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La forza dei deboli
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E-book396 pagine4 ore

La forza dei deboli

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Info su questo ebook

Giustizia e ingiustizia, liceità e illegalità, bene e male, sono spesso solo la forma esteriore del conflitto profondo tra forza e debolezza. Alla radice l’opposizione tra la forza e la debolezza che confondiamo con la guerra tra il bene e il male.
di Alessandro Pucci
Vivere significa agire, prendere decisioni, saper dare forza alle proprie scelte, avere il potere di scegliere.
Forza e potere sembrano qualcosa di necessario e positivo.
È davvero così?
Spesso chi ha potere tende ad abusarne, e spesso le ragioni della forza superano agevolmente la forza della ragione.
Non è complicato giudicare la forza e il potere come qualcosa di ambiguo e pericoloso.
Questo testo indaga alla radice l’opposizione tra la forza e la debolezza che confondiamo con la guerra tra il bene e il male. Giustizia e ingiustizia, liceità e illegalità, bene e male, sono spesso solo la forma esteriore del conflitto profondo tra forza e debolezza.
Parlare della forza dei deboli e della debolezza dei forti non significa giocare con le parole, ma mettere a nudo i lati oscuri del linguaggio e le contraddizioni dei valori che esso presuppone.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2020
ISBN9788833284163
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    Anteprima del libro

    La forza dei deboli - Alessandro Pucci

    Introduzione

    Volgendo lo sguardo in ogni direzione, verso ogni luogo, nel presente come nel passato, si assiste quasi impotenti allo spettacolo del dolore.

    È il dolore, soprattutto quello innocente, l’intimo filo conduttore del tempo.

    Un dolore spesso causato da calamità, da malattie, da carestie, da eventi imponderabili, ma anche dall’uomo. Il dolore, inteso come male, è generato anche dalla natura umana, sia in senso individuale che sociale.

    Il vero e più grande mistero è quello inerente alla volontà, e alla connessione della volontà con la libertà.

    L’esperienza ci insegna che l’uomo quasi mai è intenzionalmente malvagio: spesso provoca il dolore – e quindi il male – come spontaneo effetto collaterale del suo agire, dei suoi progetti, delle sue ambizioni.

    Questo accade perché il vincolo che ci lega agli altri, prima ancora che di natura morale, è un vincolo di potere. Ogni uomo usa una certa dose di forza per realizzare le sue volontà, senza curarsi degli effetti sul destino degli altri.

    Le nostre ambizioni, i nostri istinti, i nostri sentimenti, raccolti nel mistero della volontà, generano il linguaggio con cui rappresentiamo il mondo. Un linguaggio che, figlio della volontà, la esclude dalle colpe e dalle responsabilità inerenti al suo sviluppo.

    Nelle nostre volontà c’è il seme del male, ma le nostre parole non trovano quasi mai il modo di ammetterlo. Il nostro linguaggio assolve le volontà, i desideri, le ambizioni, e li nasconde al giudizio. Eppure, è nella volontà di dominio, di controllo e di potere che nasce il germe che crescendo genera dolore.

    Proprio perché il nostro linguaggio nasce dalla volontà, si rivela incompetente di fronte a qualsiasi giudizio etico sul mondo che esso rappresenta.

    Il primo passo verso il male che la volontà compie consiste nella sua spontanea tendenza a distorcere ogni visione dei fatti. La conoscenza e la sensibilità, indispensabili alla giustizia, sono distorte dalla volontà.

    La volontà cerca l’affermazione, la vittoria, il potere, ed è nemica della verità e della giustizia. Il paesaggio immaginario che chiamiamo mondo è sempre raccontato dalla parte dei vincitori. Il seme del male è nella auto-limitazione del linguaggio nel guardare il volto della realtà per quello che è.

    Il nostro mondo progredito e tecnologico occulta, nella sua narrazione, l’essenza delle cose e le racconta sempre dalla parte dei forti, dei potenti, dei protagonisti, offrendo una versione narcisistica, vanitosa, miope; una versione persino ipocrita, a volte anche insolente.

