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L'Impero Femminista della Papessa
L'Impero Femminista della Papessa
L'Impero Femminista della Papessa
E-book232 pagine2 ore

L'Impero Femminista della Papessa

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"L'Impero Femminista della Papessa" di ROMEO MONROSE

Della prepotenza e violenza degli uomini sulle donne abbiamo vissuto e viviamo ancora troppo. Immaginiamo una svolta vendicativa della Storia e consideriamo l'eventuale prepotenza e violenza delle donne sugli uomini, come nella narrazione distopica e satirica di Romeo Monrose.

Tutte le guerre hanno avuto un inizio e una fine.

La Guerra dei Sessi è cominciata nell’Eden, e non finirà mai.

In questo “memoriale” scritto da un sopravvissuto alla dittatura del genere femminista, si narrano gli eventi della più cruenta fase di quella guerra infinita.

Tutto comincia con l’elezione al soglio pontificio della Papessa Lucrezia Prima, fondatrice dell’Impero Femminista Tulipano. Viene messa in atto l’epurazione dei maschi dalla società, divenuti ormai inutili grazie alle nuove tecniche di riproduzione della specie. L’accanita persecuzione contro i “machos” porterà il personaggio narrante, Romeo Monrose a vivere una ridda di disavventure, la peggiore delle quali sarà la sua selezione a Fecondatore di Stato.

Dopo aver sofferto paradiso e inferno, Romeo parteciperà alla lotta partigiana col nome in codice di Omero e da buon terrorista eseguirà l’attentato alla Papessa, mancando però il bersaglio perché …innamorato di lei.

Da Consigliere di corte a Consorte della Papessa-Imperatrice, Romeo Monrose servirà il potere Tulipano con uno zelo che lo renderà odiato alle femministe integrali come ai suoi compagni machos.

Con l’annuncio alla coppia regnante della imminente nascita di due gemelli, una Papessina e un Papessino, un barlume di pace si accende nel cielo. Ma incombe la minaccia di un evento astrale sfuggito alle Astronome Tulipane: è un asteroide di grandi proporzioni e di forma vagamente fallica che ha preso di mira l’Urbe Femminista.

Nell’impatto i personaggi si troveranno naufraghi fuori dall’Utopia e approderanno alla riva di una Realtà Quotidiana …che forse non avevano mai lasciato.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2020
ISBN9788831661539
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    Anteprima del libro

    L'Impero Femminista della Papessa - Romeo Monrose

    633/1941.

    Tut­te le guer­re han­no avu­to un ini­zio e una fi­ne. La Guer­ra dei Ses­si è co­min­cia­ta nell’Eden, e non fi­ni­rà mai.

    In que­sto me­mo­ria­le scrit­to da un so­prav­vis­su­to al­la dit­ta­tu­ra  fem­mi­ni­sta, si nar­ra­no gli even­ti del­la più cruen­ta fa­se di quel­la guer­ra in­fi­ni­ta.

    Tut­to co­min­cia con l’ele­zio­ne al so­glio pon­ti­fi­cio del­la Pa­pes­sa Lu­cre­zia Pri­ma, fon­da­tri­ce dell’Im­pe­ro Fem­mi­ni­sta, o re­gi­me Tu­li­pa­no.

    Vie­ne mes­sa in at­to l’epu­ra­zio­ne dei ma­schi dal­la so­cie­tà,  di­ve­nu­ti or­mai inu­ti­li gra­zie al­le nuo­ve tec­ni­che (il­lu­so­rie) di ri­pro­du­zio­ne del­la spe­cie. L’ac­ca­ni­ta per­se­cu­zio­ne con­tro i ma­chos por­te­rà il per­so­nag­gio nar­ran­te, Ro­meo Mon­ro­se a vi­ve­re una rid­da di di­sav­ven­tu­re, la peg­gio­re del­le qua­li sa­rà la sua se­le­zio­ne a Fe­con­da­to­re di Sta­to.

