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Il Novecento - Filosofia (70): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 71
Il Novecento - Filosofia (70): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 71
Il Novecento - Filosofia (70): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 71
E-book557 pagine8 ore

Il Novecento - Filosofia (70): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 71

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Info su questo ebook

In questo ebook si dispiega il variegato panorama del pensiero filosofico novecentesco, così complesso nella sua valutazione data la mancanza della distanza storica necessaria per filtrare con adeguata lucidità eventi, teorie e proposte di un secolo carico di drammatici eventi storici e profonde inquietudini: l’eredità dell’idealismo continua ancora quasi sino a metà secolo, e con particolare successo in Italia attraverso il pensiero di Croce e di Gentile, mentre contemporaneamente si sviluppa un’intensa rivisitazione del pensiero di Marx, da Gramsci alla Scuola di Francoforte, a Lukács fino al Diamat, ovvero a quella scolastica del materialismo dialettico che ha dominato per decenni la cultura sovietica. Difficile poi eleggere una corrente a modello della filosofia novecentesca quando si contendono la scena sin dall’inizio neokantismo, storicismo, fenomenologia, bergsonismo, psicoanalisi, neospiritualismo, esistenzialismo e nuova filosofia della scienza, ed è curioso notare che i pensatori più interessanti non sono filosofi ma fisici come Einstein e Heisenberg. Questo ebook attraversa così tutto un universo ancora in movimento, un magma ancora vivo di riflessioni accese, in cui le differenti posizioni di Husserl e Whitehead, Heidegger e Adorno, Sartre e Habermas, Maritain e Foucault fanno conflagrare l’impropria contrapposizione tra filosofia analitica e continentale in un pulviscolo di pensieri che permeano e condizionano indiscutibilmente tutta la letteratura novecentesca e la percezione che l’uomo del Novecento ha di sé e del mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2014
ISBN9788898828043
Il Novecento - Filosofia (70): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 71

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    Anteprima del libro

    Il Novecento - Filosofia (70) - Umberto Eco

    copertina

    Il Novecento - Filosofia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Novecento

    Filosofia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla filosofia del Novecento

    Umberto Eco

    Come si è detto nell’introduzione generale al Novecento, è difficile fare (a inizio del terzo millennio) la sintesi di un secolo in cui la maggior parte degli attuali abitanti del pianeta sono nati e vissuti, perché manca la distanza necessaria per filtrare, lasciare cadere personaggi, eventi, teorie, e ricordarne altri come fondamentali. A maggior ragione il problema si ripropone per questa sezione dedicata alla filosofia.

    D’altra parte si potrebbero riassumere in una formula i caratteri fondamentali della filosofia del XIX secolo? Essa non potrebbe essere ridotta a quel fenomeno grandioso che fu l’idealismo, perché vi si potrebbe opporre la stagione del positivismo, ma si dovrebbe contemporaneamente citare la nascita del neotomismo e del marxismo – mettendo così in gioco degli opposti che sfuggono a ogni tentativo di conciliazione.

    Altrettanto variegato si presenta il panorama novecentesco: l’eredità dell’idealismo continua ancora quasi sino a metà secolo – e con particolare successo in Italia attraverso il pensiero di Croce e Gentile – ma contemporaneamente si sviluppa un’intensa rivisitazione del pensiero di Marx, da Gramsci alla Scuola di Francoforte e a Lukács e persino al Diamat, ovvero a quella scolastica del materialismo dialettico che ha dominato per decenni la cultura sovietica.

    Sin dall’inizio neokantismo, storicismo, fenomenologia, bergsonismo, psicoanalisi, neospiritualismo, esistenzialismo o nuova filosofia della scienza – dove talora i pensatori più interessanti non sono filosofi ma per esempio fisici come Einstein e Heisenberg –, si contendono la scena in modo tale da non poter eleggere alcuna di queste correnti a modello della filosofia novecentesca.

    Qualcuno potrebbe opporre (come tipica frattura del XX secolo) la distinzione tra filosofia analitica (nata e praticata in modo massiccio in Inghilterra e Stati Uniti e in genere nel mondo anglosassone) e quella filosofia che gli analitici hanno definito come continentale. Ma filosofia continentale non è una caratterizzazione teorica bensì geografica, che vorrebbe designare il pensiero di origine europea in genere – componendo così un insieme abbastanza incongruo che ha tra i suoi ingredienti, per fare solo alcuni esempi, il marxismo e lo spiritualismo cristiano, Husserl e Whitehead, Heidegger e Adorno, Sartre e Habermas, Maritain e Foucault. Per cui in fin dei conti l’espressione filosofia continentale designerebbe soltanto tutto ciò che la filosofia analitica non riconosce come caratteristico del proprio canone.