    L’azione dei governi è calibrata su indicatori macroeconomici e mai tiene davvero conto dei bisogni e delle insicurezze degli emarginati, dei disoccupati, dei poveri. Allo stesso modo il mondo degli ospedali è raccontato dai medici, che pure tanto si prodigano per gli altri, ma è un mondo costruito a misura dei sani, e tiene in ben poco conto l’esperienza reale della malattia. Ancora di più questo si verifica quando si parla di malattia mentale.

    L’azione politica è esposta al vincolo del consenso, è attenta al riflesso elettorale delle proprie scelte e non può spendersi troppo sui veri problemi delle minoranze.

    L’azione della magistratura, che si pone a fianco degli attori del processo penale, ben difficilmente può mettersi nei panni delle vittime, o peggio, in quelli dei carcerati.

    Sentiamo raccontare le guerre sempre dalla parte delle segreterie di Stato, dalla parte della verità ufficiale generata dagli interessi nazionali e dalla ragion di Stato; ben raramente le guerre vengono raccontate con gli occhi dei civili inermi che vengono bombardati.

    Queste analisi, dunque, non pongono al centro dell’attenzione e sul banco degli imputati le generiche e semplicistiche categorie morali inerenti al bene e al male.

    Questo testo cerca di illustrare come la nostra visione delle cose sia distorta dall’apologia del potere e della forza.

    Occorre riscoprire che le cose più belle e, soprattutto, le cose più vere, non stanno nel regno della forza e del potere, ma sono deposte dove vi sono piccolezza e fragilità.

    Tutto ciò che porta ristoro al cuore, che ci completa, che ci fa sentire a casa, ha una connotazione debole secondo le categorie linguistiche correnti: basti pensare a parole come tolleranza, perdono, compassione, pietà, condivisione, accettazione, inclusione.

    Ciò che più conta, per la pace e per la nostra completezza, viene punito dalle nostre categorie linguistiche, dal nostro modo di rappresentare il mondo.

    Ci deve essere qualcosa di grande e di misterioso, di radicale, che merita approfondita indagine, in tutto questo.

    La verità ufficiale, ratificata tramite la forza da chiunque possieda una qualsiasi forma di potere, non è credibile se non si pone dalla parte degli sconfitti, degli emarginati, delle innumerevoli vittime dell’attualità e della storia.

    Solo i deboli e i perdenti sono legittimati e credibili nel presidiare la nozione generale e particolare della giustizia, che può sorgere solo da uno sguardo sincero sui fatti e sulle cose.

    In senso metalogico, cercando cioè di cogliere i fatti andando al di là delle parole tramite il potere del paradosso, si può quindi dire che i deboli sono i veri forti. Si può dire che i deboli sono gli unici ad avere il diritto di definire cosa è il bene e cosa è il male.

    Solo i deboli, solo gli emarginati, i perdenti, i falliti, possiedono la forza di svelare la realtà nella sua intima e profonda essenza.

    Solo gli ultimi possono mostrarci le reali cicatrici delle ingiustizie lasciate dal culto della forza e dal culto del potere. Cicatrici che abbiamo il dovere morale di tentare di sanare, per dare un senso alle nostre vite.

    Quando sono debole, è allora che sono forte

    (S. Paolo, II lettera ai Corinzi, 12,10).

    Così, non riuscendo a rendere forte ciò che è giusto, si è reso giusto ciò che è forte

    (Blaise Pascal, Pensieri).

    Si paga caro l’acquisto della potenza: la potenza istupidisce

    (Friedrich Nietzsche).

    Il potere è una malattia gravissima che contagia anche le persone perbene, composte. Ecco una ragione in più per cui amo i Nessuno

    (Vittorino Andreoli).

    Il potere pensa sempre di compiere il volere di Dio quando invece sta violando tutte le sue leggi

    (John Adams)

    La regina del mondo

    La legge della forza

    La vita consiste in una complessa e inestricabile rete di relazioni e la sua qualità dipende dal valore e dal genere di queste relazioni.

