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Giorgio Letham, medico e assassino
Giorgio Letham, medico e assassino
Giorgio Letham, medico e assassino
E-book504 pagine8 ore

Giorgio Letham, medico e assassino

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Info su questo ebook

Giorgio Letham è un medico, ma anche un'uxoricida. In seguito all'omicidio di sua moglie, viene condannato ai lavori forzati in una colonia penale in Sud America. Qui lavora a contatto con i malati di febbre gialla in un ospedale epidemiologico e conosce l'omosessuale March, al quale si lega in maniera morbosa e, a suo avviso, incomprensibile. Mentre questo rapporto risveglia in lui un senso di inaspettata umanità, il patologo si cimenta in un esperimento medico avventato che scatena una pericolosa reazione a catena...-
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2022
ISBN9788728000472
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    Anteprima del libro

    Giorgio Letham, medico e assassino - Ernst Weiss

    Giorgio Letham, medico e assassino

    Translated by Alessandra Scalero

    Original title: Georg Letham. Arzt und Mörder

    Original language: German

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1933, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728000472

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    http://www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    All’uomo imperfetto non è risparmiato assistere — sia in veste di accusato che di testimone — allo spettacolo assai più imperfetto del processo mondiale. Crudeltà e insensatezza: ecco i risultati della nostra esperienza, osservazioni che si ripetono sino alla noia, dutante la breve parabola della nostra esistenza. Chi vorrebbe chiudere gli occhi di fronte a questa scienza essenziale? Eterna necessità dell’individuo, cui inutilmente si oppone la spietata lotta di tutti contro tutti: sofferenza, dolore dell’anima, torture sino all’inenarrabile, accompagnate da una bruta forza cieca. Con ciò, sciupìo di materiale da parte della natura. In questo mondo retto dall’ordine, chi riesce a penetrarne la ragione?

    Penetrarne la ragione, arrivare alla comprensione: ecco quel che si tenta dai primi giorni agli ultimi, senza pur mai venirne a capo. Che cosa dovrebbe dunque perseguire un individuo dotato di ragione e volontà fuorchè la gioia dell’attimo fuggente? E che cosa può essere questa gioia, se non un’ebbrezza, la quale richiederà una dose sempre maggiore dello stupefacente, ogni volta che si vorrà tornare a provare la sensazione? Ma se si dovrà sempre da capo ricorrere a brutali sforzi per rendere appena sopportabile l’esistenza, allora non tarderà a giunger quell’ora in cui si infrangeranno le leggi della socialità e solidarietà umana, in cui ci si urterà senza ritegno ai diritti altrui: e nulla di più naturale, allora, che gli altri si difendano, e cerchino di rendere inoffensivo chi ha offeso la legge.

    Il disordine profondo e veramente spaventoso, catastrofico della natura e del mondo, la loro insensatezza; quello che nel mondo scientifico si definisce il patologico, nel mondo etico la delinquenza, sussistono, non mutano nel corso dei secoli, e la faccia della natura, la struttura della società, serbano anche dopo le più tremende catastrofi la loro espressione di belluina e stupida gravità. Degno davvero di compassione è l’uomo il quale, pur provvisto del suo raziocinio, è costretto ad assistere scientemente a questo spettacolo. Sottomettersi alla collettività? Ma come? Gli stati sono altrettanto stupidi quanto è l’individuo. Impiega le tue forze! Aiuta! Cerca di mutare! Mutare? Ma dove? Si potesse almeno aiutare! Ma in novecentonovantanove casi su mille, l’energia dell’individuo singolo si rivela manchevole. Poter almeno credere a un ordine supersensibile del mondo, aggrapparsi a una grande idea, si chiami essa Cristo, Patria o Scienza!

    Bellezza, pace, armonia: anch’esse non sono che ebbrezza. Solo la ricchezza e il sapere conferiscono all’individuo un relativo sostegno.

    Troppo debole per aiutare, reso incapace a credere sin dall’infanzia, preda di tutti gli istinti antisociali del mio intimo (del peccato originale?), mai compreso dai miei simili e perciò sempre e profondamente solo; scosso da dissidi interni come un malarico tra temperatura massima e minima, tra arsure e brividi di febbre; dotato di attitudini scientifiche, ma con nessuna speranza nell’anima che con ogni anno diventa più vecchia, ma non già più matura; con una vita umana sulla coscienza, senza perciò avere una coscienza nel proprio carattere in se stesso pieno di antitesi — tale dovrebbe essere il mio Io? No, una parte appena del mio Io.

    Certo, descrivere una simile esistenza non solo in parte, ma in tutta la sua complessità, potrebbe forse essere compito del romanzo moderno.

    Non è già molto, che non solo io abbia vissuto la mia vita, ma che ancora cerchi di rappresentarla? È un tentativo che richiede energia e chiarezza forse più di quanto io non possegga. Difficilmente, già lo sento fin da oggi, nasce così una confessione capace di commuovere tutti i cuori umani, un’opera d’arte accessibile a tutte le mentalità. C’è, anzituttto, il pericolo ch’io non venga compreso, e che per questo fatto solo, il mio sforzo venga accolto da un insuccesso. Poter render comprensibile tutto ciò che ho vissuto! È questo il punto essenziale. Sarà un esperimento. Il mio ultimo, forse.

    Non è semplice. Il protagonista sono io. Uno scienziato, un trasgressore della legge. Un medico, un assassino. Concetti difficili da associare. Necessariamente, dovranno comprendere degli errori. Ma riuscirò a rappresentare in modo veritiero questi errori? O debbo contentarmi di render semplicemente ciò che, secondo la visione che io ne ebbi, è accaduto? Anche le regole dell’arte non mi sono familiari. E sarà ben difficile che all’età in cui scrivo, a quarant’anni passati, io riesca ad acquisirle, queste leggi, queste estetiche, con tutto il mio singolare amore per ogni bellezza e perfezione. Qui la mano, tutt’altro che poco abile, e abbastanza sicura in più d’un esperimento, mi manca.