    Do­po aver sof­fer­to pa­ra­di­so e in­fer­no, Ro­meo par­te­ci­pe­rà al­la lot­ta par­ti­gia­na col no­me in co­di­ce di Ome­ro e da buon ter­ro­ri­sta ese­gui­rà l’at­ten­ta­to al­la Pa­pes­sa, man­can­do pe­rò il ber­sa­glio per­ché …in­na­mo­ra­to di lei.

    Da Con­si­glie­re di Cor­te a Con­sor­te del­la Pa­pes­sa-Im­pe­ra­tri­ce, Ro­meo Mon­ro­se ser­vi­rà il po­te­re Tu­li­pa­no con uno ze­lo che lo ren­de­rà odia­to al­le fem­mi­ni­ste in­te­gra­li­ste co­me ai suoi com­pa­gni ma­chos.

    Con l’an­nun­cio al­la cop­pia re­gnan­te del­la im­mi­nen­te na­sci­ta di due ge­mel­li, una Pa­pes­si­na e un Pa­pes­si­no, un bar­lu­me di pa­ce si ac­cen­de nel cie­lo.

    Ma in­com­be la mi­nac­cia di un even­to astra­le sfug­gi­to al­le Astro­no­me Tu­li­pa­ne: è un aste­roi­de di gran­di pro­por­zio­ni e di for­ma va­ga­men­te fal­li­ca che ha pre­so di mi­ra l’Ur­be Fem­mi­ni­sta.

    Nell’im­pat­to i per­so­nag­gi si tro­ve­ran­no nau­fra­ghi fuo­ri dall’Uto­pia e ap­pro­de­ran­no al­la ri­va di una Real­tà Quo­ti­dia­na …che for­se non ave­va­no mai la­scia­to.

    ***

    Lu­cre­zia Pri­maPa­pes­sa e Im­pe­ra­tri­ce del Re­gi­me Fem­mi­ni­sta Tu­li­pa­no.

    Ro­meo Mon­ro­se Au­to­re del me­mo­ria­le, eroe con­dan­na­to agli amo­ri for­za­ti per sop­pe­ri­re al­la ca­ren­za de­mo­gra­fi­ca dell’Im­pe­ro Fem­mi­ni­sta. Do­po la fu­ga sa­rà par­ti­gia­no nel­le Bri­ga­te dei Ma­chos e so­prav­vi­ve­rà al­la Guer­ra dei Ses­si, di­ven­tan­do spo­so di Lu­cre­zia.

    Ba­ku­nin Com­pa­gno di pri­gio­nia di Ro­meo, Co­man­dan­te del­le Bri­ga­te dei Ma­chos, or­ga­niz­za­to­re dell’at­ten­ta­to al­la Pa­pes­sa.

    La­dy Brain Scien­zia­ta, sto­ri­ca del Fem­mi­ni­smo Ri­vo­lu­zio­na­rio Tu­li­pa­no, Re­spon­sa­bi­le al La­ger 47 del re­cu­pe­ro mo­ra­le dei ma­chos  de­ge­ne­ra­ti.

    Be­stia Tar­ta­ra(ex Lo­la Me­too) Fe­ro­ce aguz­zi­na abi­li­ta­ta al­le con­fes­sio­ni spon­ta­nee dei ma­chos pri­gio­nie­ri, let­tri­ce clan­de­sti­na di ro­man­zi ro­sa.

    Ma­re­scial­la  Re­spon­sa­bi­le del pro­gram­ma ri­pro­dut­ti­vo tu­li­pa­no al Ca­stel­lo del­le Edu­can­de.

    Prof­fa Kil­len­steinScien­zia­ta Pri­ma­to­lo­ga, Chi­rur­ga spe­cia­liz­za­ta in tra­pian­ti ge­ni­ta­li di pras­si tu­li­pa­na.

    Man­kon­go Go­ril­la spas­sio­na­to do­na­to­re di or­ga­ni.

