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I figli dello sciagurato trombettiere
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I figli dello sciagurato trombettiere
E-book109 pagine1 ora

I figli dello sciagurato trombettiere

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Info su questo ebook

Sei racconti nei quali la letteratura cessa di obbedire ad alcuna formula e si impossessa totalmente del mondo. La senilità ci pare abbia reso Shalmaneser sfacciatamente libero di non dare al lettore quanto consolazione e convenzione gli hanno sempre servito, ma così facendo rende il lettore felicemente libero di percorrere testi che non gli richiederanno mai una fede, un giuramento, una qualche serietà.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2020
ISBN9788831625524
I figli dello sciagurato trombettiere

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    Anteprima del libro

    I figli dello sciagurato trombettiere - Jakob Shalmaneser

    Des va­gues

    Tut­to que­sto ma­re co­me gam­ma di fre­quen­za ha 47 ~ 862 MHz, non ini­zia­te a la­men­tar­vi che non lo ve­de­te be­ne, e che non di­stin­gue­te le sin­go­le cre­ste. So­lo gli stu­pi­di ini­zia­no col la­men­tar­si, an­zi­ché ri­co­no­sce­re la me­ra­vi­glia del mon­do.

    Ho pro­mes­so di os­ser­va­re con at­ten­zio­ne che il com­por­ta­men­to dei pre­sen­ti non pre­giu­di­chi il re­go­la­re mo­to di que­sto ma­re. Co­me es­so è gran­dio­so! Co­me il so­le che di­sco­lo­ra ogni ca­sa e ogni ve­ste non di­sco­lo­ra que­sto az­zur­ro che bar­ba­glia di bian­co e in­du­gia sul ver­de! Dì­te­lo con me, quan­to è gran­dio­so! Io so­no re­spon­sa­bi­le di que­sto lun­go trat­to di ri­va: non vo­glio che te­nia­te le cal­ze, che ab­bia­te pau­ra, che te­mia­te vi sia­no bu­che im­prov­vi­se sot­to un az­zur­ro co­sì pu­ro. Lo ve­de­te da voi, no, che non vi è all’oriz­zon­te nul­la che si eri­ga asciut­to?

    Se qual­cu­no è ca­du­to a ca­po­fit­to in una bu­ca po­chi pas­si do­po la bat­ti­gia, con la te­sta in giù e i pie­di all’in­sù, non è col­pa di que­sto ma­re: chi gli ha det­to di cam­mi­na­re nel ma­re? Chi gli ha det­to di ba­gna­re la sua ma­glia dal­le fit­te ri­ghe oriz­zon­ta­li in que­sta smi­su­ra­ta quan­ti­tà d’ac­qua che non lo ha chia­ma­to?

    Re­sta­te se­du­ti. Ba­gnà­te­vi so­lo le lab­bra, se le ave­te riar­se. L’im­men­si­tà del­la co­no­scen­za che pos­se­de­va Ta­le­te non gli fe­ce de­si­de­ra­re d’im­pa­ra­re il nuo­to: va­le­te voi for­se più di Ta­le­te?

    Ir­ri­de­te giu­sta­men­te chi re­sta rit­to sui pro­pri pie­di cal­di per con­ta­re le cre­ste che ven­go­no a in­fran­ger­si sul­la ri­va: im­pa­ra­te a ri­de­re di co­lui che vuo­le cam­mi­na­re den­tro il ma­re, qua­si fos­se un gi­gan­te! I po­te­ri dei vo­stri cal­ca­gni e del­le toz­ze di­ta nel­le qua­li fi­ni­sce il vo­stro cor­po pos­so­no es­se­re eser­ci­ta­ti in qual­sia­si mo­men­to: per­ché pro­prio per en­tra­re in que­sto ma­re che non vi cer­ca?

    Pi­pien­tes e al­bo­pic­ti giun­ge­ran­no al tra­mon­to e vi fa­ran­no guer­ra. Io nul­la pos­so con­tro di lo­ro: non ini­zia­te a guar­dar­vi le brac­cia ro­tean­do­le fin­ché la spal­la re­la­ti­va lo con­sen­te, non schiaf­feg­gia­te sen­za co­strut­to l’aria, è una guer­ra in­trin­se­ca­men­te ri­di­co­la, e la per­de­re­te.

    Per ogni be­ne che vi por­ta­te in ca­sa esi­ge­te il ri­ti­ro del be­ne che non vo­le­te più in ca­sa. Cre­de­te stu­pi­dis­si­ma­men­te che le co­se nuo­ve sia­no mi­glio­ri di quel­le an­ti­che.