    È dunque senza grande fede nè ottimismo che mi metto all’opera. Ma può senza ottimismo, esistere realismo, esistere un’opera compiuta? Eppure, la tenterò, Con mano calma reggerò lo specchio al quale mi guarderò con l’occhio indagatore dello scienziato; senza pietà verso di me, così come non l’ho avuta verso gli altri. Che cosa è l’uomo, perchè l’uomo abbia pietà di lui?

    Andar oltre non è possibile. Forse, si troverà chi saprà costruire un vero romanzo, dai protocolli di questi « esperimenti su anime umane ».

    Capitolo primo

    1.

    Come è possibile che io, Giorgio Letham, medico, uomo di dottrina scientifica, di tendenze filosofiche, abbia potuto lasciarmi indurre a commettere un delitto della peggior specie, un uxoricidio? E a commetterlo essenzialmente per cupidigia di denaro? Tale è, quanto meno, l’apparenza esteriore. Perchè tutto fuorchè il denaro potevo avere da quella donna, che mi dimostrava una fedeltà canina. Quest’aggettivo implica forse un’offesa? No. Cerco soltanto una spiegazione che non riesco a trovare; qui c’è una contraddizione interiore; eppure, le cose si sono svolte proprio così.

    Negli ambienti giuridici, nei giornali della capitale — voce dell’opinione pubblica — ha destato una certa meraviglia il fatto che durante l’udienza principale del mio processo, quando per me si trattava di vita o di morte, io abbia sbadigliato. Si era al terzo giorno, il caldo era soffocante, le arringhe non mi dicevano nulla di nuovo, eppure, eppure, tutto si può comprendere, ma non che l’accusato di un delitto simile dia prove così evidenti di poco interesse per lo svolgersi del suo processo. Ma questa non è che una contraddizione apparente in contrasto alle molte vere della mia natura. Gli altri si potevano ben interessare alla mia sorte; ma a me non interessava quel che altri ne pensava, e con quale « pena » secondo quale paragrafo dei codici mi avrebbero fatto espiare la mia colpa, per amor della legge del taglione, dell’« esempio ». Per capire il rapporto logico tra colpa e espiazione, ci sarebbe voluta ben altra esperienza di vita della mia. Quale legge avrebbe potuto essermi applicata? Le leggi ispirate alla consuetudine e alla tradizione non mi rendono giustizia. E la legge naturale? Troppo spesso ho visto innocenti patire, e colpevoli, malvagi, vili trovare la fortuna. Mi si poteva punire. Ma non mi si poteva costringere a considerare come un’espiazione una pena, sia che fosse una condanna a morte o una deportazione a C., dove imperversavano in quel momento la febbre gialla e altre malattie tropicali.

    O forse che quelle arringhe dovevano fornirmi una spiegazione sulla mia natura speciale, su di una « morbosa disposizione » all’incapacità di vivere da cittadino ossequiente in uno stato costituito? Quando, secondo le mie impressioni ed esperienze, questo « stato costituito », di cui il tribunale era l’esponente etico, era tutto meno che un organismo sano, morale, intrinsecamente ordinato.

    Ma l’azione commessa sussisteva. Quando una creatura umana ha sulla coscienza un’azione, che nella sua ferrea ineluttabilità non può reggersi nè affermarsi o scusarsi — quando io sono stato spinto alla distruzione di un’altra vita umana, a che servono le parole e le prove? Il colpevole non si può più salvare; neppure prima — prima del suo delitto, non si è potuto salvare! E se anche avesse considerato tutto, le forze istintive in lui non sarebbero state ugualmente più forti delle riflessioni che la sua ragione gli imponeva?

    Ora si decida pure della sua sorte materiale! Ma non c’è più speranza. Se ho la pelle dura, resisterò. Se sono delicato, perirò. Quel che è stato; è stato.

    Nella mia gioventù, dopo gli esperimenti pedagogici compiuti su me da mio padre, ho adorato il sapere obbiettivo sotto forma di scienza naturale, e il soggettivo godimento della vita sotto forma di denaro. Il denaro mi pareva qualcosa di più d’un godimento superficiale: il surrogato migliore, perchè unico, di Dio, nella nostra sconsacrata epoca. Il denaro è terreno solido. Chi ha denaro, ha sempre ancora qualche cosa, per cui si trova, nell’ordine sociale di oggigiorno, su fondamenta sicure.

    Sapere e possedere quanto più possibile — che ricetta semplice, ma che difficile arte! Freddo, solitario, spassionato — quanto ho sacrificato a queste due divinità, in lunghe notti nei laboratori sperimentali di batteriologia e di patologia, e in altre notti al tavolo da gioco! La fortuna mi arrideva, in un caso e nell’altro. Ho compiuto gli esperimenti più costosi (gli scimpanzè, e altre scimmie rare, costano enormemente) in grazia ai miei guadagni di gioco. Mi stordivo nel lavoro quand’ero stanco del gioco, e nel gioco, quando mi veniva meno la necessaria concentrazione ed elasticità mentale. Al tavolo verde mi venivano idee nuove, per nuovi esperimenti. Avevo fortuna, ma raramente ero felice.

    Ho perduto presto mia madre; mio fratello e mia sorella mi sono sempre stati estranei; mio padre ha avuto nella mia esistenza una parte tanto importante, quanto funesta.