    La svolta linguistica

    Si deve pertanto tentare di indicare un atteggiamento che attraversa se non tutte, almeno moltissime delle correnti filosofiche novecentesche e che non può essere riscontrato con tale ampiezza nei secoli precedenti: questo atteggiamento è quello che è stato indicato come svolta linguistica e la cui portata va molto al di là di quanto intendessero coloro che hanno proposto questa espressione per la prima volta.

    Inizialmente si è parlato di svolta linguistica proprio per il canone analitico, andando a identificarne il momento aurorale nella filosofia britannica del linguaggio ordinario, in Russell, e poi in Wittgenstein, nel positivismo logico, sino a tutti i vari aspetti della filosofia americana – vedi per esempio il suo massimo rappresentante, Quine– dove l’analisi del linguaggio si avvale di strumenti logici, ovvero si applicano strumenti della logica formale sia al linguaggio scientifico che a quello comune, elaborando una semantica vero-funzionale. Questa filosofia, anche quando parla di olismo o di realismo interno (e cioè che un’affermazione può essere definita vera o falsa solo nel quadro di un sistema organizzato di assunzioni) è fortemente dominata da un concetto forte e oggettivo di verità.

    Ma di svolta linguistica si può parlare anche per la filosofia detta continentale. Si pensi per esempio all’ermeneutica come filosofia dell’interpretazione, che va dall’attenzione rivolta al linguaggio dal secondo Heidegger sino a Ricoeur, dall’incontro tra filosofia e linguistica verificatosi con le varie correnti dello strutturalismo, alle varie teorie dell’interpretazione da Gadamer a Pareyson e, in tutt’altra chiave, alle discipline semiotiche e alla riscoperta di un pensatore come Peirce, dalla decostruzione alle varie declinazioni del neopragmatismo, mentre a fenomeni comunicativi si rivolge l’attenzione della Scuola di Francoforte. E infine, persino a inizio secolo (e in un insospettabile ambito idealistico) Benedetto Croce definiva la sua estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale.

    Quello che molti analitici rimproverano tuttavia alla svolta linguistica continentale è non solo la sua incontrollata ampiezza d’orizzonti, e il suo esercitarsi su ampie porzioni testuali (opposti al rigore logico con cui l’altra corrente si limita ad analizzare precise porzioni minimali di un linguaggio per così dire costruito in laboratorio), ma (i) di affrontare anche i fenomeni non linguistici (in breve, il mondo, i suoi accadimenti e le sue visioni) come fossero testi e (ii) di non basarsi su un criterio oggettivo e verificabile di verità bensì (almeno nelle sue forme estreme) di asserire che non esistono fatti ma solo interpretazioni.

    La polemica è rozza, non tiene conto di tante differenze e sfumature che dividono la filosofia continentale, ha assunto talora l’asprezza di una guerra di religione, e spesso non riesce a tenere conto di molte analogie e punti in comune tra i due lati della barricata: per esempio la teoria di Kuhn dei paradigmi scientifici pare molto più vicina alle ottiche interpretative della filosofia continentale che alle forme più ortodosse di filosofia analitica e – per accennare a sviluppi di fine secolo – il neopragmatismo di Rorty appare più vicino alle teorie occidentali che sostengono il primato delle interpretazioni sui fatti che non all’ortodossia analitica, che anzi mette direttamente in discussione.

    Ma qui interessava soprattutto individuare una tendenza che pare caratterizzare gran parte delle diverse filosofie del Novecento. Probabilmente (se è lecito avanzare ipotesi del genere) il fatto che del mondo e dell’uomo si possa parlare solo analizzando il linguaggio e altri mezzi di espressione/comunicazione, certamente in futuro apparirà come la caratteristica più saliente del pensiero novecentesco.

    Filosofi e filosofie

    Henri Bergson

    Caterina Zanfi

    Il richiamo all’immediatezza dell’esperienza interiore è il punto di partenza della riflessione di Henri Bergson, che, nell’arco della sua opera, definisce una filosofia della durata e della vita in grado di oltrepassare l’opposizione tra materia e spirito tipica della tradizione spiritualista, inaugurando una stagione nuova del pensiero francese ed europeo che si protrarrà per tutto il XX secolo.