    Cro­ce­ros­si­no  Par­ti­gia­no (Po­li­fe­mo), ma­cho un po’ me­no ma­cho, co­rag­gio­so, com­pe­ten­te, al­trui­sta, rom­pi­bal­le.

    Ca­mer­len­ga Car­di­na­les­sa Tu­li­pa­na Se­gre­ta­ria di Sta­to.

    Kla­ra Kur­z­mann Pia­ni­sta, Com­po­si­tri­ce di So­na­te, Con­cer­ti, Lie­der, In­ni osan­nan­ti al­la gran­dez­za dell’Im­pe­ro Tu­li­pa­no: le sue ope­re era­no il sup­pli­zio dei Ma­chos di scar­sa cul­tu­ra mu­si­ca­le.

    Del­la pre­po­ten­za e vio­len­za de­gli uo­mi­ni sul­le don­ne ab­bia­mo  vis­su­to e vi­via­mo an­co­ra trop­po

    Im­ma­gi­nia­mo una svol­ta ven­di­ca­ti­va del­la Sto­ria e con­si­de­ria­mo l'even­tua­le pre­po­ten­za e vio­len­za del­le don­ne su­gli uo­mi­ni, co­me nel­la nar­ra­zio­ne di­sto­pi­ca e sa­ti­ri­ca di Ro­meo Mon­ro­se

    Au­gu­ria­mo­ci che le nuo­ve ge­ne­ra­zio­ni di don­ne e uo­mi­ni sap­pia­no vi­ve­re in pa­ce, li­ber­tà e tol­le­ran­za

    De­di­ca­to al­le ca­re ne­mi­che

    Nell’an­no del Si­gno­re al cui ri­cor­do mi si riz­za­no i ca­pel­li in te­sta, io Ro­meo Mon­ro­se cad­di pri­gio­nie­ro del­le fem­mi­ne as­sa­ta­na­te.

    Pre­sa­gi rac­ca­pric­cian­ti me ne av­vi­sa­ro­no.

    Ri­co, un ma­schio gra­ci­le e ten­ten­nan­te, fu am­maz­za­to a col­pi di bec­co sul­la nu­ca da Lo­la. Vi­go­ro­sa e pin­gue per il ci­bo sot­trat­to al com­pa­gno -e im­bal­dan­zi­ta dall’uxo­ri­ci­dio- la be­stiac­cia mi sra­di­cò l’un­ghia del mi­gno­lo.

    La gat­ta del pen­sio­na­to di­rim­pet­ta­io ave­va mes­so al mon­do cin­que mi­ci­ni, tra i qua­li due ma­schi. L’in­do­ma­ni il brav’uo­mo si ac­cor­se che sol­tan­to tre gat­ti­ni bran­co­la­va­no an­co­ra nel­la ce­sta. Tro­vai io stes­so i due ma­schi, sul­lo zer­bi­no da­van­ti al­la mia por­ta, pri­vi del­la te­sta.

    An­co­ra non mi al­lar­mai quan­do mi ca­pi­tò di leg­ge­re la se­guen­te no­ti­zia in un tra­fi­let­to del­le pa­gi­ne in­ter­ne del gior­na­le: i sal­mo­ni ma­schi nel­le ac­que scoz­ze­si sta­va­no mu­tan­do ses­so e pro­du­ce­va­no uo­va in­ve­ce di sper­ma!

    Pe­rò, quan­do dal­la te­le­vi­sio­ne ap­pre­si che in set­te su die­ci esem­pla­ri adul­ti di gat­to­par­do del­la Flo­ri­da i te­sti­co­li non era­no an­co­ra sce­si, al­lo­ra la mia ap­pren­sio­ne co­min­ciò a sa­li­re.