    Benchè stanco di quell’esistenza, avevo rifiutato una cattedra a una piccola università. Avevo bensì pubblicato i risultati delle mie ricerche batteriologiche su di una malattia rara ma interessante, dovuta al morso dei topi, ma non le seguitai. Avevo guadagnato molto al gioco, e chiusa la mia casa, mi recai in viaggio. Feci allora la conoscenza della mia futura moglie. Era molto ricca, non bella, non più giovane. Sulle prime, ogni cupidigia mi fu ben lontana. Nel nostro contratto di matrimonio, abbozzato sotto palme e aranceti, in una mattinata stupenda, non si parlò di comunanza di beni. Esisteva (ed esiste) una figlia di primo letto di mia moglie, la quale era erede diretta e sarebbe stata presto in età da marito. Contemplando il mare azzurro, discutemmo il nostro futuro andamento domestico: il numero delle stanze, anche troppe, ma con una sola camera da letto in comune. Un tenore di vita lussuoso; ognuno di noi avrebbe contribuito a metà, mia moglie con le sue rendite, io coi miei proventi di medico.

    Che io non fossi soltanto scienziato, ma anche medico, autorizzato a esercitare, l’avevo completamente dimenticato. Ero, anzi, un buon diagnostico, per quanto la mia esperienza provenisse più dall’aula universitaria, dal tavolo incisorio e dal microscopio che dal letto dell’ammalato. Ma la tecnica scientifica moderna, la radiografia, le analisi chimiche, l’esame biologico delle funzioni dànno ormai risultati tali, che queste precise ricerche sostituiscono ampiamente la pratica.

    I miei esperimenti mi avevano conferito, inoltre, una discreta abilità manuale. La vivisezione, l’esperimento sul materiale vivo, non si può compiere senza una certa misura di manualità chirurgica. Anche qui vale la legge dell’asepsi, che rappresenta il segreto di ogni abilità chirurgica.

    L’interesse che portavo alla chirurgia e alla ginecologia aumentò, dopo che ebbi prestato servizio volontario in una grande clinica, pochi mesi dopo il mio ritorno. Potevo dunque tentare il gran salto dalla scienza teoretica nella chirurgia pratica e nella ginecologia.

    Mi sposai, e diventai medico. Mia moglie contribuiva a spianarmi la via, con tutte le sue energie, con la sua gagliarda gioia di vita. Aprii una clinica privata in una bella strada tranquilla. Colleghi i quali mi avevano chiamato a consulto come patologo, in altri tempi, mi mandarono degli ammalati e tutto parve andar bene. Le malattie mi interessavano, gli ammalati no. Ciò accade al novanta per cento dei chirurghi, e così dev’essere. Spontaneamente avevo promesso a mia moglie (essa era di cuore troppo sensibile) di farla finita con gli esperimenti sulle bestie, e di non metter mai più piede in una sala da gioco.

    Che cosa, in fondo, avevo voluto, spontaneamente? Diventare un uomo, come ce n’è a milioni. Poi venne la guerra. Fui mobilitato, ma non come chirurgo militare; si credette di rendermi un servizio speciale, assegnandomi un gabinetto batteriologico. Una commissione ambulante, esposta sempre nelle zone di maggior pericolo. Non era quella soltanto un’epoca di sterminio, ma anche di epidemie spaventose. Tutti i microbi erano scatenati, più pericolosi che in tempo di pace all’individuo indebolito e dissanguato, affamato e preoccupato. Gli uomini cadevano come mosche durante la febbre spagnola, la quale, nelle misere condizioni igieniche dell’umanità europea in quei giorni, assumeva forme che ricordavano le pestilenze medievali.

    Io non stavo in ozio. Lavoravo giorno e notte. Ho fatto il possibile. Avevo superiori e inferiori, ordini da dare e da eseguire. Provviste di siero, profilassi contro le epidemie, ricerche pratiche. Questo era l’essenziale. Sul senso e scopo della guerra e delle operazioni strategiche tacevo. Non era cosa che si discutesse con me, del resto.

    Mia moglie mi scriveva tutti i giorni. Le rispondevo quando avevo tempo. Vivevo in mezzo a molta gente, ma per settimane di seguito non pronunciavo una parola veramente mia. Ero stimato. Non mi conquistai amici, ma distinzioni e onorificenze. Debbo a questi segni di riconoscimento per la mia attività patriottica, se molti anni più tardi, in seguito alla mia grave colpa, non fui condannato a morte, ma soltanto alla deportazione. Chi aveva servito in quei critici momenti della lotta contro l’epidemia, s’era acquistata la gratitudine della patria.

    Ma su ciò che quel tempo aveva distrutto in me, preferisco tacere. Nè dirò come esso abbia completato l’opera di mio padre. Lui — il padre, come essa — la patria, anzi, le patrie di tutto il mondo, non sono senza colpa nello sviluppo della mia natura. Ma come raccontarlo ai giudici, ai giurati? Meglio… meglio sbadigliare discretamente — la mano davanti alla bocca.

    2.

    Sì, mio padre ha esercitato sulla mia gioventù l’influenza decisiva. La mia vita fu, con altri mezzi, la continuazione della vita dei miei genitori. Mia madre morì giovane ancora. Non le debbo che le affettuose cure materiali, e le consuete carezze materne. Essa mi insegnò a parlare. Mio padre mi insegnò a pensare. Il mio io pensante, in meglio o in peggio, lo debbo a lui, e ce n’è voluto prima che potessi liberarmi di quella schiavitù d’infanzia. Anche mia moglie mi teneva in una specie di schiavitù — per così dire — una schiavitù di beni.