    Il primo Bergson: la durata e la vita della coscienza

    Henri Bergson

    Percezione del tempo

    L’evoluzione creatrice

    Se voglio prepararmi un bicchiere d’acqua zuccherata, per quanto possa darmi da fare, devo aspettare che lo zucchero si sciolga. È un piccolo fatto ricco d’insegnamenti. Il tempo che devo aspettare non è più infatti il tempo matematico che può applicarsi a tutto il corso della storia del mondo materiale, anche se si dispiegasse simultaneamente nello spazio. È un tempo che coincide con la mia impazienza, cioè con una certa porzione di quella che è la mia durata e che non può allungarsi o contrarsi a piacere. Non è più qualcosa di pensato, ma è qualcosa di vissuto. Non è più una relazione, ma è qualcosa di assoluto. E che cosa significa questo, se non che il bicchiere d’acqua, lo zucchero e il processo di soluzione dello zucchero nell’acqua sono appunto delle astrazioni, e che il tutto entro il quale sono stati ritagliati dai miei sensi e dal mio intelletto procede, magari, allo stesso modo di una coscienza?

    H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. it. di F. Polidori, Milano, Cortina, 2002

    Henri Bergson

    Il possibile e il reale

    La filosofia avrà il vantaggio di trovare qualcosa di assoluto nel mondo mutevole dei fenomeni, ma anche noi avremo il vantaggio di sentirci più felici e più forti. Più felici perché la realtà che si inventa davanti ai nostri occhi offrirà a ciascuno, senza sosta, quelle soddisfazioni che l’arte procura, di tanto in tanto, ai privilegiati della fortuna. Ci scoprirà al di là della fissità e della monotonia che i nostri sensi ipnotizzati dalla costanza dei nostri bisogni percepivano inizialmente, la novità senza sosta rinascente, la mutevole originalità delle cose. Ma saremo soprattutto più forti, perché ci sentiremo di partecipare, creatori di noi stessi, alla grande opera di creazione che è all’origine e che si produce continuamente sotto i nostri occhi. La nostra facoltà di agire, cogliendo di nuovo se stessa, si intensificherà. Umiliati fino a quel punto in una attitudine di obbedienza, schiavi di non so quali necessità naturali, ci risolleveremo, autori uniti a un più grane Autore. Tale sarà la conclusione del nostro studio. Guardiamoci dal vedere un semplice gioco della speculazione sui rapporti del possibile e del reale. Può essere un prepararsi a vivere bene.

    H. Bergson, Pensiero e movimento, trad. it. di F. Sforza, Milano, Bompiani, 2000

    Henri Bergson

    L’evoluzione creatrice, cap. III

    Agli occhi di una filosofia che si sforzi di riassorbire l’intelligenza nell’intuizione, molte difficoltà potrebbero dunque svanire o attenuarsi. Ma una dottrina di questo genere non facilita soltanto la speculazione: ci dà anche più forza per agire e per vivere. Grazie a essa infatti non ci sentiamo più isolati nell’umanità, né più l’umanità ci sembra isolata all’interno della natura su cui domina. Come il più piccolo granello di polvere è in rapporto con l’intero nostro sistema solare, trascinato con esso in quell’indistinto movimento di discesa che è la materialità stessa, allo stesso modo tutti gli esseri organici, dal più umile al più elevato, dalle prime origini della vita sino ai giorni nostri, in ogni luogo e in ogni tempo, non fanno che rendere manifesto un unico e indivisibile impulso che si oppone al movimento della materia. Tutti gli esseri viventi si aggrappano e si abbandonano alla stessa formidabile spinta. L’animale si appoggia alla pianta, l’uomo cavalca l’animalità, e l’umanità intera, nello spazio e nel tempo, è un immenso esercito che galoppa al fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro a noi, in una carica irresistibile capace di sbaragliare tutte le barriere e di superare un’infinità di ostacoli, forse anche la morte.