    A me­tà gen­na­io l’edi­to­re Ar­mo­ni­ci fu tro­va­to im­pic­ca­to nel­lo scan­ti­na­to del­la ti­po­gra­fia. S’era la­scia­to ca­de­re da una pi­la di co­pie del mio ul­ti­mo ro­man­zo DUE CUO­RI E UN NI­DO, nel qua­le io sot­to lo pseu­do­ni­mo di De­si­rée La­mour rac­con­ta­vo il rav­ve­di­men­to di Shei­la, fun­zio­na­ria del Fi­sco: do­po aver ro­vi­na­to tut­ti gli im­pren­di­to­ri ma­schi di Bal­ti­mo­ra, si in­na­mo­ra­va dell’af­fa­sci­nan­te ar­chi­tet­to Ma­di­son, ri­nun­cia­va al­la car­rie­ra e si de­di­ca­va al­le cu­re del ni­do d’amo­re.

    Nien­te di più sca­bro­so, l’amo­re. Ri­ce­vet­ti una let­te­ra dell’edi­to­re, due gior­ni do­po il suo sui­ci­dio. Il po­ve­ret­to mi spie­ga­va che le agen­ti del­la Squa­dra Let­te­ra­ria ave­va­no se­que­stra­to le co­pie pron­te al­la spe­di­zio­ne e ap­po­sto i si­gil­li al­le ro­ta­ti­ve. Mi met­te­va in guar­dia dal ri­ve­la­re la mia iden­ti­tà di au­to­re ro­man­ti­co e mi con­si­glia­va di de­di­car­mi a pro­fes­sio­ne più ono­re­vo­le e me­no pe­ri­glio­sa; o per­lo­me­no di ri­con­ver­tir­mi nel so­lo ge­ne­re let­te­ra­rio an­co­ra tol­le­ra­to dal Re­gi­me: il ro­man­zo sto­ri­co di ri­so­lu­ta in­ter­pre­ta­zio­ne fem­mi­ni­sta.

    Ta­li fu­ro­no le av­vi­sa­glie di un’epo­ca sven­tu­ra­ta.

    Que­ste le pre­mo­ni­zio­ni di una sor­di­da svol­ta del­la Sto­ria.

    Nel me­se d’apri­le Si­sto VI era spi­ra­to do­po atro­ci con­tor­ci­men­ti nel­le cu­ci­ne del mo­na­ste­ro del­le Pic­co­le So­rel­le del­la Bea­ta Vir­gi­nia Da Ca­stro. Il Con­cla­ve, al qua­le par­te­ci­pa­ro­no di­ciot­to ba­cuc­chi car­di­na­li e set­te­cen­to tren­ta­no­ve Car­di­na­les­se, ave­va da­to fu­ma­ta bian­ca al­la se­con­da se­du­ta: De­lì­zia Do­mi­na­nò­va sa­li­va al so­glio pon­ti­fi­cio col no­me di Lu­cre­zia Pri­ma.

    Con l’en­ci­cli­ca De Foe­mi­na­rum Emi­nen­tia la Pa­pes­sa ave­va da sù­bi­to fis­sa­to le ba­si per la de­fi­ni­ti­va su­pre­ma­zia fem­mi­ni­le in cam­po re­li­gio­so e lai­co.Vi­sio­na­ria di una so­cie­tà ce­le­ste ar­ti­co­la­ta at­tor­no a ro­bu­sti prin­ci­pi ri­vo­lu­zio­na­ri, que­sta pro­ni­po­te di un ti­ran­no ros­so del­la me­tà del­lo scor­so se­co­lo pro­mos­se la for­ma­zio­ne di una raz­za su­pe­rio­re di guer­rie­re, isti­tuen­do un cor­po scel­to di po­li­zia mi­li­ta­re, le Bri­ga­te Tu­li­pa­ne.