    La regola universale che sovrintende la buona riuscita dei legami interpersonali consiste nel confrontarsi con la loro natura, che spesso concerne il potere, la forza, la volontà, il dominio. Certo non riguarda solo questi aspetti, ma anche l’amore, il rispetto, il merito e tantissimi altri fattori. Criteri che, comunque, trovano anch’essi riscontro nelle regole del potere, e con il potere devono sempre venire a patti.

    Si ha sempre a che fare con la forza, intesa non solo in senso meccanico, ma come causa, come origine, come stimolo della volontà personale e come regola degli avvenimenti in generale.

    Il rapporto con gli altri è essenzialmente un rapporto basato sul potere, sia che lo si imponga sia che lo si subisca. Il potere non è qualcosa di malvagio, ma uno degli ingredienti fondamentali dell’esistenza. La validità dei rispettivi meriti e virtù, il successo e l’espressione delle qualità personali dipendono, in gran parte, dalla partita del potere che sempre si gioca sulla pelle di tutti. Per esempio, si può ottenere consenso e favore assecondando il bisogno di ossequio preteso dai potenti. Il farsi deboli nei loro confronti significa far leva sul bisogno dei potenti di sentirsi amati e rispettati, perché questo, più di ogni altra virtù, celebra la loro forza. Anticamente, le virtù femminili si adoperavano in questo senso per perseguire le ambizioni di successo. Le relazioni in genere, e i rapporti sentimentali in particolare, si rivelano spesso un lungo e intricato gioco di potere.

    La legge dell’amore che sovrintende la vita può essere intesa anch’essa, nella sua ambivalente poliedricità, come relazione basata sul dominio e sulla sottomissione. La più sublime, sottile e profonda delle signorie e delle dominazioni.

    In questo libro il termine forza viene usato spesso come sinonimo di potere, proprio perché ne costituisce l’elemento fondante; si chiede dunque al lettore indulgenza per questa consapevole forzatura. Almeno nelle indagini iniziali, sarà proprio il potere l’emblema dell’antitesi del bene, e toccherà al potere togliere la maschera e svelare l’errore, il danno, il male come suoi impliciti accessori.

    Si è detto in precedenza che il potere non si identifica necessariamente con la malvagità, ma questo non significa che esso non produca guai e infelicità. Un’analisi attorno alle implicazioni del potere si prefigge di svelare la natura banale del male secondo la nota definizione di Hannah Arendt, intendendolo non come derivato da un perfido e oscuro progetto, ma come conseguenza diretta dei rapporti di forza tra gli uomini.

    Sia che lo si eserciti sia che lo si subisca, il potere va ben gestito, e in questo consiste la più radicale arte del vivere: giocare bene le proprie carte all’interno delle relazioni di potere che tutto contaminano, influenzano e compenetrano.

    Chiunque noi siamo, qualsiasi posto occupiamo nel mondo, qualsiasi sia il nostro ruolo, siamo costretti a venire a patti con le logiche del potere. La nostra azione si esprime in ogni istante nell’influenzare il nostro spazio vitale, il nostro ambiente – e quindi anche i nostri simili – e nell’esporli al contatto più o meno oppressivo della nostra presenza.

    Nessuno assume mai un ruolo del tutto neutrale rispetto agli eventi, ai fatti, alle emozioni degli altri, ed è per questo che la realtà può essere compresa come luogo della reciproca interdipendenza. Quello che facciamo, diciamo, pensiamo o speriamo si riflette sempre, in qualche modo, sul destino degli altri. Questo effetto si traduce in una pressione più o meno intensa, più o meno sfumata; a volte si rivela tangibile ed evidente, altre volte no ma, in ogni caso, sempre onnipresente ed efficace. Ciascuno, dunque, gioca sempre un ruolo attivo sui desideri, sulle necessità, sui bisogni, sulle ambizioni degli altri, mentre ciò che cambia di volta in volta è la tipologia e l’intensità di questa azione.