    H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. di F. Polidori, Milano, Fabbri Editori, 2002

    In un clima filosofico segnato dal fronteggiarsi dei difensori del positivismo e dello spiritualismo prende forma il pensiero di Henri Bergson, filosofo di origini ebraiche la cui vita si colloca esattamente a cavallo tra Otto e Novecento (1859-1941) e che rinnoverà profondamente lo spiritualismo dei suoi predecessori. L’opera bergsoniana prosegue inizialmente le critiche al positivismo già avviate dagli spiritualisti sul terreno della psicologia: nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889, trad. it. 1951) egli lamenta in particolare l’insufficienza delle analisi associazioniste delle sensazioni, secondo cui i progressi e i mutamenti psichici sono ridotti a sequenze misurabili quantitativamente, privati di ogni elemento qualitativo o di intensità affettiva. Per Bergson la tendenza della psicologia associazionista di Wilhelm Wundt a ridurre l’intensità degli stati di coscienza alla loro estensione non è che un riflesso del paradigma scientifico dominante della fisica meccanicistica, che porta a confondere l’eterogeneità delle qualità sensibili con la realtà omogenea e quantitativa dello spazio.

    Bergson riconosce insomma nella scienza contemporanea un’ossessione spazializzante, la cui denuncia sarà un motivo ricorrente della propria filosofia: il fraintendimento della dimensione temporale è infatti posto all’origine di ogni interpretazione deformante della realtà. Per rispondere alle esigenze utilitaristiche della scienza, il tempo viene ridotto a una dimensione meramente omogenea e quantificabile, ovvero a una sorta di quarta dimensione dello spazio, divisa in istanti esterni gli uni agli altri e privata dei suoi tratti qualitativi e puramente eterogenei. Al tempo della scienza Bergson contrappone la durata (durée), sperimentata dalla coscienza come continuo fluire vivente e imprevedibile. La molteplicità dei momenti che la compongono è simile all’interpenetrarsi delle note di una melodia o a un essere vivente in cui la totalità organica precede la molteplicità distinta delle parti. La vita della nostra coscienza appare così sotto un duplice aspetto, a seconda che la si percepisca direttamente o la si rappresenti attraverso le rifrazioni dello spazio: vi sono insomma un io reale, concreto, che vive nella durata, e una sua rappresentazione simbolica e frammentaria, proiettata nello spazio.

    Per restituire la realtà del movimento e del divenire Bergson non si accontenta quindi di descrivere la successione simultanea dello spazio percorso, che sarebbe solo una sua traduzione simbolica o cinematografica, ma si pone dal punto di vista della durata per cogliere l’atto semplice che ha generato il movimento nel suo farsi. La libertà stessa, se la si considera a partire dalla pura durata in modo immediato, non può essere sacrificata al determinismo: se si considera la coscienza non come aggregato di fatti, sensazioni, sentimenti e idee, bensì come unità organica, i nostri atti non appaiono come determinati da una legge di causalità meccanica a partire dagli stati precedenti, bensì come atti liberi emananti dall’intera personalità. Agire liberamente significa dunque riprendere possesso di sé, ricollocarsi di nuovo nella pura durata e non agire per il mondo esterno, obbedendo alle regole imposte dal conformismo sociale.

    Il Saggio appare insomma ancora dominato dalla filosofia della coscienza di matrice ottocentesca che porta Bergson a considerare tutto ciò che è esterno all’esperienza dell’io profondo come relativo, superficiale, meccanico, riconoscendo la realtà assoluta nel dato immediato della durata psicologica e nella contingenza delle sue leggi. La stessa vita sociale è colta come luogo della proiezione spaziale dell’io, come ambito impersonale della ripetizione conformista di comportamenti utili e prevedibili. Su questi presupposti Bergson interpreta il fenomeno del comico in un’opera che influenzerà enormemente l’estetica del Novecento: il saggio sul Riso (1900, trad. it. 1916). Le ragioni vitali che sono alla fonte della società producono il riso come funzione di difesa nei confronti dell’eccesso di rigidità e di automatismi meccanici che talvolta si verifica nei comportamenti sociali. Il comico è dunque una reazione intimiditoria e umiliante nei confronti del meccanico applicato al vivente, per preservare la tensione e l’elasticità che sono proprie della vita della coscienza ma che tendono ad esaurirsi e irrigidirsi nella vita sociale.

    Le prime posizioni di Bergson condizioneranno profondamente la sua ricezione novecentesca, che conoscerà inizialmente un forte entusiasmo da parte di spiritualisti e cattolici (Edouard Le Roy, Jacques Chevalier), accompagnato dalla condanna di coloro che vedranno nella sua filosofia una svalutazione della società, della scienza e dell’intelligenza (Georges Politzer, Paul Nizan). Del resto Bergson, nell’arco della sua opera, aggiornerà profondamente la curvatura intuizionista e individualista iniziale, giungendo a sfidare l’univocità della tradizione spiritualista dalla quale egli stesso proveniva.