    L’avevo sposata per non essere solo. La volevo intorno a me, volevo da lei l’illusione della comunità; ma non il suo dominio. Purtroppo, le sue vedute erano diverse. Era brutta, come ho già detto; una bruna castana, che a torto si credeva bionda: spalle strette, fianchi larghi, una faccia piatta schiacciata dalla carnagione terrosa, dal naso camuso, grandi narici che lasciavano intravvedere cavità pelose; brutta particolarità ribelle a tutti i soliti depilatori. Poco belli erano i denti radi; ed essa non li mostrava volentieri nel parlare e nel ridere. Più tardi, vennero sostituiti da una magnifica dentiera. Poichè essa aveva le sue vanità, e faceva più per nascondere la sua bruttezza, che non molte donne per conservare la propria bellezza. I suoi occhi andavano dal bruno dorato al giglio chiaro, un colore raro, che armonizzava con le sopracciglia chiare e abbastanza folte. Fin da principio quella bruttezza non mi aveva ripugnato, direi quasi mi attirava, unita a un’elevata situazione sociale, a una positiva interpretazione della vita e a una certa semplicità: sapevo che quella signora non mi avrebbe mai fuorviato con la bellezza e l’incanto dei sensi. Certo è che mai, con quelle doti con cui le donne in generale influiscono sugli uomini del mio stampo, essa mi avrebbe spinto a un’azione come quella che ho commesso. Ma la vita ha ben altre complicazioni, altre contraddizioni.

    Mio padre mi era stato superiore, per il solo fatto che la sua esistenza mi imponeva. Egli poteva sussistere anche senza la mia vita; non io senza la sua. Superiore mi era per la sua immensa abilità nel prendere e trattare gli uomini. Prendere implica sempre lasciare, e trattare non è mai lontano da maltrattare. Che fosse maggiore d’anni di me, non era una ragione per ammirarlo; ma era più forte, più bello (la bellezza ha sempre esercitato una vera malia su di me, anche nelle più strane manifestazioni e travestimenti). Ma mi era superiore anzitutto perchè — banale ma vero — lo amavo. Egli lo sapeva; conosceva gli uomini, forse perchè è stato quasi sempre spiritualmente indipendente da tutto e da tutti. Più tardi, quando ebbe bisogno di me, quando rapidamente si isolò — coi capelli brizzolati e sempre tinti, le rughe sempre più amare nel viso indurito dai tratti decisi, con un modo di vedere la vita sempre più profondo e deprimente — allora, di colpo, mi diventò estraneo.

    Temuto nel proprio ufficio, dove la sua influenza contava più di quella del ministro, cortese, ricco e avaro, bigotto e anarchico, misantropo dopo quella sua disgraziata spedizione, era insincero per principio e sempre — qualche volta, magari, contro voglia. Era stanco di mentire, di fingere, di posare. Non ne valeva la pena. Il raggiungibile in quel campo l’aveva raggiunto. Non gli chiesi mai consiglio, la mia carriera scientifica la debbo a me solo.

    Negli anni del dopoguerra, veniva spesso da me, mi dimostrava un freddo interesse — ma io non gli lasciavo mai vedere quello che mi animava essenzialmente. Poi gli venne l’idea di gettare l’artificiosa maschera di giovinezza che troppo a lungo aveva portato. Quando lo incontrai in una città meridionale, durante un viaggio con mia moglie, aveva i capelli bianchi, ma, cosa strana, quella chioma folta ancora, e ricciuta, aveva l’aria di una parrucca nella vetrina d’un parrucchiere di teatro, in mostra su di una testa di cera. Gli feci gli auguri per l’ultima promozione, che lo portava d’un grado appena sotto il ministro. Tanto in alto era giunto. Gli altri passavano e lui restava.

    Egli aveva risvegliato il mio istinto di investigar senza pietà nell’animo umano; fanciullo inerme, avevo imparato a sfatare le cose e le idee, a dirigere uomini e fatti. Il racconto della fallita spedizione al Polo mi aveva colpito come un siluro una nave in cammino. Col tempo, ero penetrato anche nell’intimo suo, le cui radici non eran nè più semplici nè più complesse di quelle altrui.

    Non ebbe bisogno di dirmi nulla; tranquillamente parlammo degli ultimi eventi e di ciò che ne dicevano i giornali: non discutemmo, ci trovammo d’accordo, non ci chiedemmo nulla; padre e figlio modello, sorridendo ci stringemmo la mano, invitandoci a bere una bottiglia di vino. Fingendo un certo interesse mi informai della salute dei miei fratelli; « anche a me sono indifferenti », mi disse un cenno della sua mano. Poi si fece più grave e domandò come avevo impiegato il mio patrimonio, quasi non sapesse che tutto apparteneva a mia moglie. « Ottimamente! » mi limitai a rispondere e sorrisi.

    Ci eravamo estranei. Di più: mio padre mi seccava. Lo capiva troppo e mi seccava. Che cosa doveva raccontarmi? La ballata dei topi la conoscevo ormai.

    Mi annoiava anzitutto il suo affetto. Come quello di mia moglie. Ma a lei, l’amore senza essere amata faceva bene, come molte donne che non perdono mai interamente il loro masochismo. Se non ero per lei il marito ideale, come se lo figura una donna della sua età, certo mi considerava un bambino, che la nascita, dolorosa e pericolosa, rende doppiamente caro alla madre. Se soltanto mi avesse risparmiato tante prove di tenerezza! Spesso mi pareva di avere accanto una chioccia dalle penne tepide e sudice — oppure una balia idiota, zotica, bigotta. Sfortunatamente, mio padre aveva preso a copiar da lei quelle maniere, e spesso mi mettevano in croce. Se invece di effusioni e prove d’affetto, mi avessero messo in mano moneta sonante, (o una rivoltella), come sarebbe stato diverso! Ma erano troppo delicati. Entrambi avevano un discreto patrimonio, che mi negavano, forse come un ultimo mezzo di riserva per legarmi a loro.

    A mia moglie ero meno estraneo che a mio padre. Se essa godeva nel soffrire, io avevo imparato a godere nel farla soffrire. In ciò, ci completavamo a meraviglia. Studiavo attentamente fino a che punto potevo giungere senza perdere il suo amore; arrivavo quasi agli estremi della mia fantasia, il filo, teso all’inverosimile, reggeva ancora. Ma in ultimo, finì per strapparsi. Avevo creduto un essere umano capace di giungere al sovrumano in fatto di « pene e dolore d’amore », e dovetti scontarlo: un essere di media forza non va oltre i confini della fragile natura umana. La mia posta al gioco era stata troppo alta e rischiosa, e i miei conti sbagliati.