    Le ca­det­te ve­ni­va­no sot­to­po­ste per un an­no a un mas­sa­cran­te ad­de­stra­men­to al ter­mi­ne del qua­le le co­sid­det­te tu­li­pa­ne era­no co­raz­za­te con­tro ogni strug­gi­men­to del cuo­re, e la lo­ro fi­bra spar­ta­na igno­ra­va le in­quie­tu­di­ni dei sen­si. Ra­pa­te a ze­ro, l’oc­chio spa­val­do, que­ste di­scen­den­ti di un lon­ta­no gen­til ses­so pat­tu­glia­va­no le cit­tà al­la ri­cer­ca di un de­cre­pi­to ma­cho da ran­del­la­re.

    Per noi ma­schi in­fe­li­ci la per­se­cu­zio­ne non era co­min­cia­ta con le fa­mi­ge­ra­te tu­li­pa­ne. Ne­gli ul­ti­mi lu­stri, la scien­za fem­mi­ni­sta ave­va mes­so in at­to quell’im­per­cet­ti­bi­le epu­ra­zio­ne del ge­ne­re ma­schi­le che avreb­be por­ta­to al­lo ster­mi­nio, ad un ve­ro e pro­prio ma­cho­ci­dio di mas­sa.

    Gli ESTRO­GE­NI, or­mo­ni fem­mi­ni­li: ec­co l’ar­ma sub­do­la con la qua­le si era ar­ri­va­ti al­la fem­mi­ni­liz­za­zio­ne uni­ver­sa­le. Im­mes­si mas­sic­cia­men­te in ci­bi in­du­stria­li d’ogni sor­ta, gli estro­ge­ni ave­va­no a lun­go an­da­re cau­sa­to la ra­re­fa­zio­ne dei te­sto­ste­ro­ni -or­mo­ni ma­schi­li-, non­ché l’atro­fia dei te­sti­co­li e lo sca­di­men­to del­la pro­du­zio­ne sper­ma­ti­ca dei ma­schi uma­ni.

    L’estro­ge­no scaz­zot­ta­va col te­sto­ste­ro­ne e lo sten­de­va k.o.: la de-ma­sco­li­niz­za­zio­ne dell’uo­mo trion­fa­va.

    Da un la­to sem­pre me­no fer­ti­li, gli uo­mi­ni dall’al­tro ave­va­no co­min­cia­to a pro­dur­re sem­pre più fem­mi­ne. I po­chi gio­va­ni ma­schi an­co­ra in cir­co­la­zio­ne pre­sen­ta­va­no pe­ral­tro ca­rat­te­ri don­ne­schi no­te­vo­li, e si di­mo­stra­va­no po­co ido­nei e pro­pen­si al­la ri­pro­du­zio­ne.  Ri­cer­ca­va­no ef­fi­me­ri ac­cop­pia­men­ti con al­tri ef­fe­mi­na­ti.

    Nu­me­ro­se scien­zia­te No­bel ave­va­no lan­cia­to l’al­lar­me, e di­mo­stra­to che le ri­ser­ve di sper­ma de­po­si­ta­to nel­le ban­che del rea­me fem­mi­ni­sta era­no in­qui­na­te da al­tis­si­mo tas­so di no­ni­fe­no­lo, so­stan­za che pro­du­ce i fa­mo­si estro­ge­ni fem­mi­ni­liz­zan­ti. In pa­ro­le po­ve­re: se da una par­te la so­cie­tà fem­mi­ni­sta si ar­ric­chi­va di ot­ti­me fem­mi­ne, dall’al­tra ve­ni­va a man­ca­re il ri­cam­bio di ma­schi fer­ti­li, men­tre i de­can­ta­ti de­po­si­ti ban­ca­ri si era­no or­mai sva­lu­ta­ti.

    Nel mio ca­so per­so­na­le, la pre­di­le­zio­ne per la frit­tel­la di ma­nio­ca e l’os­ses­sio­ne per la fio­ra di fi­co mi ave­va­no mes­so al ri­pa­ro da­gli estro­ge­ni. A me, Ro­meo Mon­ro­se (lo di­co in tut­ta mo­de­stia) si era­no ac­cre­sciu­te, per por­ten­to di quei na­tu­ra­li nu­tri­men­ti, le fa­col­tà che ne­gli al­tri ma­schi era­no an­da­te tra­gi­ca­men­te sce­man­do.Ciò spie­ga per­ché nel cor­so del­la mia pri­gio­nia al La­ger 47… 

    Ma pro­ce­dia­mo con or­di­ne.