    Già da Materia e memoria (1896, trad. it. 1983) l’indagine di Bergson si sporge progressivamente verso la realtà materiale, abbandonando l’esperienza interiore per esaminare la percezione delle cose. Se le esigenze pratiche dell’azione frammentano e selezionano i dati dell’esperienza, la percezione pura ci pone in un contatto immediato con le cose, la cui materialità è definita un insieme di immagini il cui statuto è intermedio tra le cose in sé e le rappresentazioni.

    La relazione tra corpo e spirito viene insomma impostata attorno a un’esperienza percettiva tesa tra realtà immediata della durata e realtà delle cose, all’incrocio tra realtà spirituale della memoria e realtà spaziale della materia. L’essenza dello spirito, della materia e della loro relazione è però oscurata dal nostro modo ordinario di conoscere, fondato sulle abitudini spaziali della nostra intelligenza.

    Le interferenze degli schemi dell’azione nella sfera della speculazione possono essere riconosciute a partire dall’intuizione, la modalità di conoscenza immediata che viene indicata come metodo della metafisica, opposto all’analisi della scienza per delimitarne l’ambito di competenza. Mentre l’analisi ruota attorno alle cose e ne offre una visione relativa, esteriore e frammentaria, l’intuizione è "quella simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico e, per conseguenza, di inesprimibile" (Introduzione alla metafisica, 1903, trad. it. 1909). Questa posizione, che suggerisce ancora perplessità nei confronti della natura spaziale, frammentaria e per questo relativa dei concetti generali e del linguaggio, inviterà alcuni interpreti a reagire contro un preteso antirazionalismo bergsoniano. Sarà il caso di Jacques Maritain, le cui critiche di stampo neotomista motiveranno la messa all’Indice di tre opere di Bergson nel 1914, sotto il papato antimodernista di Pio X.

    L’ultimo Bergson: la filosofia della vita

    L’ultimo Bergson precisa la dottrina dell’intuizione che aveva dato luogo a riprese irrazionaliste del suo pensiero da parte di correnti decadentiste e volontariste di inizio Novecento e definisce intuizione e intelligenza come i due poli inseparabili di ogni atto intellettivo. L’intuizionismo scettico nei confronti della scienza lascia ormai il passo al riconoscimento di una impresa comune a scienza e filosofia.

    Il momento di svolta è rappresentato dal passaggio dal punto di vista psicologico al punto di vista cosmologico che avviene con l’opera più importante di Bergson, L’evoluzione creatrice (1907, trad. it. 1925), pubblicata all’apice della sua fama come professore al Collège de France e che nel 1927 gli varrà il premio Nobel per la letteratura. Qui Bergson trova una convergenza tra teoria della conoscenza e teoria cosmologica e dell’evoluzione per cui l’intelligenza e la materia hanno una genesi simultanea, rappresentando entrambe un movimento di inversione e interruzione dello slancio vitale (élan vital). Mentre l’intuizione va nel senso stesso della vita, l’intelligenza è piuttosto caratterizzata da un’incomprensione naturale della vita ed è a suo agio nella materia inerte, ma come attestano il successo dell’azione e della scienza, essa tocca qualcosa di assoluto. La rivalutazione del ruolo dell’intelligenza è riscontrabile anche sul piano antropologico: la figura in parte pragmatista dell’homo faber rivela tutto il carattere ambivalente dell’intelligenza fabbricatrice, che emerge come annesso della facoltà di agire votato a costruire strumenti, ontologicamente intesi come organi amovibili e versatili che prolungano l’azione del corpo. Il pensiero fabbricante contribuisce inoltre all’avanzare della coscienza, così come l’intuizione è sempre uno sforzo mediato e riflesso, e così come la vita, pur essendo di ordine psicologico, si sviluppa solo nella mediazione spaziale e materiale: su questi presupposti Bergson può rivendicare una causalità specifica del vivente che non va solo contro la causalità del determinismo positivista, ma anche contro il finalismo su cui si appoggiavano le tesi spiritualiste. Che il divenire sia determinato in base alle parti che ne compongono il passato (meccanicismo) o in base a un fine predisposto verso cui tutto tende (finalismo), in entrambi i casi si è sviati dal pensiero geometrico, che considera la somma delle parti anziché il tutto nel suo divenire organico e spontaneamente creativo.