    Ero forse pentito di ciò? No. Neanche la pena di morte mi avrebbe spaventato. Penso al processo: quel tribunale terreno era troppo debole per punirmi, troppo ridicolo, troppo fragile. Dio o Satana in persona avrebbero dovuto rivelarmisi. Sbadigliavo. Se fosse stato in mio potere, avrei ripetuto il mio infernale esperimento, sotto altre condizioni, mandando ugualmente all’altro mondo quella vecchia femmina in foia, quella finta bionda dagli occhi freddi e chiari color d’acciaio nel piatto viso smaltato, e dalle gambe venate di varici azzurrine; e con lei avrei spedito anche il mio buon vecchio genitore dignitosamente incanutito.

    3.

    Di un uomo ancora debbo parlare, il quale avrebbe potuto significare tutto al mondo per me: Walter, il mio collega d’università.

    Durante il carcere preventivo, nel periodo tra delitto e sentenza, nelle ore dolorose in cui tutti ci hanno abbandonato, nello stadio della resa di conti con se stesso, quando il lavorìo di analisi interiore cui ci costringe la solitudine ci pare tanto più doloroso, quanto più intensa e pura è stata la nostra vita cerebrale — mi rammentai di un episodio insignificante in sè, occorso durante una lezione. Il vecchio professore di fisiologia ci stava parlando delle qualità ottiche dell’occhio umano, allorchè si aprì la porticina dietro la lavagna, che dava negli altri locali dell’Istituto di Fisiologia.

    Vedo ancora la bella mano sottile eppur virilmente energica e nervosa del mio compagno, che trascrive le formule in un quaderno un po’ disordinato; mentre gli occhi grigi e vividi non si scostano dalla lavagna con un’espressione che direi di gioiosa intelligenza, la mano segna le cifre quasi istintivamente. D’un tratto, un movimento corre fra gli studenti, i quali ridono, rumoreggiano; una cosa arruffata, bassa, bianca e rossiccia sgattaiola tra i banchi; un barbone bianco sporco, la testa coperta di sangue sino al muso, con una larga ferita quadrata a una tempia, la lingua penzoloni schiacciata ai bordi, gli occhi sbarrati, passa scodinzolando con un mozzicone di coda convulsa sotto gli occhi appena stupiti del professore; e si trascina dietro una cinghia di cuoio rosicchiata.

    Racconterò più tardi diffusamente, come mio padre mi avesse già agguerrito contro tutti gli orrori dell’esistenza, altrimenti non avrei mai scelto lo studio della medicina, e avrei resistito alla tentazione di penetrare i segreti della vita fìsica. Già avevo assistito a esperimenti di vivisezione, fin dal terzo semestre; ma ora, quella bestia che scodinzolando arrancava a fatica su per i gradini dell’anfiteatro, coi suoi occhi dilatati dal terrore e dal panico, e suggeva l’aria attraverso le narici sanguinose, rantolando, per scaricar finalmente le sue torture in un lungo guaito, quella bestia m’aveva sopraffatto d’orrore impotente. Ora era vicina al nostro banco, al sommo dell’anfiteatro; la ferita al cranio era visibile, la pelle era recisa con cura, la bianca meninge incisa a forma di rombo, e due minuscoli strumenti scintillanti, forse grappette, pendevano ancora nel pulsante cratere della ferita.

    Il baccano, intorno a noi, assumeva un carattere giocondo. Gli studenti, e anche il professore, avevano preso in ridere l’episodio del piccolo reprobo sfuggito alle braccia della scienza. Specialmente rammento il viso ridente e i bei denti di una bionda studentessa, la quale sollevando le lunghe gonne seriche, inseguiva la bestiola così come fanno le fanciulle, quando il loro cagnolino fa le viste di scappare, ed esse lo richiamano vezzeggiandolo, con paroline come « caro », « tesoro », « cattivello », ecc. Ed era orribile vedere come al cane morisse il guaito in gola, al suono di quell’insinuante vose umana; e ingannato nella sua eterna fiducia verso il suo dio, l’uomo, volgeva la testa piegata verso la bella giovinetta.

    Fu allora che il mio amico Walter si alzò in piedi. Levò, con la sinistra, il bastone da passeggio dal pomo d’argento, mirò al cranio della bestiola, colpì. Gli aveva spezzato l’altra tempia, quella ancora sana. Un tonfo sordo; il cane ricadde da un lato, e tutto fu finito.

    Lo studente si alzò, scese i gradini fino al lavandino vicino alla cattedra, lavò il pomo, lo asciugò all’asciugamano dietro la lavagna. Strano che nessuno, nemmeno il professore, trovasse qualcosa da dire a quel gesto. Il professore suonò pel bidello, affinchè portasse via il cadavere, gli studenti tornarono ai loro posti, il mio vicino si volse di nuovo al suo quaderno disordinato, e la lezione riprese il suo corso. Il medico che stava sperimentando sul cane, seppi più tardi, era stato chiamato al telefono. L’inserviente s’era allontanato per fumare una sigaretta al fresco, e la bestia, d’una forza e intelligenza non comune, non ancora stordita, aveva trovato modo di liberarsi e s’era precipitata verso l’anfiteatro, pel quale, tuttavia, non era ancora pronta: solo tra qualche settimana avrebbe dovuto esserci presentata, allorchè gli effetti della paralisi in seguito alla parziale estirpazione del cervello si fossero manifestati nella forma dovuta.