    Voi ve­dre­te — no, non lo ve­dre­te per­ché sa­rà not­te — le nu­vo­le an­dàr­se­ne di not­te so­pra que­sto ma­re, nel­la spe­ran­za d’in­gras­sa­re ve­lo­ce­men­te. No, lo ve­dre­te per­ché vi sa­rà più di me­tà del­la lu­na, e vi sen­ti­re­te mi­se­ri per­ché non ave­te la leg­ge­rez­za per ascen­de­re. Ma se le nu­vo­le non tor­ne­ran­no al mat­ti­no, a mez­zo­gior­no le scheg­ge di pie­tra sul­la ri­va sa­ran­no bol­len­ti, e le ru­ghe dei vo­stri pie­di non sa­pran­no do­ve pre­me­re, e la gal­lò­ria den­tro i vo­stri pet­ti be­ne scol­pi­ti non vi ser­vi­rà a nul­la, se non a far­vi sal­ta­re sen­za nes­su­na mu­si­ca a far­vi da mol­la.

    Vi so­no quat­tro con­te­ni­to­ri er­me­ti­ci. Il più gran­de con­ter­reb­be il ter­zo, che con­ter­reb­be il se­con­do che con­ter­reb­be il più pic­co­lo, ma que­sta estre­ma ra­zio­na­li­tà non rie­sce di nes­su­na uti­li­tà, giac­ché ave­te riem­pi­to ogni con­te­ni­to­re con co­se un­te e in­sa­ne, che nep­pu­re ave­te man­gia­to e che fi­ni­re­te col but­ta­re nel wa­ter, ogni vo­stra fin­zio­ne pro­te­si­ca fis­sa­ta a ra­di­ci che stan­no mar­cen­do. Per­ché non ave­te fa­me? Per­ché fis­sa­te la spu­ma che vie­ne a rom­per­si po­co di­stan­te dai vo­stri pie­di e non apri­te nep­pu­re uno dei con­te­ni­to­ri che ave­te por­ta­to? Che li ave­te por­ta­ti a fa­re, dun­que?

    Que­sto ma­re ha sem­pre ri­spet­ta­to que­sta ri­va e con­ti­nue­rà a far­lo. Non mon­te­rà mai su di voi, a uc­ci­der­vi e tra­sci­nar­vi al lar­go, riem­pien­do­vi le in­te­rio­ra di su­di­ce al­ghe. Non ave­te com­pra­to nul­la, og­gi, stan­do se­du­ti qui a guar­da­re il ma­re nel qua­le non sie­te en­tra­ti: tran­ne un do­ma­ni nel qua­le di nuo­vo re­ste­re­te se­du­ti, i pet­ti den­tro ma­glie dal­le tan­te ri­ghe oriz­zon­ta­li.

    Sa­pe­te di es­se­re vi­vi so­lo per­ché su­da­te. Sie­te cer­ti che il mon­do con­ti­nue­rà do­po di voi, per­ché que­sto for­te odo­re di ses­so e di mor­te che pro­ma­na da que­sta smi­su­ra­ta quan­ti­tà d’ac­qua è co­me uc­ci­des­se tut­te le de­bo­li ra­gio­ni dei ni­chi­li­sti. Nel lat­te uma­no vie­ne escre­to fin da sù­bi­to il de­si­de­rio di per­si­ste­re: all’uni­ca don­na che pri­ma ha ten­ta­to gof­fa­men­te di al­lat­ta­re in mez­zo a tut­ti il suo fan­to­li­no ho sor­ri­so, ria­ven­do­ne un sor­ri­so bre­ve e non sen­ti­to. Per­ché avrei do­vu­to scac­ciar­la?

    Nel mo­men­to in cui gli uo­mi­ni e le lo­ro spo­se non ve­nis­se­ro più qui a te­me­re il ma­re, io per­de­rei il la­vo­ro. Io amo que­sti uo­mi­ni e que­ste don­ne, per­ché non vi­vran­no per sem­pre e per­ché non sa­pran­no mai il mo­ti­vo per cui rac­col­go­no e con­ser­va­no quei pic­co­li ciot­to­li tra­slu­ci­di. Ehi tu! Hai mai mes­so in or­di­ne i ciot­to­li che hai por­ta­to via da qui, una vol­ta tor­na­to nel­la tua ca­me­ra? Li hai or­di­na­ti per co­lo­re, for­ma o di­men­sio­ni? Hai mes­so quel­li che ti pia­ce­va­no di più in una de­ter­mi­na­ta sca­to­la e quel­li che ti pia­ce­va­no me­no in un’al­tra? Op­pu­re hai aper­to la fi­ne­stra e li hai get­ta­ti sul bre­ve pra­to at­tor­no al­la ca­sa, per il pia­ce­re di spae­sar­li?