    L’assolutezza finita e in divenire dell’élan vital, oltre ad avvicinare la filosofia della vita di Bergson a quella del filosofo tedesco suo contemporaneo Georg Simmel, sarà uno dei fulcri della filosofia di importanti interpreti di Bergson come Vladimir Jankélévitch e, per suo tramite, Maurice Merleau-Ponty. Accanto a essi, uno dei filosofi più influenti per la riconsiderazione di Bergson nella seconda metà del Novecento sarà Gilles Deleuze, che rifletterà specialmente sulla descrizione bergsoniana del cambiamento vitale come movimento di differenziazione interna e di attualizzazione imprevedibile delle proprie virtualità (Il bergsonismo, 1966, trad. it. 1983).

    Negli anni Dieci e Venti la vita di Bergson attraversa la prima guerra mondiale prestandosi in diverse occasioni ufficiali alla causa nazionalista antiprussiana, e nel dopoguerra dedicandosi alla costruzione di una cultura della pace in veste di presidente della Commissione Internazionale di Cooperazione Intellettuale della Società delle Nazioni. Le esperienze politiche e sociali di quegli anni accompagnano l’elaborazione dell’ultima grande opera di Bergson, Le due fonti della morale e della religione (1932, trad. it. 1947), in cui il filosofo si confronta con le società umane a partire dalla filosofia della vita de L’evoluzione creatrice. I diversi tipi di società, di morale e di religione riflettono la polarità tra i due sensi della vita (Frédéric Worms) che sottendono costantemente al pensiero bergsoniano: il senso scientifico, conservativo, e il senso metafisico, creativo, dell’élan. Si distinguono quindi la società chiusa e aperta, ovvero rispettivamente il gruppo ristretto, regolato da principi morali costrittivi e mantenuto coeso da una religione statica e dottrinale, improntato a un ordine gerarchico e sempre sul piede di guerra – e il gruppo che si estende invece idealmente all’intera umanità, i cui principi morali pretendono di essere universali e aspirano a emulare la vita e gli insegnamenti di grandi uomini e donne le cui vite testimoniano un’esperienza mistica, fonte della religione dinamica. Alla luce della dicotomia del chiuso e dell’aperto Bergson propone una lettura della società industriale contemporanea e offre prescrizioni affinché si orienti all’apertura, dunque affinché trovino realizzazione la democrazia e la pace. Nel processo di liberazione dell’umanità viene riconosciuto un ruolo ineludibile alle macchine, che assumono così un importante valore morale e politico. Dopo aver descritto la durata comune della materia e della memoria, della materia e dello slancio vitale, Bergson afferma l’origine comune e l’avvenire condiviso della meccanica e della mistica. L’opera che è stata letta a lungo come la più tradizionalista di Bergson sembra così definire il più immanente e il meno conservatore degli spiritualismi.

    Rimandi

    Volume 52: Descartes e la filosofia secondo la regola della ragione

    Volume 52: Blaise Pascal

    Volume 52: Il concetto moderno di coscienza

    Volume 58: Immanuel Kant

    Volume 64: Friedrich Wilhelm Nietzsche

    Volume 64: La reazione al positivismo: lo spiritualismo

    Volume 64: William James e la filosofia americana nell’Ottocento

    Volume 64: La nascita della psicologia scientifica

    Gilles Deleuze

    Fenomenologia

    Esistenzialismo

    Teologie del Novecento

    La sociologia

    La psicologia

    Benedetto Croce

    Amedeo Vigorelli

    Un filo biografico fornito dallo stesso Croce, e che traduce in atto la sua definizione dello studio della storia come storia contemporanea ripercorre le tappe fondamentali della sua vicenda culturale. Nella fase giovanile prevale l’impegno teoretico alla costruzione del Sistema, ispirato a una riforma dell’hegelismo, e che vede associati i nomi di Croce e Gentile. Nella fase matura emerge in primo piano l’opera di storico, non disgiunta da un crescente impegno etico-politico nelle file dell’antifascismo liberale. Nella fase senile viene in luce la costante autocritica del filosofo, che non si limita agli aspetti pragmatici, ma coinvolge la visione teoretica di fondo.