    Proprio per rendersi il più possibile indipendente dall’influenza e dalle decisioni altrui, ogni uomo cerca di conquistare, mantenere o aumentare la propria dose di potere e di raggiungere una posizione più elevata rispetto agli altri, una collocazione che dipende dal talento, dal denaro, dall’abilità e da tanti altri fattori non sempre controllabili o determinabili. Il singolo individuo, così come ogni organismo collettivo, ha sempre bisogno di accompagnare la propria esistenza con un’adeguata dose di energia risolutiva, per far pesare in ogni contesto la validità delle proprie ragioni.

    Essere nel giusto, vivere rettamente, cercare la pace e l’armonia, la bellezza, la cultura, l’ordine stesso delle cose, significa ben poco se non si dispone della forza necessaria per la propria autodeterminazione e la propria libertà. Consultando un qualsiasi elenco di sinonimi, si può constatare con facilità come il termine forza corrisponda a una certa quantità di definizioni positive e altrettante negative. Nella nozione di forza, come ogni altra questione complessa e profonda, non può che manifestarsi la più ampia gamma di significati. Per esempio, occorre forza per superare le prove più difficili che riguardano la salute propria o delle persone care, e occorre molta forza per perdonare chi ci offende. Occorre forza per non soccombere negli ambienti lavorativi e, a volte, anche negli ambienti familiari.

    Forza e potere si delineano quindi non sempre come prepotenza e arroganza, ma come correlato fondamentale del riconoscimento reciproco tra esseri simili, come prerequisito per sopravvivere.

    C’è, infatti, anche una forza dei valori, una forza del bene, una forza dell’amore e molto altro ancora. Tuttavia, coerentemente con l’immediatezza pratica e fisica del termine, in questo testo il concetto di forza verrà utilizzato declinandolo il più delle volte in senso negativo, come prepotenza, violenza, dominanza, solo per citare alcuni dei suoi significati più rilevanti. Questo perché, nell’esperienza di ogni giorno, sono proprio queste le sue forme più frequenti e nocive, con cui essa manifesta la sua tendenza alla sopraffazione.

    La forza verrà analizzata e descritta secondo l’attitudine umana della volontà che, per quanto necessaria e imprescindibile alla vita stessa, spesso ne costituisce il connotato più pericoloso. La forza della volontà, infatti, si traduce con troppa frequenza in energia negativa, oppressiva, ingiusta.

    La vita di ciascuno di noi è una lunga sequela di battaglie, a volte vinte a volte perse, in cui la pressione ricevuta dagli altri o dalle circostanze ci ha costretto a rispondere più o meno duramente. La forza che abbiamo subito o che abbiamo fatto subire, stimolata a seconda dei casi dalla necessità, dall’opportunità, dalla convenienza e persino dall’etica, è stata, è, e sarà la protagonista assoluta del nostro tempo. La forza è la vera regina in ogni fenomeno e in ogni contesto.

    La pressione che ogni singolo uomo o gruppo di potere esercita nel proprio ambiente o sugli altri manifesta spesso un volto immorale, a causa dell’attitudine a modificare la realtà in modo violento e utilitaristico.

    Per poter accettare il predominio della volontà e del potere nelle relazioni interpersonali, la retorica ha imparato ad abusare delle nozioni di equilibrio e di armonia, per defilarsi dalla severità delle implicite contraddizioni. Equilibrio significa situazione di compromesso e di quiete tra differenti spinte, e traduce in forma lessicale e meccanica la facoltà morale e fisica di trovare un punto di incontro tra forze contrapposte. L’armonia è la forma più alta di equilibrio, in cui la forza, disarmata della sua tendenza alla sopraffazione, viene subordinata all’interesse generale. Se la vita umana non si è ancora estinta e se la civiltà del diritto e dei valori ha saputo progredire nel tempo, evidentemente queste due espressioni hanno una specifica valenza e una ragione d’essere. Non è questo lo spazio per indagare a fondo l’universale valore della giustizia, non è questa nemmeno l’occasione per polemizzare con la retorica dell’armonia o del bene comune. Si tratta tuttavia di prendere atto di come l’armonia, l’equilibrio e la giustizia siano dei punti d’arrivo, degli obbiettivi necessari ma sempre precari, sfuggenti, spesso elusi nella prassi.

