Astichello
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«Io dentro picciol borgo, in erma valle,
Cui fan le digradanti Alpi corona,
Vissi oscuri i miei dì, ...»
Con questi versi della poesia intitolata A Fedele Lampertico, scritta nel 1868, Giacomo Zanella descrive il suo amato paese, Chiampo, situato nella verde campagna vicentina. Il poeta nacque a Chiampo il 9 settembre 1820, da famiglia di modeste condizioni. Il padre, Adriano, possedeva un negozio di generi vari; la madre, Laura Beretta, era imparentata con alcune notabili famiglie del luogo.
Nel villaggio natio il poeta trascorse i primi otto anni della sua vita.
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Anteprima del libro
Astichello - Giacomo Zanella
X
Astichello
I
Una villetta fabbricai, che appena
Quindici metri si dilata in fronte,
Ricca, più che di suol, d’aria serena
E di largo, poetico orizzonte.
Quinci dell’Alpi la nevosa schiena
Che vien di monte degradando in monte;
Quindi il cheto Astichel d’argentea vena,
E tinto in rosso sovra l’acque il ponte.
Datur hora quieti in bronzo impresso
Sta sul frontone. È di Virgilio il verso
Là nell’Eneide, ove dal Sonno oppresso
Palinuro ne mostra in mar sommerso.
Naufrago anch’io del mondo e di me stesso
Possa qui ber l’obblio dell’universo!
II
Sull’aprico rïalto, ove le mura
Del piccioletto mio Linterno eressi,
Erano arate zolle e di matura
Non ignobil vendemmia i tralci oppressi.
Ma tu di me non ti dôrrai, Natura,
Quando, precorsa da’ tuoi lieti messi,
Colma il grembo di fiori e di verzura
Verrai di maggio a visitar le mèssi.
O delle cose onnipossente, antica,
Madre immortal, se del tuo fertil regno
Con calce e sasso invasi alcuna parte,
Non sarò sconoscente; e della spica
E del grappolo invece, il desto ingegno
L’etereo fior t’educherà dell’arte.
III
Lascio la soglia allor che alla montagna
Il primo lume imporpora la vetta,
E sovra il bue, che fuma alla campagna,
Trilla perduta in ciel la lodoletta.
L’erta infocata più e più guadagna
Il sol che obbliquo il fianco mi saetta,
E l’enorme ombra mia, che m’accompagna,
Sovra le siepi ed oltre il fiume getta.
Guardo, ridendo, alla lunghezza immensa
De’ miei mobili stinchi; e cerco invano
Il capo, che fra i rami e l’erba densa
Si perde indistinguibile e lontano,
Come spesso si perde, allor che pensa
Prender più spazio, l’intelletto umano.
IV
D’Omero a’ dì nel tuo muscoso fondo
Di pomici bei seggi e di coralli,
E di candide ninfe insonni balli
Credulo avrebbe immaginato il mondo,
O pensoso Astichel, che vagabondo
Pe’ taciturni tuoi tornanti calli
Alle sparse d’armenti opime valli
Porti il tuo gorgo limpido e fecondo.
Se della luna il raggio, che trapela
Tra pioppo e pioppo e la corrente imbianca,
D’una Naiade il dorso non rivela,
Non rimpiango l’Olimpo; e m’è ventura
Pascer la mente, di sognar già stanca,
Nella schietta beltà della natura.
V
Poche miglia hai di corso; e fra tugurî
Acuminati di cannucce e creta
Ora al sol ti riveli, ora ti furi
E vai, stanco Astichello, alla tua mèta.
Breve corso di gloria e fati oscuri
Ebbe al suo carme, che sperò di lieta
Accoglienza onorato a’ dì venturi,
Quel di tue ripe abitator Poeta
Audace troppo, che cantò de’ Goti
Sgombra l’Italia e qui tra piante ed acque
L’ira addolcì de’ non sortiti