    La formazione e il primo sistema

    L’individuo è poca cosa per sé, fuori del tutto: così Benedetto Croce introduce la propria autobiografia intellettuale, alle soglie della Grande Guerra (Contributo alla critica di me stesso, 1915). Non era semplice understatement il suo, ma intima persuasione filosofica, innervata nello spiritualismo idealistico della sua prima stagione culturale. Abruzzese di nascita (Pescasseroli, 1866) e napoletano di formazione, il giovane studioso, appassionato di studi storici ed eruditi, si converte precocemente alla filosofia, dopo la lettura della Scienza nuova di Giambattista Vico. Ugualmente distante dallo spiritualismo cattolico (educato in un collegio di sacerdoti si congeda adolescente, con un distacco senza drammi, dalla religione) e dal positivismo allora dominante (frequenta con scarso interesse le lezioni universitarie, se si eccettuano le lezioni di morale di Antonio Labriola, e non conclude mai gli studi di giurisprudenza, a cui si era avviato), trova un approdo solido nel ripensamento personale dell’eredità romantica e germanica, ancora viva nella tradizione dell’hegelismo napoletano di Augusto Vera e Bertrando Spaventa. All’epopea risorgimentale e agli uomini della Destra storica Croce si rifarà anche in seguito, non solo per i legami familiari (nipote di Silvio Spaventa, viene accolto nella sua casa dopo la tragedia familiare del terremoto di Casamicciola del 1883, che lo lascia orfano dei genitori e di una sorella), ma anche per la profonda convinzione liberale, sia pure temperata da un conservatorismo di fondo.

    Fin dal primo scritto teorico, La storia ricondotta sotto il concetto generale dell’arte (1893), entra in polemica con il positivismo di Pasquale Villari, negando che la conoscenza storica sia mera conoscenza di fatti, e affermando il valore inventivo della immaginazione nella conoscenza dell’individuale. Ma è soprattutto nel capolavoro giovanile, L’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (edita nel 1902, ma che rielabora una precedente Memoria accademica del 1900) che Croce sistematizza la propria visione filosofica. Pur non ostile alle scienze naturali, ma critico semmai dello scientismo positivistico, egli è specialmente interessato a una fondazione delle scienze dello spirito, di cui sottolinea l’essenziale storicità e il carattere dialettico. Lo Spirito (sinonimo di mondo storico-culturale) è caratterizzato da unità nella distinzione. L’arte (intuizione del particolare), la filosofia (conoscenza dell’universale logico), l’economia (volizione del particolare) e la morale (volizione dell’universale) sono i momenti fondamentali dello Spirito. Tra loro non sussiste opposizione (interna se mai agli aspetti così distinti, astrattamente considerati: bello/brutto; vero/ falso; utile/disutile; buono/malvagio), ma reciproca autonomia e implicazione. Il momento che precede (l’arte rispetto alla filosofia, l’economia rispetto alla morale ecc.) è l’antecedente logico e la materia del momento successivo, ma ciascun momento vive anche separatamente dagli altri, considerato nella propria formalità e distinzione. In particolare, l’arte va riconosciuta nel proprio autonomo valore formale ed espressivo, e non subordinata a considerazioni di natura extraestetica o contenutistica. Analogamente l’economia (nella quale il giovane Croce fa rientrare anche il diritto e la politica) non va sottoposta ad astratte valutazioni moralistiche, ma riconosciuta nel proprio ruolo autonomo, integralmente mondano e immanentistico. Al completamento del proprio sistema Croce lavorerà intensamente nel primo decennio del secolo, con la pubblicazione dei Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro (1905) e della Filosofia della pratica (1908).

    In questa fase della propria attività, che trae particolare efficacia per un rinnovamento della cultura italiana dalla fondazione della rivista La Critica (1903), è decisivo il sodalizio con Giovanni Gentile, ben presto associato alla direzione della collana di Classici della filosofia moderna di Giovanni Laterza, l’editore delle opere di Croce. È Gentile a indirizzare Croce all’approfondimento della filosofia hegeliana (Saggio sullo Hegel, 1906), allontanandolo dall’herbartismo e dal marxismo di Labriola. Ma fin dalle origini vi sono profonde differenze tra i due capofila di quello che verrà presto battezzato come neoidealismo italiano. Li divide il giudizio sul materialismo storico di Marx, al quale Croce negherà sempre valore filosofico, riducendolo a canone storico utile alla rilevazione del fattore economico nell’evoluzione delle società, mentre Gentile ne valorizza l’aspetto di filosofia della storia e ne ripensa (in chiave idealistica) il concetto di prassi. Ma li divide soprattutto la preparazione e l’attitudine filosofica di fondo: più speculativa e teologizzante quella di Gentile, più concreta e pragmatica quella di Croce. Quando Gentile inizia a elaborare un proprio sistema teoretico, cui pone il nome di Attualismo, Croce esprime le sue riserve, nei confronti di quello che gli pare un ritorno alla metafisica speculativa, che sacrifica l’esigenza della Distinzione, a scapito di un’accentuazione quasi mistica dell’Unità. Ma le riserve sfociano in aperto dissenso e si aggravano, per le diverse valutazioni di fronte alla guerra, prodromo delle divergenti opzioni politiche del dopoguerra.