    Avrò mo­do di espor­re in que­sto Me­mo­ria­le con qua­li per­for­man­ces ho po­tu­to (an­zi: do­vu­to) con­tri­bui­re a ri­sol­ve­re la di­sgra­zia­ta si­tua­zio­ne de­mo­gra­fi­ca dell’Im­pe­ro Fem­mi­ni­sta di Sua Gra­zia An­ge­li­ca, la Pa­pes­sa Lu­cre­zia.

      In quan­to pro­li­fi­co au­to­re di ro­man­zi ro­sa-pal­li­do ave­vo de­ci­so di dar­mi al­la mac­chia, e ave­vo tro­va­to ri­fu­gio nel pa­laz­zo di Mon­si­gnor di Roca Bra­va, pro­tet­to­re di ma­schi in fu­ga dal­le don­ne e avi­di di re­ci­ta­re un tea­tri­no con ruo­li, co­stu­mi e ac­cen­ti di­ver­si.

    Io Ro­mea ave­vo ri­ve­sti­to ca­mi­cio­le e mu­tan­do­ni e m'ero co­stret­ta in un bu­sto di stec­chi di ba­le­na, con lac­ci e in­trec­ci e gab­bie e gon­ne a cam­pa­nu­la e a cu­po­la ro­ma­na, e cor­set­ti giub­bot­ti, e col­let­to di fiam­min­go mer­let­to.

    Ju­liux, da squi­si­to gen­til-omo, s’era pre­sta­to a far­si mio ca­va­lier ser­ven­te, e ve­sti­va buf­fe bra­che di broc­ca­to, ca­mi­cia a fron­zo­li e cor­pet­ti­no aran­ci­no, e du­ran­te il mi­nuet­to pian­ta­va la scar­pi­na con leg­gia­dro al­lun­go di fe­ni­cot­te­ro.

    Fa­ce­va afa nel sa­lo­ne. Per via del co­pri­fuo­co ave­va­mo sbar­ra­to por­te e fi­ne­stro­ni. Don Ar­cim­bol­do strim­pel­la­va il cem­ba­lo, tra­so­gna­to, na­so­ne pe­pe­ro­ne, stil­lan­do su­do­re dai bioc­co­li del­la par­ruc­ca di par­ro­co. Era l’ul­ti­ma fe­sta di un mon­do che ci ca­sca­va ad­dos­so. Già sfa­ri­na­va­no gli stuc­chi dai sof­fit­ti. Sot­to i col­pi di bom­bar­da tre­ma­va­no co­lon­na­ti e sca­lo­ni.

    I no­bi­lo­mi­ni fri­vo­let­ti e le pom­po­se da­me mal ra­sa­te sven­to­la­va­no ven­ta­gli di Si­vi­glia. Con noi, in­trap­po­la­ti dall’as­se­dio del­le fe­ro­ci Tu­li­pa­ne, era­no due scri­va­ni nor­ve­ge­si, rat­ti fre­quen­ta­to­ri di pol­ve­ro­si ar­chi­vi, snif­fa­to­ri di fa­ri­ne bian­che. Po­co re­sta­va del­lo sfa­sciu­me tar­ma­to, poi che let­te­ra­ti ci­sal­pi­ni, tra­spa­da­ni, si­cu­li e na­po­le­ta­ni ave­va­no sac­cheg­gia­to trat­ta­ti, fa­sci­co­li, me­mo­ria­li, in­ti­mi gior­na­li di mo­na­che, re­la­zio­ni di fra­ti, rap­por­ti di bor­go­ma­stri, no­te di no­ta­ri. Lo­de­vo­le in­ten­to muo­ve­va gli eme­ri­ti ro­man­za­to­ri: ri­ci­cla­re il mu­sea­le ma­te­ria­le qua­le me­ta­fo­ra del tem­po no­stro, al­le­go­ria del vi­ver con­tem­po­ra­neo, e af­fi­da­re a mal im­bra­ca­ti per­so­nag­gi uo­po di espri­me­re l’esi­sten­zia­le af­fan­no dell’og­gi.

