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Nel grembo degli dei
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E-book200 pagine3 ore

Nel grembo degli dei

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Info su questo ebook

Sono gli uomini ad aver bisogno degli dei o, viceversa, sono le divinità che non possono fare a meno degli esseri mortali per esistere?  
Da sempre si crede che gli dei abbiano creato gli uomini a loro immagine e somiglianza, ma in realtà sono gli uomini che hanno riversato nelle divinità le loro caratteristiche: ambizione, ipocrisia, vanità, desiderio del potere, proiettando sulle divinità il loro desiderio di onnipotenza e immortalità. Insomma, se gli dei sono ciò che gli uomini vorrebbero essere, i dialoghi tra loro sono dialoghi fra simili. 
Daniele Coppa, con quattro racconti laici, ripercorre i tempi in cui era frequente che uomini e donne comunicassero direttamente con gli dei e così ci riporta a Troja con Elena e Afrodite, a Tebe con il faraone Amenofi IV e Amon Ra, nella Prato del ‘300 con un mercante senza scrupoli e il Diavolo e, infine, tra le peripezie di Cristo sulla terra.

Daniele Coppa è nato e vive a Como. Si definisce scrittore, commediografo, storico e archeologo a tempo perso e laico a tempo pieno. Si occupa anche di storia della cucina e di ricostruzioni storiche legate ad essa, in particolare della cucina medioevale. Sul tema ha pubblicato Antistoria della cucina: aneddoti, leggende e bufale sulla cucina. Collabora anche con riviste del settore di cucina archeologica.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2019
ISBN9788855087476
Nel grembo degli dei

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    Anteprima del libro

    Nel grembo degli dei - Daniele Coppa

    Daniele Coppa

    Nel grembo degli dei

    EDIFICARE

    UNIVERSI

    © 2019 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it

    I edizione elettronica dicembre 2019

    ISBN 978-88-5508-747-6

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri

    Non è necessario avere una religione per avere una morale, perché se non si riesce a distinguere il bene dal male quella che manca è la sensibilità, non la religione.

    La morale di un non credente è più pura e disinteressata di quella di un credente che si comporta bene perché spera nella ricompensa e teme la punizione nell’aldilà.

    Margherita Hack

    INTRODUZIONE

    Gli dei sono lo specchio in cui gli uomini riflettono i loro caratteri: ambizione, ipocrisia, vanità, desiderio del potere, la sensazione di essere superiori a tutti gli altri e di essere gli unici a vedere le cose nel modo giusto e di conseguenza poter, così, dettare la morale. Ma anche una certa dose di umanità: gli dei qualche volta perdonano e si mostrano generosi con i loro sottoposti. Come fanno i mafiosi e i dittatori: mostrarsi ogni tanto generosi per giustificare la propria prepotenza. Ma quale morale potevano dettare, per esempio, gli dei greci e romani presi com’erano nelle loro lotte interne fatte di invidie e gelosie? O che dire del terribile e vendicativo Yahweh della Bibbia o l’Allah dei musulmani? Dei che non si fanno nessuno scrupolo nel mandare a massacrare i loro sottoposti in nome della loro stessa superbia. Sempre pronti a prescrivere terrificanti punizioni per ogni minima disobbedienza. Ma lo fanno nel giusto o, almeno, è quello che ci vogliono far credere. Tu obbedisci e avrai un grande premio alla fine, altrimenti avrai un’inenarrabile punizione. Non ti chiedono se vuoi venire al mondo: ti ritrovi qui e ti dicono che è un loro regalo, ma poi ti trattano come uno schiavo, devi dedicare a loro tutta la vita. Tra l’altro sono anche sleali: Yahweh, per esempio, promette una terra al suo popolo eletto e questa promessa non l’ha mai mantenuta, così come non ne mantiene molte altre. Le sue vendette, invece, le mantiene sempre. Basta leggere la Bibbia per vederlo. Ma ci sarà da fidarsi di loro? Ci sarà davvero questo premio alla fine? O è tutta una fregatura per servirli senza nulla in cambio? Chissà perché questi dei somigliano così tanto a certi uomini. E poi... non sembrano neanche molto più intelligenti di noi, in qualche caso si comportano anche un po’ da stupidi.

    Io non sono contro le fedi in quanto tali. Queste sono esclusivamente un fatto personale e una speranza che nessuno ha il diritto di togliere a nessuno. Io sono contro le Chiese di ogni tipo e natura. Queste sono soltanto invenzioni umane che, mascherandosi di spiritualità, pre-confezionano religioni sulla base di falsità storiche con il solo scopo di dominare i corpi, le menti e le coscienze di tutti noi.