    Vivere con gli altri si traduce di solito nella fatica di con-vivere con le loro aspettative e ambizioni, sempre contrapposte e inconciliabili con le nostre, proprio in base alla volontà di dominio. Questa fatica non dipende solo da interpretazioni diverse, da egoismi più o meno spinti, da calcoli sbagliati e troppo cinici, tramite cui si pretende di governare le vicende che ci coinvolgono. Il problema di fondo sta forse nel fatto che le nostre azioni si ripercuotono più duramente di quanto vorremmo sugli altri e, in modo speculare, su noi stessi.

    C’è una durezza eccessiva, che tende sempre a travalicare la necessità, nel compiere un’azione e c’è quasi sempre un abuso, una piccola o grande prepotenza, dietro ogni iniziativa. Chi si trova costretto all’uso di qualsiasi tipo di forza deve sempre stare ben attento a non combinare più guai di quanti ne voglia risolvere.

    Anche a fin di bene, l’uso della forza mette in scena un teatro ostile, in cui l’altro rischia di venire del tutto ignorato nelle sue esigenze e aspettative e visto solo come strumento, come punto di appoggio su cui far leva.

    La forza sembra sempre insufficiente se misurata dal suo punto di origine, e sempre esagerata se misurata nel suo punto di arrivo. Innocua e dovuta da un lato, inspiegabile e violenta dall’altro. Ogni conflitto nasce da questa differente valutazione degli effetti in gioco nei rispettivi ambiti della forza. Il soggetto attivo e quello passivo avranno sempre due sensibilità opposte e inconciliabili nel valutare intenzioni e risultati, nel discernere il rapporto tra rischi e benefici.

    Bellezza e sostanza nel regno della debolezza

    Ogni aspetto della vita interiore e della vita di relazione, sia in ambito pubblico sia privato, acquista un valore in proporzione alla forza che esprime. Ogni valore ha senso solo se è sostenuto da energia, volontà, determinazione. Ogni sentimento rischia di suscitare disprezzo o ilarità se non è accompagnato da tenacia, vigore, fermezza.

    Tutto ciò che facciamo, nel bene e nel male, si appoggia sulla forza e a essa ritorna. Ogni idea, ogni gesto, ogni nostro più profondo desiderio sembra cercare appoggio in qualche tipo di potere, come se la forza fosse l’emblema della vita stessa; tuttavia, a ben vedere, forse, non è proprio così: tutto ciò che ci è più caro, tutto ciò che più vale, tutto ciò che più conferisce significato all’esistenza si esprime nella debolezza, nella piccolezza, nella fragilità. L’amore, la verità, l’accoglienza, il perdono, la compassione, la sincerità si muovono lungo un percorso cedevole, elastico, flessibile; in altre parole, debole, cosicché tutto ciò che più si identifica nella bellezza assoluta, tutto ciò che ci rende più umani e più veri, si trova nel regno della debolezza.

    Il mondo sembra stimolare dentro di noi, in ogni istante, una forza uguale e contraria alla pressione che ci pone addosso, ma la nostra intimità più profonda attiene alla debolezza. Siamo davvero di fronte a una contraddizione problematica che è necessario approfondire.

    La forza come simbolo del male

    In ogni processo personale o sociale la forza tende sempre a eccedere e a oltrepassare i propri confini. Essa stessa è giudice del proprio raggio di azione, rifiutando ogni etichetta o limite etico. Resta sempre indifferente ai risultati che produce e proprio in questo consiste la sua particolarità.

    La specificità della forza sta nella sua totale noncuranza degli effetti che produce: essa autoavvera le proprie intenzioni, le travalica, crea possibilità accessorie tendenti a giustificare i suoi abusi.