    Verso lo studente Walter mi sentivo attirato in modo assai strano, che non saprei descrivere in parole. Forse così il malato senza speranza si sente attratto verso il medico. Diedi gli esami di laurea contemporaneamente a lui. Era un giovane sano, robusto, florido; figlio di un alto ufficiale, aveva preferito, alla carriera militare, lo studio della medicina, e cioè patologia sperimentale e batteriologia, dunque, le stesse materie mie. Era mancino; ma come tutti i mancini, dotato di straordinaria abilità manuale. Vero è che qualche volta, tutto gli andava storto. Ma tutti i miei tentativi di guadagnarmi la sua amicizia andarono a vuoto. Era d’umore allegro, amante dello sport, non privo d’un certo senso comico, ma, mi parve in seguito, abbastanza lontano da ogni umana pietà. Non per compassione aveva dato il colpo di grazia al barbone, ma perchè nel dimenarsi era facile che corpi estranei, penetrando nella ferita aperta, l’avessero infettata, rendendo così inutile l’esperimento.

    Tuttavia, ci vedevamo sovente. Il solo vederlo mi rallegrava, il suo riso giovanile e simpatico mi si propagava. Ridevo volentieri, anzi, imitavo persino il riso altrui. Ma egli evitava colloqui troppo  personali. Evidentemente non lo interessavo — al contrario di molte donne, presso le quali, senza saperlo, avevo successo. Ma in un modo o nell’altro, finivano per venirmi a noia; e davo loro assai meno importanza di quanto non ne dessero a me.

    4.

    Si crederà forse che un’avventura come quella del can barbone fuggito a metà di un esperimento scientifico, mi inducesse a rinunciare allo studio della medicina, e alla vivisezione? Nulla di più naturale. Possedevo un innato senso estetico per il bello; e avrei potuto forse dedicarmi con successo alla storia dell’arte. Ma (forse in seguito a impressioni della mia infanzia, di cui ancora debbo dire) mi sentivo attirato a sperimentare; e avrei fatto a gara con quel Walter, tipo classico dell’individuo eccessivamente pratico, il quale in una bestia non vedeva altro che un pezzo di materiale, come un falegname un bel pezzo di legno ben asciutto è senza nodi.

    Ma tutto andò bene, finchè oggetto dei miei esperimenti rimasero gli animali, e basta. È questo un punto su cui il mondo culturale chiude volentieri un occhio, come dinanzi alla guerra. Solo quando un uomo vi dovette credere, la società si ribellò, ed esercitò verso di me una critica deleteria. Quando dico che un giorno decisi di sopprimere mia moglie, che presi quella risoluzione con la stessa calma con cui sceglievo un animale per la vivisezione, ciò non significa già che a quelle due azioni io mi volgessi con perfetta calma e coscienza interamente netta. Siamo dunque d’accordo: a queste cose, non mi decisi mai senza rimorsi.

    Ma questo « rimorso » non era religioso terrore dì fronte al peccato. Non credevo in Dio. Non potevo riconoscere al mondo un senso soprannaturale, per quanto volentieri mi vi sarei adattato.

    Noi siamo troppo giovani, per un’anarchia senza fede. Migliaia di generazioni prima di noi hanno esistilo nell’ombra di una fede, e, ove per essa dovessero soffrire, se non altro hanno sofferto nell’ombra di un ordine inferiore di cose. Può darsi che generazioni future siano all’altezza di una vita senza fede; che sappiano guardare in faccia all’esistenza e riconoscerla così com’è; che non vacillino in cieca incertezza. Ma io non avevo tanta fortuna. Cieco lo ero sin da fanciullo. La mia carriera era solo in apparenza sicura e diritta — in realtà non lo era. Altrimenti, avrei vissuto solo nell’esperimenlo, e di esso? Fuori dell’esperimento la vita non mi offriva gioia; nemmeno trovavo raccordo con essa. Ma nell’esperimento? Ho trovalo appagamento, qui almeno? Purtroppo debbo dire: no.

    Certo, la parte dello sperimentatore è simile, nell’infinitesimale, a quella di Dio nell’incommensurabile.

    Così con gli animali. Così con mia moglie. Gli animali mi appartenevano, li avevo comprati; a volte, avevo persino comprato quattro scimmie in una volta, per un esperimento di innesto, pel quale non si poteva impiegare che la specie detta « rhesiis ». Nessuno poteva impedirmelo — nel mondo moderno non esistono ostacoli morali per l’indagine scientifica.

    L’animale non sa nulla del suo destino. Lo scienziato, certo, lo sperimentatore, sa ciò che avverrà. Da tempo già egli ha soppesato il proprio interesse alla causa contro l’interesse dell’animale alla propria vita e salute; e il primo ha prevalso. L’animale condannato, forse un cane che egli si degna di andar a prendere in persona nella gabbia, abbaia allegramente, alza il capo, si guarda d’attorno curioso. Irrigidito dalla lunga prigionìa, cerca di correre, tutto vispo; leva annusando le narici umide scure e già si crede che quell’uomo in camice bianco lo condurrà all’aperto, o a una ciotola di minestra. Ma l’uomo solleva la bestia per la collottola, la depone sul tavolo, le tiene fermo il torace. Sente il cuore della piccola creatura battere agitato contro le costole. Diversa è la scimmia. La scimmia è una caricatura dell’uomo. (O l’uomo è una caricatura della scimmia?). Certo è che nelle sofferenze più acute, uomo e scimmia mostrano una grande analogia…

    Ma basta ora. Può darsi che un giorno o l’altro mi decida a descrivere lo schema di uno di quegli esperimenti scientifici, durante i quali centinaia, migliaia di animali vengono sacrificati ad majorem hominis gloriam. Molti esperimenti hanno dato risultati positivi; ma migliaia di esperimenti non hanno dato il minimo risultato positivo; e per il soggetto, per l’animale destinato a soffrire è peraltro indifferente, quale servizio esso renda alla scienza.