    Non mi ri­spon­de. Un do­cu­men­to per lui umi­lian­te è sta­to inol­tra­to al si­ste­ma po­sta­le — che sa­rà re­spon­sa­bi­le del­la suc­ces­si­va con­se­gna — ve­ner­dì scor­so, ed egli è ve­nu­to a que­sta ri­va per ri­get­ta­re da sé quell’or­ro­re car­ta­ceo e ba­na­le col ru­mo­re in­cen­su­ra­bi­le del ma­re, col suo fe­to­re di va­gi­na, sa­le e mu­cil­la­gi­ni, per da­re ip­no­si a se stes­so con que­sto mo­to ac­quo­so che nes­sun or­di­ne mi­ni­ste­ria­le po­trà mai so­spen­de­re.

    Io non co­no­sco que­sto do­cu­men­to per­ché non l’ho scrit­to, ma so che strin­ge il suo sto­ma­co nell’an­gu­sto anel­lo dell’an­sia. De­vo av­vi­ci­nar­mi a lui e pro­met­ter­gli che non gli ver­rà mai re­ca­pi­ta­to? E se, dèt­to­gli io ciò, lui mi guar­das­se e mi cre­des­se uno stu­pi­do che cre­de di po­te­re in­cep­pa­re il si­ste­ma po­sta­le? Se si of­fen­des­se pro­fon­da­men­te, sia per­ché ca­pis­se che lo vo­glio rac­con­so­la­re, sia per­ché uso, per con­so­lar­lo, uno stru­men­to sem­pli­ci­sti­co co­me un gio­cat­to­lo li­gneo per un treen­ne?

    Non mi ri­spon­de e nep­pu­re mi guar­da. La ri­ga del­la cu­te trop­po esat­ta­men­te bian­ca tra una di­re­zio­ne dei ca­pel­li e quel­la op­po­sta gli dà un’aria po­co in­tel­li­gen­te, co­me di ra­gaz­zo che non se­dur­rà. Sta ri­ma­ci­nan­do an­sio­so e sen­za più sa­li­va l’at­te­sa di un don­zel­lo con la cap­pa ros­sa che gli chie­de­rà co­me si chia­mi, fa­rà sì con la te­sta e dal­la sua bor­sa sfor­ma­ta di co­ra­me or­mai sen­za più co­lo­re ti­re­rà fuo­ri una bu­sta co­lo­re dell’on­ta, pe­san­te, con­te­nen­te un do­cu­men­to pie­ga­to più vol­te sen­za ar­mo­nia, cui sa­reb­be sta­ta ben più ido­nea una bu­sta più gran­de.

    Se tu mi guar­das­si ti sor­ri­de­rei, ma tu pre­fe­ri­sci op­por­mi la tua tem­pia im­pal­li­di­ta dall’in­can­de­scen­za del so­le, e ri­ma­ci­na­re l’an­go­scia che te­me ma at­ten­de l’ar­ri­vo del don­zel­lo con la cap­pa ros­sa. Co­sa vuoi che ven­ga­no tra tut­te que­ste gam­be de­bo­li e ignu­de, tra tut­te que­ste ri­ghe che ta­glia­no i pet­ti e le pan­ce di uo­mi­ni sen­za co­rag­gio... Chi vuoi che per in­di­riz­zo ab­bia da­to una ri­va sen­za ca­se, con ba­rac­chi­ni sen­za fon­da­men­ta ri­ga­ti a lo­ro vol­ta di ros­so e di bian­co...

    Cre­di che sia co­sa di­vi­na, il si­ste­ma po­sta­le? Che le cap­pe ros­se sul­le spal­le dei don­zel­li sot­to­pa­ga­ti sia­no il se­gno di chis­sà qua­le ine­so­ra­bi­li­tà? Lo sai co­sa pren­do­no all’ora? Te lo de­vo di­re ri­den­do o fa­cen­do la fron­te li­vi­da di co­lui che si in­di­gna per con­to ter­zi? La ve­di la schie­na che hai da­van­ti? Smet­ti­la di ri­ma­ci­na­re il pen­sie­ro del­la tua in­de­gni­tà e del do­cu­men­to che la cer­ti­fi­ca: guar­da quel­la schie­na. Pri­ma, quan­do si è vol­ta­ta, le hai vi­sto ba­lu­gi­na­re quel sa­pien­te sor­ri­so? Lo sai quan­ti ges­si e ce­re e re­si­ne aspet­ta­no al buio tut­ta la

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