.

    Mi sorrise, sembrava buono.

    Mi prese in braccio, non sapevo che fare.

    Poi si voltò verso la donna che osservava la scena, nascosta.

    Di lei sentivo che era davvero buona.

    «Reina, hai visto com’è bella nostra figlia?».

    Svenni.

    *

    Stupidi umani...

    Manipolare la vostra mente è fin troppo semplice, quasi mi diverte...

    Seconda parte

    La principessa

    del Vento

    La missione

    Sono avvolta in un abbraccio caldo e rassicurante. Sto ondeggiando?

    Mi sembra di essere su una nave. Sento il caldo di un camino e di una coperta. Qualcuno mi parla, è una donna.

    «Ora ti porto in un bel posto, principessa».

    Chi sei?.

    Sono piccola, inerme.

    «Kameyo, apriti a me».

    Chi sei tu? Perché ora ho freddo?.

    Questo letto è freddo. No, aspetta, non è un letto, è qualcosa di duro... Un tavolo, un altare...

    «Kameyo, apriti a me, donami i tuoi occhi, cosa vedrai, cosa farai, cosa diventerai...».

    Chi è Kameyo? Io sono Akiko! Ti stai sbagliando! Io non sono Kameyo, hai sbagliato persona... Io sono Akiko, Akiko!.

    «Akiko, svegliati! Siamo quasi arrivati».

    La voce di Guo arrivò violenta come una cascata ghiacciata nella mia mente confusa. Aprii gli occhi e fui investita da una miriade di immagini. C’era una donna luminosa che mi guardava e mi parlava. No, non parlava a me, parlava a una certa Kameyo.

    «Prima dici di non riuscire a dormire sulla nave e poi non riesci neppure a svegliarti! Ah, quando lo dirò ad Hachi!».

    «Guo non ci provare, eh? Hachi non perderebbe occasione per mettermi in cattiva luce!».

    «Lo so, cara mia! Il tuo segreto è custodito con me, ma dovevi proprio vederti! Facevi delle smorfie assurde, quando dormivi».

    «Eh! A te non succede mai?» odiavo essere sulla difensiva, lui non aveva mai fatto dei sogni strani?

    «Sì sì, forza Akiko», poi smise di ridere. «Stiamo per arrivare, prepariamoci a scendere».

    Non potevamo fallire, io non potevo fallire. Questa missione avrebbe segnato il mio ingresso nel Consiglio del Ryūjinja e mi avrebbe dato modo di chiudere la bocca ad Hachi una volta per tutte, dando prova di essere solo io il giusto successore dei Gran maestri.

    Mentre Guo radunava le ultime nostre cose, mi guardai allo specchio per rassettarmi.

    «Sono orribile!», occhiaie profonde segnavano il mio volto più pallido del solito.

    Odiavo andare per nave; non sopportavo non avere una base sotto i piedi.

    Mi lavai alla buona e indossai il kimono dalle ampie maniche, forse troppo classiche per una ragazza giovane, verde pallido come l’asparago, con l’obi adornato da grandi fiori arancioni.

    «Sono pronta, possiamo andare... mio dolce marito», gli sorrisi.

    «Prego amor mio, gli affari ci attendono».

    Questa missione era troppo importante e nulla andava rischiato.

    Salimmo in sovraccoperta proprio nel momento in cui la nave si avvicinava al molo per attraccare.

    «Mi auguro che la traversata non sia stata troppo stancante, specie per sua moglie», disse il capitano a Guo, lanciandomi un’occhiata eloquente.

    Voltai lo sguardo all’isola e mi apparve bella e luminosa, molto più di quanto immaginassi.

    Le case marrone chiaro costeggiavano il mare e conducevano, tra vie azzurre e madreperlate, verso una dolce collina su cui svettava una villa molto più grande, ma non troppo maestosa: il palazzo reale.

    «Non è poi così male, vero?», commentò Guo.

    «Ma non doveva essere un paese di burocrati e giuristi? È molto più... allegro di quanto credessi!».

    Il porto stesso brulicava di vita. Uomini e donne, guardie e mercanti, tutti si muovevano su e giù per il molo, portando casse e animali, scaricando e caricando merci; c’era vita e... c’erano un sacco di sentinelle.

    «Solo qua al porto ho contato una dozzina di guardie, tutte armate. Si va dagli adolescenti agli uomini di mezz’età».

    «Sì, ma hanno poche armi, anche scadenti, almeno questo coincide con i nostri rapporti e poi... non mi sembra che sotto le armature siano così dotati!», e scoppiò a ridere.

    «Ma vuoi smetterla? Sei fissato!».