    Può darsi che per una potenza superiore (per quanto io non riesca a prestarvi fede, ogni tanto essa s’insinua nella cerchia dei miei pensieri) noi non significhiamo più di quanto significhino per noi gatti o cani, topi, porcellini d’India, scimmie, cavalli, e persino cimici e pidocchi.

    In ogni modo, il risultato scientificamente positivo di un esperimento riempie il cuore di uno scienziato di soddisfazione immensa; e tutte le veglie, gli studi profondi, le ore di dubbio e di incertezza, le spese vive, il tempo materiale profuso, e le rinunce imposte necessariamente allo scienziato — tutto (per il momento almeno) è pagato a usura, con la coscienza del sapere, con la soluzione di un problema, con l’arricchirsi della potenza umana sulle cose…

    5.

    Finita la guerra, tornai con mia moglie, e per prima cosa, pensai a riaprire la mia clinica chirurgica e ginecologica, benchè ora, nemmeno le malattie umane mi attraessero più. Successo o insuccesso — guarigione senza reazione o no — troppo da vicino avevo veduto la futilità della vita individuale, nei combattimenti e nei lazzaretti. Prima avevo sacrificato in massa esistenze animalesche, per trovar qualcosa che servisse a guarir l’uomo, fosse pure uno solo. Ora accadeva il contrario. Gli esperimenti sugli animali erano l’essenziale per me.

    Con ogni cautela, per non destar sospetto presso mia moglie, ripresi i miei esperimenti batteriologici; sfortuna volle che due dei miei pazienti morissero, a breve distanza, dopo un’operazione « riuscita ». Secondo le leggi della coincidenza, si hanno di queste serie sfortunate, ma ecco in che cosa consisteva qui il rapporto: mi occupavo allora dell’eziologia della febbre scarlattina. È noto come le cause batteriche di quest’esantema, come di altre malattie infettive, fra cui l’encefalite letargica e la febbre gialla, siano tuttora ignote. I più geniali esperimenti, la più rigida conseguenza nel seguire tutti i metodi noti, non hanno dato alcun successo. Nessun occhio umano ha mai visto il virus della febbre scarlattina! Eppure esso esiste, si deve poterlo trovare. Ma come?

    Il fatto è ancor più singolare, perchè il decorso di questa malattia è accompagnato da altri germi patogeni, gli streptococchi, i quali sotto l’azione di preparati adatti, si presentano facilmente all’occhio entro il campo visivo del microscopio: piccole sfere in catena, che si coltivano senza alcuna difficoltà. Esse provocano infezioni, secernono veleni potentissimi; inoculati, o seguendo naturalmente la circolazione sanguigna dell’ammalato nel decorso della febbre scarlattina, producono effetti deleterî, che vanno dalla febbre alta alla morte.

    Ecco il seguito d’idee che mi si presentò come possibile: i germi provocatori della scarlattina, della febbre gialla ecc. debbono, una volta selezionati, essere così piccoli, da poter passare attraverso i più minuti pori di creta del filtro col quale si suggono le culture di bacilli. Per contro gli streptococchi, i quali esercitano, nella scarlattina, un’azione concomitante, senza avere la grossezza di una patata, presentano un diametro che si può misurare, non meno del volume e del peso; e non passano per le porosità del filtro, ma rimangono nel liquido della cultura.

    Ora, sarebbe possibile che questi germi provocatori ignoti, vivessero, allo stato di minuscoli parassiti, sui corpi molto più grandi degli streptococchi e a loro spese; e che il filtro li separasse? Forse, la cosa meritava attenzione; e mi dedicai a questa questione, feci degli esperimenti; per risolverla tanto in senso negativo, quanto positivo.

    Quanto alle mie mansioni di medico, vi adempivo nè più nè meno come a un dovere; e non trascurai nessuno dei comandamenti della profilassi, nel caso delle due operazioni già citate. Eppure… Eppure…

    Nel primo caso, si trattava di un’appendicite, durante il cosiddetto periodo freddo, cioè, non soggetto ad attacchi; un’operazione, quindi, assolutamente innocua. Eppure, già la sera stessa dell’operazione si manifestò una febbre settica, con tutti i caratteri di una febbre da streptococchi. La presenza di streptococchi virulenti nel sangue del paziente era inesplicabile per il mio assistente. A farla breve, il paziente morì. Ero stato io, involontariamente, l’apportatore di germi? Mia moglie cercò di consolarmi. Essa prendeva parte viva alla mia vita professionale, e con lei non potei tacere. Cercai di star lontano dal laboratorio per qualche settimana, e tutto andò bene. Operazioni difficilissime ebbero buon esito; i miei malati ammiravano la mia mano « leggera e felice ».

    Ma un giorno s’impose la necessità di trapiantare le preziose colonie degli streptococchi, ottenute a prezzo di tante fatiche; questi organismi, i quali nel vecchio liquido secernevano in continuazione veleni, alla temperatura costante di 37° avrebbero finito per autointossicarsi (colonia di delinquenti!), per sterilizzarsi, per distruggersi. Bisognava trasportarli in terreno vergine.

    Mi accinsi all’opera con la più gran delicatezza. Calzati i guanti di gomma, trapiantai una minuscola goccia della vecchia cultura nel vaso col nuovo liquido, per mezzo dei bastoncini di vetro che recavano in cima le anse di platino riscaldate alla fiammella a gas. Quella mia visita segreta nel laboratorio poteva esser durata da sei a otto minuti, a dir molto. Ho potuto calcolare il tempo perchè ri taxi attendeva all’uscita laterale dell’Istituto di Patologia.

    Ero ben deciso a non intraprendere nessuna operazione, nei giorni seguenti. Dopo quel lavoro, s’intende che avevo ripulito scrupolosamente le mie mani, il mio corpo, persino m’ero fatto rasare i capelli. Ma volle sfortuna, sono costretto a ripetere qui le parole di cattivo augurio, che al ritorno, mia moglie mi accogliesse con la notizia che una signora, una conoscente della mia famiglia, aveva telefonato. Si trattava di una grave emorragia intestinale; e per varie ragioni s’era ricorso a me.