    Così Elena di Troja e Afrodite nel primo racconto: così diverse e così simili. Sinceramente non ho mai capito le trasposizioni fatte su Elena al cinema o nell’immaginario collettivo. Di solito, la si descrive come una ragazzina innamorata che fugge dalla sua città e da un marito re e rozzo per seguire il suo amato a Troja. Eppure Omero, o chi per lui, dice chiaramente che era Elena la regina di Sparta, aveva ereditato il trono da suo padre Tindaro, e Menelao era semplicemente il principe consorte e nel governo della città non contava praticamente nulla. Allora perché Elena lascia il potere per fuggire con Paride in una città nemica della sua? Questo Omero non lo dice. Da quel grande narratore che è, lascia che sia il lettore a immaginarne i motivi. Forse per amore? Potrebbe anche essere; ma è certo che Elena, una volta giunti a Troja, il povero Paride lo tratta malissimo. Allora per calcolo politico? È plausibile. Del resto, terminata la guerra, Elena torna a fare la regina a Sparta, seppur dopo aver lasciato una serie impressionante di cadaveri alle sue spalle, compresi quelli dei suoi amati. Oppure lo fa per ambizione? Per lasciare una sua traccia nella Storia e diventare così immortale, come la sua amica\rivale Afrodite con cui si vede spesso? Già! Afrodite. Forse la più umana delle due. Potrebbero tranquillamente scambiarsi i ruoli. Elena una dea e Afrodite una donna qualunque: un poco pazza e un poco caotica come lo siamo tutti noi. Ma, in questo caso, è proprio lei a salvare il progetto della sua rivale.

    Il faraone Amenofi IV del secondo racconto è stato un personaggio straordinario. Flinder Petrie, l’archeologo inglese che ne scoprì l’esistenza e cercò di raccontarne le opere, lo definì: l’uomo che cercò di cambiare posto al cielo e alla terra. Amenofi vive e regna in un periodo in cui la Casta dei Sacerdoti di Tebe dispone di enormi ricchezze e domina tutta la scena politica e sociale, imponendo riti e tributi a tutta la popolazione. Amenofi non capisce la necessità della loro presenza, li definisce parassiti ed entra in conflitto con loro; prima, in una sorta di guerra fredda che, in seguito, si trasforma in guerra aperta. Ma Amenofi non è un ateo. Anche lui crede in una divinità, ma non quella fatta di molti dei arroganti e prepotenti che schiavizzano le persone e impongono le loro leggi, né quella che necessita di una rappresentanza sulla terra. La sua è una religione molto semplice: quella di Aton, il Sole. Il sole è la vera fonte di vita. Noi viviamo grazie a lui, egli non chiede tributi, non impone leggi né necessita di sacerdoti. Ognuno può adorarlo o non adorarlo come crede, lui sorgerà lo stesso tutte le mattine senza chiedere nulla in cambio. Per le leggi non servono gli dei e le religioni, basta la sensibilità degli uomini. Aiutato dalla moglie Nefertiti, il faraone Amenofi edifica una nuova città: Aketaton. Una città senza clero dove vige la più totale libertà di fede. È il primo e unico faraone a mostrarsi in pubblico e a scendere per le strade a parlare con la gente comune. Non vuole in nessun modo essere considerato lui stesso diverso dagli altri. Stravolge anche le arti figurative. Fino ad allora, e dopo di lui, i faraoni venivano rappresentati belli e dall’aspetto ieratico. Lui, invece, si fa rappresentare per quello che era realmente: un uomo piuttosto bruttino e fisicamente anche un poco sgangherato. Ha un aspetto clownesco, ma non se ne vergogna. Non vuole il fotoritocco, in uso anche nei tempi antichi, per mostrarsi più bello di quello che realmente è. Spesso si fa ritrarre in atteggiamenti intimi e affettuosi con la moglie, cosa inconcepibile per un faraone di quei tempi. Ma dopo un’iniziale ed effimero successo, Amenofi perde la guerra contro i Sacerdoti del Tempio e viene assassinato. La Casta dei Sacerdoti, con gli dei loro alleati, riprende tutto il suo potere e tutto torna come prima. A questi personaggi la Storia ufficiale (cioè quella scritta dai vincitori) attribuisce una sorta di Damnatio Memoriae, cioè vengono accusati di ogni perversione e nefandezza. Ma con Amenofi IV hanno fatto di peggio: è stato letteralmente cancellato dalla Storia, la sua città rasa al suolo e tutte le iscrizioni che lo riguardavano cancellate. Sono arrivati persino a falsificare le date della cronologia dei faraoni per far credere a tutti che non era mai esistito. Ma a un personaggio così affascinante (almeno per me) una piccola rivincita sugli dei gliela dovevo concedere.