    Nella prassi quotidiana le persone si comportano in maniera corretta e responsabile quando autolimitano la forza, quando, se possono, ne fanno a meno. In caso contrario, la vita si trasforma in un campo di battaglia, teatro di efferati e continui scambi di colpi che pesano soprattutto su chi li subisce.

    In ogni scontro c’è chi le dà e chi le prende, con un nutrito pubblico che sta a guardare, spesso nella totale indifferenza. Prima o poi, magari, i ruoli si scambieranno, ma le tipologie di attori resteranno sempre tre: vittime, colpevoli, osservatori passivi.

    In quest’ottica, la nozione di forza, nella sua arbitrarietà e nella sua natura ribelle rispetto a qualsiasi valutazione di ordine etico, assume una connotazione fatalmente negativa. La forza possiede una sua arroganza implicita, una sua violenza intrinseca, proprio in quanto strumento di potere e di prevaricazione; anche quando la si brandisce, almeno a parole, a fin di bene.

    La volontà, che è la forma psicologica della forza, è uno dei prerequisiti del peccato, secondo le categorie e le classificazioni della tradizione religiosa.

    La nozione di peccato prevede tre elementi: affinché vi sia colpa occorre consapevolezza, gravità e volontà libera. Lo spirito umano sussiste nel libero arbitrio e il peccato, inteso come male, nasce qui, nella sua dimensione più intima. Per questo, sia il pensiero filosofico sia quello teologico sono spesso giunti a collegare volontà e responsabilità.

    Eppure la storia dei grandi condottieri o delle grandi personalità premia la volontà, la determinazione, il carisma, l’autorevolezza e, soprattutto, la capacità decisionale dei protagonisti.

    Ecco, quindi, emergere con evidenza una grande contraddizione, e cioè che la realtà sembra essere premiante proprio nei confronti di una qualità dell’animo potenzialmente nociva e pericolosa.

    Gli uomini definiscono come male la sopraffazione, le angherie, i soprusi, la protervia o la riduzione in schiavitù; insomma, tutte quelle azioni in cui la volontà del carnefice prevale e s’impone sulla debolezza della vittima.

    Sia la coscienza dei singoli sia la sapienza delle tradizioni guardano il male con sospetto, diffidenza e riprovazione, cercando di punirlo, prevenirlo, renderlo inoffensivo, circoscriverlo. Mentre fanno questo, però, pur carichi delle migliori intenzioni, gli stessi soggetti che condannano il male non fanno altro che provocare dolore, danni e sofferenze nelle vite degli altri.

    È rara in una persona una volontà consapevolmente malvagia, così come nelle istituzioni, nelle aziende, in ogni organizzazione. Gli uomini vedono il male, ne provano disgusto e lo condannano, eppure lo commettono in continuazione, seminano il male in ogni direzione e poi, sgomenti, si chiedono da dove esso provenga. Incapaci di individuare l’origine del male, si inventano capri espiatori, bersagli perfetti contro cui scatenare l’ira, la rabbia, il disprezzo, l’orrore. C’è un velo che copre il nostro sguardo sul mondo ed è il velo della volontà, che nasconde ai nostri occhi una questione in realtà semplice: il male del mondo non è sempre frutto di progetti malvagi, ma spesso è il costo che i più forti impongono ai più deboli nella loro personale ricerca della felicità tramite la forza e il potere.