    Era il secondo caso. Questa volta, la disgrazia non poteva essere « involontaria ». Avrei preferito ricusare. Ma mia moglie insisteva, e mio fratello, e specie mia sorella, che di solito badavano agli affari loro, così come lasciavano ch’io badassi ai miei, mi supplicarono di accettare. Volevo affidar l’operazione all’assistente. Proteste generali. Aveva poca esperienza, una mano pesante: ma anzitutto, si preferiva che l’operazione rimanesse segreta. Mi decisi a procedere al piccolo intervento, il quale non avrebbe richiesto più di una decina di minuti, col solo aiuto della infermiera; data la natura di esso, volevamo evitare che il mio assistente venisse a saperne. La legge è severa in questi casi. Conoscevo già la mia paziente, una rigogliosa bellezza rubensiana dai capelli d’oro; vedova, aveva un’alta posizione sociale — lo scandalo doveva evitarsi. Senza essere consenziente cedetti alla sua disperata preghiera. Pietà a sproposito! Quanto all’uomo in causa, non si fece vedere.

    Questa volta, non ero calmo come nel caso dell’appendicite. A tarda sera — o era già notte — mi recai ancora una volta alla clinica.

    Mia moglie attese al portone, nella sua automobile aperta. Aveva in grembo un cagnolino dal lungo pelo biondo, d’una preziosa razza cinese, il favorito della figlia che si trovava allora in viaggio. Oltre il letto della mia paziente, ancora sotto l’azione della narcosi, guardavo giù in istrada. La donna e il cagnolino parevano andar d’accordo. Le belle lunghe dita di mia moglie giocavano tra il pelo serico, lucido, lievemente ondulato della bestiola dai grandi occhi, assai vivace, come di solito non lo è quella razza; ora esso abbaiava, tentando di mordere il guanto che mia moglie gli tendeva. Era d’estate, il vento moveva gli alberi dinanzi alla clinica. Una bella giornata. La temperatura dell’ammalata, che la suora aveva preso nel frattempo, misurava 37,1°, temperatura normale in sè, pure, non mi abbandonava una certa inquietudine, unita a un’impressione, un contenuto della coscienza (come chiamarlo?) noto solo allo sperimentatore. Qualcosa che non era in ordine? Qualcosa di brutto? Non in ordine, dal punto di vista dell’oggetto dell’esperimento, ma qui, tutto era in ordine… Non faccio che constatare, senza commenti, il decorso dei fatti. L’operata si ammalò di un esantema simile a scarlattina. Ma il sangue persisteva libero di streptococchi. E se questa volta non avessi apportato le colture di streptococchi, ma l’invisibile virus della scarlattina? La mia teoria era dunque giusta? Alle colture di streptococchi andava ancora sempre unito l’ignoto virus?

    Difficile descrivere il mio stato d’animo nei giorni seguenti. Gli esperimenti di vivisezione ripresi in segreto e intensamente quasi tutti i giorni, i lavori al microscopio e alle colture, quando non ero al letto della povera ammalata delirante; e di notte, poichè non potevo dormire e mal sopportavo la compagnia della mia troppo ardente consorte, la bisca, dove ora mi perseguitava la sfortuna, la disdetta.

    Inoltre, la relazione con una bella, giovanissima giocatrice bionda, sulle prime null’altro che passeggero appagamento dei sensi; più tardi, la installai in uno dei primi alberghi e la circondai di un grande lusso.

    In ultimo, la morte della mia paziente, il risultato « quasi » esatto dei miei ultimi esperimenti, la tristezza di mia moglie, la quale non capiva la mia euforìa, malgrado quegli avvenimenti. Improvvisamente, il tracollo. Osservai un rossore sospetto sul mio avambraccio. Forse mi ero infettato anch’io, durante i miei esperimenti? Quasi mi sarei confidato con mia moglie. Finora, avevo taciuto. Ma tutto si risolse. Non m’ammalai, Sugli esperimenti aleggiava tuttora un gran punto interrogativo, ma in un altro campo ebbi fortuna; la ragazza m’amava. Me lo dimostrò esigendo molto da me: tempo, denaro, amore.

    Facevo quel che potevo. Il più che mi mancava era il tempo. Il denaro si può, talora, sostituirlo con l’amore, e l’amore con il denaro, ma il tempo è, in tutti i sensi, insostituibile.

    6.

    Le spese ingenti per i miei lavori, come quelle per M. (la ragazza) e le perdite al gioco, fecero sì che io cadessi in difficoltà finanziarie poco gravose nei primi tempi. L’andamento della mia casa era dispendioso, i miei guadagni poco lauti, il mio patrimonio uguale a zero. Ma riuscii a ottenere danaro; i miei compagni di bisca conoscevano degli strozzini abbastanza fidali, e per un certo tempo, pagai i miei impegni con uno di essi ricorrendo a un secondo, e rispettivamente a un terzo.

    Avessi avuto pace, almeno! Ogni minuto del mio tempo mi era prezioso. Insistei perchè mia moglie andasse in viaggio. Essa si rifiutò. Le sue tenerezze cominciavano ad assumere un carattere sempre più disperalo; raramente, ora, essa manifestava la sua natura spontanea, lieta, felice. La mia figliastra, che per un certo tempo s’era orgogliosamente appartata, ora tornava a insinuarsi. Non lasciava più la madre, e non sapeva rinunciare ai ripetuti tentativi di alienarmi mia moglie. Ma la donna matura avida d’amore, dai luminosi occhi grigi, mi si affezionava sempre più, mi leggeva ogni cosa negli occhi e tentava di passar le giornate intere vicino a me.

    Trascuravo quasi del tutto la mia clientela;

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