    I due mes­se­ri io vo­le­vo in­qui­si­re cir­ca le sor­ti del­le ama­te let­te­re in tem­pi strò­lo­ghi e stro­gò­ti, ma trop­po mi strip­pa­va il cor­set­to. Il mio pur umi­le se­no avreb­be vo­lu­to li­be­rar­si all’aria, e la con­tri­ta pan­za al con­tra­rio dell’aria vo­lu­to avreb­be li­be­rar­si.

    Gli oc­chi vo­stri, Mar­che­si­na Ro­mea, son gli spec­chi del mio tor­men­to…

    Ma ca­ro Con­te, che mi con­ta? Io son pro­mes­sa al più po­ten­te dei so­vra­ni. Oda­li­sca fi­ni­rò, die­tro le gra­te dell’ha­rem del Di­vi­no Amo­re, gi­glio di ca­sti­tà ad olez­zar nel chio­stro del­le Suo­re Fa­vo­ri­te.

    Giam­mai po­trò ba­ciar le pu­di­che pun­te de­gli vo­stri di­ti?

    Se i miei di­ti in­ter­lo­quis­se­ro, Vos­si­gno­ria pao­naz­zo si fa­rìa qual gal­lo stret­to al­la stroz­za.

    E gi­ra­vol­ta­va­mo col­la leg­gia­dria di fi­gu­ri­ne d’un ca­ril­lon di Neu­f­cha­stel, da­van­ti all’im­po­nen­te af­fre­sco del mar­ti­rio di San Nar­ci­so. Non sa­pe­vo se il sub­bu­glio dei miei vi­sce­ri fos­se do­vu­to al­le in­ve­re­con­de in­si­die di Ju­liux o al­la in­fet­ta zup­pa di ci­pol­la che da set­ti­ma­ne ci ve­ni­va ser­vi­ta ne­gli ar­gen­ti. Tan­to che co­min­cia­vo a di­ven­tar esper­ta nell’ar­te di far­mi ri­tro­sa, e spes­so avrei vo­lu­to fug­gi­re sui bal­co­ni, a slac­ciar­mi il cor­pet­to ed esa­la­re quell’au­ra me­fi­ti­ca che mi gon­fia­va a tre at­mo­sfe­re.

    L’en­ne­si­mo in­chi­no del­le cop­pie par­ve pri­vo d’amo­ro­so com­pli­men­to e di so­cie­vo­le ma­li­gni­tà. L’orec­chio in­du­gia­va al­lar­ma­to al­la mu­si­ca di bom­bar­de e mor­ta­ri, in­va­no in­fio­ra­ta dai li­cen­zio­si ar­peg­gi del­la spi­net­ta.

    Ro­mea, mi dis­se lo sman­ce­ro­so ci­ci­sbeo che strin­ge­va, co­me avreb­be fat­to d’una far­fal­la, il mio di­ti­no, per quel­la sa­cra lu­na las­sù, che ve­ste d’ar­gen­to le ci­me dei fras­si­ni di que­sto giar­di­no, io ti giu­ro… Al­zai un oc­chio pro­sai­co al sof­fit­to.