    Guo, però, non aveva tutti i torti; in fondo, seppur soldati, non apparivano in gran forma. Il mio compagno di viaggio, invece, poteva vantare muscoli temprati da duri esercizi. E inoltre era capace di organizzare e prevedere ogni situazione; la sua arma letale non era né la forza né l’agilità, bensì l’estrema capacità di spionaggio e di travestimento.

    Un marinaio allungò la passerella dopo aver assicurato la nave e noi scendemmo.

    «Vieni, il capitano mi ha detto che ci sono delle ottime chashitsu dove pernottare, proprio qui vicino».

    La farsa era iniziata.

    La stagione calda e il sole ancora cocente mi fecero sentire subito troppo coperta e perle di sudore iniziarono a colarmi lungo la schiena, seguendo le curve del mio corpo.

    Arrivammo in una locanda piccola, ma elegante e adatta ai ruoli che avevamo deciso di interpretare.

    «Quindi siete qui per affari?», ci chiese il locandiere curioso, dopo le presentazioni. Aveva un naso talmente grande e rosso che mi fece pensare subito a una maschera da teatro, di quelle buffe e assurde che avevo visto durante il nostro viaggio.

    «Sì, proveniamo da una regione continentale. Io sono un mercante di spezie e profumi, ho qua dei campioni, ma preferisco sempre venire di persona per prendere contatti, prima di inviare i miei corrieri».

    «Oh, allora mia moglie vorrà sentire qualche vostro profumo, ma anche qualche spezia esotica per insaporire meglio le pietanze».

    «Certo, sarò ben lieto di farvi provare le migliori, ma mi perdonerete se non potrò utilizzarne troppe, mi auguro di prendere contatti col cuoco del vostro re per ingrandire i miei profitti».

    «Ah... ve lo auguro».

    «C’è qualcosa che dovremmo sapere, prima di contrattare con gli inservienti della casa reale?».

    «No, no, figurarsi!», si mise subito sulla difensiva, accompagnandoci al piano di sopra e aprendo la porta a una camera molto ben pulita.

    «Forse hanno già chi procura spezie e profumi, caro», dissi io intenzionata a non mollare il discorso.

    «Dubito solo che gli interessi della casa reale si rivolgano a delle spezie», cominciò il locandiere guardandosi intorno. «Voi mi sembrate brave persone e poi non c’è nulla di male nel dirvi questo. Vedete, non se ne parla tanto in città, ma tutto è cambiato da quando la regina è morta, due anni fa».

    Rimanemmo in silenzio, attendendo che lui riprendesse. Non dovemmo aspettare molto.

    «Non c’era regina più bella e più gentile, sapete? Era solare e affascinante, amava la bellezza in ogni sua espressione e creava delle opere d’arte con i fiori e le piante. Rendeva la vita a Shimakaze più serena e anche il nostro re, col tempo, si era lasciato trascinare dalla sua gentilezza. Il sorriso era tornato sulle sue labbra dopo... dopo aver perso un figlio. Anche se, detto tra noi, venne dichiarato offerto al nostro Kami del Vento, sebbene in molti sospettano che sia nato morto. Poi per fortuna ha avuto un altro figlio, l’erede al trono. Purtroppo, la regina ci lasciò in breve tempo, in preda a febbri inspiegabili e incurabili».

    «Ma di cosa si ammalò?».

    «Dicono che fu una pianta a portarla nel regno oscuro».

    «Una pianta?».

    «Sì, una pianta che lei decise di far crescere nell’orto che il re aveva creato per lei. Venne però morsa da questa pianta viva, che l’avvelenò. E nemmeno il più alto sacerdote di corte riuscì a combattere la malattia».

    «Che brutta storia».

    «Già. E la cosa più brutta è che il re, dopo che la sua regina se ne fu andata, ritornò quello di prima. Anzi, perfino peggio. Nemmeno il principe riuscì a muovergli una lacrima o a strappargli un sorriso; così, la nostra gente vive nel dolore».

    «Ma venendo qui abbiamo visto fiori, movimento, vita nella città», lo interruppe Guo.

    «Voi siete capitati nell’unico periodo in cui la bellezza torna a sorridere qua a Shimakaze, proprio per volere della defunta regina. Si racconta che in punto di morte ella chiese al marito di non ingrigire la sua anima e, immaginando ciò che il re sarebbe diventato dopo la sua scomparsa, gli fece promettere di festeggiare ogni anno la notte di Methiemi col massimo sfarzo».

    «È la celebrazione destinata al Kami Koo, o sbaglio?».