    Il male, molto spesso, è il risultato dello scatenarsi delle forze messe in gioco per realizzare i propri sogni, le proprie ambizioni, le proprie speranze. Forze cieche che, una volta scatenate, non si curano certo di restare entro il perimetro del rispetto e della tutela del bene comune. Forze che, se sguinzagliate, fanno danni in ogni direzione. Forze che, in ultima analisi, dipendono dalla nostra volontà. La volontà è il connotato psicologico specifico dell’uomo che meglio caratterizza la sua forza. La vera forza dell’uomo risiede nella sua capacità di volere. Più vuole e più esprime forza dentro e fuori di sé. Il linguaggio, con cui comunichiamo, con cui raccontiamo il mondo, con cui ci mettiamo in relazione, è una rappresentazione astratta e veicola le nostre volontà più o meno consapevoli. È dunque il linguaggio, in realtà, a porre un velo sul mondo e a filtrarlo a nostro uso e consumo. Quello che il linguaggio lascia trapelare – intenzioni, pensieri, ambizioni, progetti, sentimenti – non è mai neutrale, bensì è il frutto delle nostre volontà: è vero ciò che ci conviene ed è vero ciò che del mondo raccontiamo e accettiamo venga raccontato. Il linguaggio possiede una forza immensa, una forza che fa emergere alcune cose e ne nasconde altre. Il linguaggio crea la nozione stessa di male. Molte grandi tradizioni spirituali diffidano della semplicistica divisione tra ciò che è bene e ciò che è male in quanto tale classificazione sarebbe, di necessità, linguistica e culturale, frutto cioè delle categorie etiche del linguaggio espresse dal potere dominante.

    Nel linguaggio del potere, per antonomasia è male ciò che nuoce al potere ed è bene ciò che gli porta vantaggio.

    Le parole che utilizziamo, prodotto della cultura del nostro tempo, nascondono l’origine del male dentro gli oscuri meandri della forza e del potere. Gli uomini vedono il bene e lo approvano, ma fanno il male, parafrasando San Paolo. Essi non lo fanno perché sono cattivi, subdoli o ipocriti ma perché il male scaturisce naturalmente dalla forza, che non si cura mai di quello che provoca nella vita degli altri. Tutto il nostro linguaggio è un affannoso tentativo di giustificare le nostre pervicaci e pressanti volontà, capaci di indurre dolore e preoccupazioni. Il problema del male è spesso un falso problema. Il nocciolo della questione non è tanto di ordine etico, ma di ordine filosofico: parlare del male ci distoglie dal parlare della forza.

    Tutti cercano la forza e il potere, ma non lo vogliono ammettere. Quando la forza e il potere determinano chiaramente il male, allora gli uomini denunciano il male, tuttavia senza mai denunciare la forza che lo ha causato.

    Che la forza possa provocare il male ce ne rendiamo conto solo quando esso ci tocca da vicino, altrimenti non facciamo altro che ammirarla e apprezzarla. Il male è forte, spesso più forte del bene: di certo è più rumoroso, plateale e pervasivo. Quando il male, provocato dalla forza, colpisce i deboli e gli emarginati, gli uomini sono soliti tollerarlo con grande indulgenza.

    Come disse il pensatore cristiano Blaise Pascal, Così, non riuscendo a rendere forte ciò che è giusto, si è reso giusto ciò che è forte.

    Qualche esempio dell’analogia tra la forza e il male

    Potrebbe essere utile qualche esempio pratico per chiarire quanto fino a qui è stato sostenuto nell’equiparare la forza e il male.

    Poniamo come primo caso quello della giusta punizione da infliggere ai figli in occasione di una scorrettezza, mancanza di rispetto o altro.

    In passato si procedeva con le percosse, con la privazione del cibo e con ogni genere di violenza psicologica annessa. La motivazione di fondo era magari più che plausibile: il ragazzo si era comportato veramente male e aveva infranto regole basilari dell’educazione; questo prevedeva un’adeguata risposta punitiva che, lasciando il segno, svolgesse un appropriato ruolo pedagogico. Tuttavia, le finalità e il dosaggio del male inflitto, perché sempre di male si tratta, veniva, e viene in ogni circostanza, stabilito unilateralmente dal soggetto attivo e mai dalla vittima della punizione stessa.

    In altre parole, la forza esprime sempre un arbitrio, dovuto alla semplice constatazione che essa parte da valutazioni esterne e non si cura mai dei suoi effetti collaterali. I danni provocati, le conseguenze impreviste, la frustrazione e il senso di impotenza che essa induce, non le competono. La forza persegue solo il proprio scopo, non ha etica e non prevede analisi o riflessioni.

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