    Ci piom­ba ad­dos­so! gri­dai. Da­mi­gel­li e Mes­se­ri le­va­ro­no gli an­sio­si guar­di. Il lam­pa­da­rio vi­bra­va di mil­le e cen­to scin­til­lii, tin­ni­va di cen­to­die­ci­mi­la cri­stal­li­ni tin­tin­na­bo­li. E al­lo­ra la no­stra bel­la so­cie­tà s’al­lar­gò a mar­ghe­ri­ta, in un fug­gi­fug­gi di scia­me paz­zo. Col si­bi­lo d’una me­teo­ra il lam­pa­da­rio ca­lò dal­la vol­ta az­zur­ri­na, strac­ciò al pas­sag­gio lo stri­scio­ne MA­CHO IS BEAU­TI­FUL, e ven­ne a schian­tar­si sui mi­to­lo­gi­ci mo­sai­ci, sui mar­mi ci­pol­li­ni.

    Nel­lo stes­so fran­gen­te si udi­ro­no boa­ti, fra­go­ri al­le por­te del pa­la­gio, ur­la di pan­de­mo­nio, or­ren­de mi­nac­ce di evi­ra­zio­ne e l’in­no sgua­ia­to del­le ca­stra­por­cel­li.

    Inef­fa­bi­le Ro­mea, ber­rò con te il ca­li­ce fa­ta­le…, bia­sci­ca­va il tre­man­te Ju­liux.

    Ma vaf­fan-cu­lo! Io smam­mo!

    In­fi­lai la sca­let­ta dei val­let­ti per rag­giun­ge­re le cu­ci­ne, gli scan­ti­na­ti, e da lì i sot­ter­ra­nei e le fo­gne. Pas­san­do nel­le cu­ci­ne ave­vo ar­raf­fa­to un pa­io di ce­so­ie, una can­de­la, un ac­cen­di­no.

    An­si­man­te, slac­ciai in­fi­ne -e sen­za te­ma di man­car di ri­spet­to ai luo­ghi ipo­gei- cor­pet­to e pan­cie­ra. Al peg­gio la va­cil­lan­te fiam­mel­la po­te­va sca­te­na­re il col­po di gri­sù, che al­tro. Mi tol­si la par­ruc­ca e sfol­tii d’un pa­io di se­co­li l’ac­con­cia­tu­ra, stac­cai i na­stri­ni. Quin­di mi sba­raz­zai del­la tri­pli­ce im­pal­ca­tu­ra di bam­bù e os­si di ba­le­na, strap­pai mez­zo me­tro d’or­lo all’ul­ti­ma sot­to­ve­ste. Co­sì sfron­da­to po­te­vo pas­sa­re per una vi­spa te­re­sa o per una lo­li­ta giap­po­ne­se, at­tra­ver­sa­re le li­nee ne­mi­che e ri­tro­var­mi nei ter­ri­to­ri li­be­ra­ti, nel­la Sier­ra Ma­dre de No­so­tros, coi miei com­pa­gni di lot­ta.

    Ma guai se fos­si ca­du­to nel­le grin­fie del­le ef­fe­ra­te guar­die tu­li­pa­ne! Po­te­vo ten­ta­re di cor­rom­per­le con la col­la­na di fon­di di bot­ti­glia -for­se sme­ral­di- di cui ave­vo al­leg­ge­ri­to il ma­ni­chi­no del­la Con­tes­sa Be­re­ni­ce di Ro­ca Bra­va, nel­la ve­tri­na del­le mum­mie.

    Las­sù nel pa­laz­zo-for­tez­za in ven­ti­due ma­chos ci era­va­mo as­ser­ra­glia­ti al mo­men­to dell’as­sal­to al bor­go. Per am­maz­za­re il tem­po e stran­go­la­re la no­ia, si pas­sa­va da un bal­lo in co­stu­me all’al­tro, da uno sbal­lo di sco­stu­me all’al­tro, scam­bian­do­ci i ruo­li in una mes­sin­sce­na do­ve i ses­si era­no al­lu­si e le il­lu­sio­ni or­mai di sas­so.

    Ap­pog­gia­to al mu­ro vi­sci­do del­la fo­gna, con le ce­so­ie

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