    «Nessuno sbaglio. La nostra regina era molto affezionata a questa festività così, da qualche anno, questi sono gli unici giorni in cui il re concede al popolo di abbellire le abitazioni, di vestirsi in modo singolare e allegro, di ridere e scherzare. Ma dopo la notte di Methiemi, tra soli sette giorni, tutto tornerà come prima, nel grigiore delle nostre vite... Oh, scusate, non volevo annoiarvi troppo con i miei discorsi, volevo solo avvisarvi del fatto che il re non gradisce molto le novità. Il vostro lavoro non sarà così semplice, ma mi auguro che riuscirete comunque nel vostro intento, in fondo si dice che il Kami Koo possa portare grandi rivoluzioni nel mondo. Che sia l’anno buono, questo?».

    Così, ci lasciò.

    In breve ci dividemmo i compiti e iniziammo a muoverci in questo singolare paese. A prima vista poteva sembrare una comunità semplice e rurale, ma ben presto cambiai idea, era il posto più incredibile che avessi mai visto! C’era un turbinare caotico di persone, case affastellate una sull’altra, palazzotti e uffici, che davano l’idea di una complicata burocrazia. Non sapevo dire se questo posto mi piacesse o meno.

    Ciò che notai con certezza, però, era che sull’isola non c’erano allegria o leggerezza; sembrava che la parola d’ordine fosse: dovere. Ed è in questo turbinio che m’immersi, un po’ affascinata e un po’ inquietata, mentre tessevo qualche amicizia, e costruivo una mappa coerente del paese, segnando gli orari delle ronde delle guardie cittadine e scoprendo quali potessero essere gli impegni ufficiali del principe, che presto avrebbe raggiunto le Terre oscure.

    Il palazzo reale era qualcosa di semplice e non così lussuoso come mi sarei aspettata, creato su più livelli forse a seguito di nuove esigenze; nascondeva nella zona Est un enorme orto botanico che, mi era stato raccontato, era il vanto dell’isola; a Nord, invece, si delineavano le scuderie, l’armeria e i locali dell’esercito e della guardia reale. Poi, disseminati come fiori in una terra arida, si ergevano i templi dedicati ai Kami. Notai il tempio di Koo, sulla vetta della collina, in un punto strategico per osservare le stelle; e anche il Grande mulino, il tempio del Kami del Raccolto. Poco distante c’era anche il tempio dedicato al Kami del Vento, svettante su un faraglione nel mare, perfetto e immacolato, seppur battuto dall’aria e dalle onde.

    Il mio compito era anche di rilevare i movimenti notturni. Non era semplice muoversi nell’oscurità e senza destare sospetti, perché i soldati al di fuori del porto erano comunque ben addestrati, ma non mi preoccupavano più di tanto, li consideravo poco più che bambini del Ryūjinja.

    Ancora non pensavo a ciò che avrei dovuto fare a breve: togliere la vita a un giovane ragazzo, senza neppure saperne le motivazioni. Dall’addestramento avevo imparato a non pormi troppe domande né ad avere indecisioni. La morte del principe era stata decisa e io e Guo saremmo stati i suoi assassini.

    La mattina del terzo giorno da che ero là, uscii dalla locanda e il sole quasi mi accecò. Quello era il giorno più atteso della decade, prima della festa di Methiemi, durante il quale si vendevano e compravano arnesi e gingilli per festeggiare il Kami Koo.

    Il vociare al mercato Uji era più forte del solito e notai il caotico subbuglio di mani, braccia, tessuti e ninnoli, che pareva manifestare il risveglio della città.

    Un bambino mi spintonò e gridò un eccitato: «Scusa!», mentre correva dietro a un amico.

    Decisi di gettarmi anch’io nel parapiglia. Iniziai ad avvicinarmi al primo banco di tessuti e drappeggi curiosando qua e là, assaporando qualche dolcetto e ammirando i tessuti. Una donna inchinò la testa e mi offrì una piccola tazza di matcha. Tutto il sapore dolce e cremoso del tè d’ombra mi riempì la bocca, di sicuro il miglior tè che avessi mai provato.

    M’inchinai alla donna gentile del tè e poi fui attirata dai meravigliosi colori della seta, dai ricami di draghi e peonie sui tessuti, dai fiori di ciliegio dipinti in tutte le sfumature del bianco e del rosa.

    Le mie dita stavano accarezzando ogni piccola parte del kujirajaku, quando una voce stridula mi fece trasalire.

    «Voglio quel tessuto!», mi voltai e mi sentii raggelare, quella donna puntava me!

    «Come dice? Ah, certo, è tutto suo».

    Lasciai andare il drappo che avevo tra le mani, un meraviglioso lavoro intrecciato di tela di ragno e seta, decisa a scomparire, quando la ragazza mi fu accanto.

    «Me-ra-vi-glio-so! Assolutamente meraviglioso! Lo voglio, a ogni costo. A quanto lo vende?», chiese rivolgendosi al sarto.

    La ragazza era

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