    Tra due guerre

    Nominato senatore nel 1910, Croce attraversa senza scosse e con una fondamentale adesione, gli anni finali dell’età giolittiana, ma è profondamente turbato dalla crisi europea insorta con la guerra mondiale, di cui scruta (in uno spirito non dissimile da quello di altri intellettuali dell’epoca, come Julien Benda), le cause spirituali profonde, identificate nel nazionalismo e nel materialismo. Contrario all’ingresso in guerra dell’Italia, vi si sottomette da ultimo per fedeltà patriottica e monarchica, ma non cessa di manifestare le proprie perplessità e un atteggiamento più propenso alla tesi neutraliste, nelle Pagine sulla guerra, ripubblicate nel dopoguerra (1928). Entrato a far parte dell’ultimo governo Giolitti (1920) come ministro della Pubblica Istruzione, non può dare seguito all’ampia riforma della scuola, da lui progettata, a causa della crisi che ne segue e che porta in breve tempo all’instaurazione del governo di Mussolini. A differenza di Gentile, che si schiera apertamente con il fascismo, divenendone in breve giro di tempo uno dei maggiori ideologi, Croce manifesta da subito le proprie riserve, improntate alla rigida difesa dei principi della democrazia liberale. Dopo l’omicidio di Matteotti smette di frequentare l’aula del Senato e con la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali antifascisti (1925), che risponde polemicamente all’opposto Manifesto degli intellettuali fascisti, stilato da Gentile, diventa l’esponente culturale più in vista della opposizione al regime di Mussolini.

    Già nell’opera scritta negli anni di guerra, e che riassume tutto il suo itinerario filosofico giovanile, Teoria e storia della storiografia (1917), Croce esprime il suo netto orientamento contrario alla filosofia intesa come speculazione pura (che gli sembra riaffiorare in Gentile) e riformula meglio la propria posizione, nei termini di uno storicismo assoluto. Non solo vi è circolarità di sviluppo tra filosofia e storia della filosofia (come affermato concordemente da Croce e Gentile nella prima fase), ma la filosofia deve diventare metodologia della storia e abbandonare ogni residuo di misticismo e di metafisica. In questo spirito, che Antonio Gramsci interpreterà come complementare e polemico nei confronti del marxismo, Croce si dedica, negli anni tra le due guerre, a un’imponente attività storiografica: Storia del Regno di Napoli (1925); Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928); Storia dell’età barocca in Italia (1929); Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932). In queste opere (e specialmente nella Storia d’Italia e nella Storia d’Europa) si affaccia una parziale autocritica nei riguardi della giovanile battaglia neoidealistica, di cui si constata l’insufficienza a creare un solido baluardo etico-politico, contro le derive irrazionalistiche e materialistiche del fascismo e dell’imperialismo. Mentre ne esce confermata la tesi che interpreta la storia moderna come progresso nell’idea di libertà e viene confermato il suo fondamentale ottimismo, che concepisce la storia non come trapasso dal male al bene, ma dal bene al meglio.

    Gli anni senili

    La tendenza, in coerenza con la propria visione di fondo della storia, a considerare il fascismo come semplice parentesi (paragonabile all’irruzione improvvisa di elementi irrazionali e barbarici, come l’invasione degli Hyksos negli antichi imperi mesopotamici) in una vicenda di progresso – destinata a constatare una positiva eredità liberale, nel continuum della storia mondiale – gli verrà rimproverata come una ingenuità o come una voluta reticenza dalla cultura marxista, negli anni del secondo dopoguerra. Come pure la sua definizione di liberalismo come idea sovrastorica, che non si identifica con il liberismo (in quanto sua concreta traduzione economica), ma alla cui attuazione concorrono anzi sia i fautori che i detrattori, tanto i moderati quanto i rivoluzionari, parrà troppo metafisica agli stessi prosecutori ideali del suo

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