    Nel 1870 a Prato, durante la ristrutturazione di un vecchio palazzo, venne alla luce un anfratto contenente bauli con oltre 140.000 lettere personali e oltre 500 tra registri e libri di conto. Era la corrispondenza e l’archivio di Francesco Datini, un mercante del ‘300 che nella sua vita accumulò una straordinaria fortuna e diventò uno degli uomini più ricchi del suo tempo. È questo il tema del terzo racconto di questo libro. Queste lettere rappresentavano una grande scoperta storica, non soltanto perché permettevano di conoscere i meccanismi commerciali di quel tempo, di cui fino ad allora non si sapeva quasi nulla, ma perché aprivano anche una finestra sulla mentalità degli uomini di quel tempo. Dalle lettere personali, quella che ne emerge, in realtà, non è la figura di un grand’uomo. Datini è un mercante avido e spregiudicato, spesso coinvolto anche in affari loschi: traffica anche merci rubate e schiavi. Ossessionato dal guadagno, non si fida di nessuno e vede truffatori dappertutto e perciò si sente autorizzato a giocare d’anticipo e truffare lui per primo. Arrivato agli ultimi anni della sua vita, è ossessionato dall’idea di finire all’Inferno per via dei suoi peccati. A sconvolgerlo è soprattutto la lettura della Divina Commedia¹, propostagli da Lapo Mazzei, suo fedele contabile e cattolico praticante. Fatto il conteggio dei suoi peccati e viste le punizioni che lo aspettano secondo il racconto di Dante, che secondo lui l’Inferno l’ha visto per davvero, Datini inizia un percorso di pellegrinaggi e penitenze per cercare di salvarsi l’anima. Questo lo porterà ad acquistare l’Indulgenza da un altrettanto spregiudicato vescovo. Resosi conto che è tutto inutile e che l’acquisto dell’indulgenza è una truffa, andrà nello sconforto più totale. Ma, a questo punto, interviene il Diavolo, che è in realtà il suo dipendente. Questi gli racconterà che la divisione tra il Paradiso e l’Inferno non è altro che il frutto di un accordo tra lui e Dio, nell’ambito di una lotta contro le altre religioni. Come Virgilio con Dante, lo porterà di nascosto a visitare il Paradiso. Qui Datini scoprirà che non è quel posto meraviglioso che si crede e non è molto diverso dall’Inferno che, di contro, non è così terribile come si crede. Vedrà che anche il Paradiso è pieno di peccatori e le anime destinate al Paradiso o all’Inferno vengono scelte casualmente. Dio è troppo impegnato per occuparsene personalmente. Cosa ci fanno in Paradiso tutti quei criminali che hanno ucciso e torturato decine di persone? E perché mandano all’Inferno persone che non hanno fatto del male a nessuno? Anche il Diavolo, che pure fa il suo mestiere, non sa esser cattivo più di tanto, ci sono esseri umani peggiori di lui, eppure riescono ad andare in Paradiso. Infatti, quando Datini morirà, sarà proprio il Diavolo a falsificare il suo testamento destinando così le sue fortune ai poveri della città.

    Ma come si possono accorpare in un’unica religione due testi così diversi e contrastanti come la Bibbia e il Vangelo? Il terribile, prepotente e vendicativo Yahweh della Bibbia cosa c’entra con l’insegnamento di Gesù Cristo (ammesso che sia realmente esistito e che abbia davvero parlato in quei termini)? Forse Gesù è davvero il figlio di Dio, e non uno e trino. Magari un figlio un po’ hippy e ingenuo di un padre autoritario e all’antica. Insomma, un conflitto generazionale tra padri e figli come succedeva spesso nelle famiglie degli anni ‘70. E se magari il Gesù\figlio hippy avesse deciso di lasciare la famiglia e scendere sulla terra all’insaputa del padre e mettersi a predicare a modo suo? Certo un poco sprovveduto lo doveva essere; mettersi da solo contro due potenze come l’Impero Romano e la Religione Giudaica, dominante in quel tempo, i guai se li andava a cercare di sicuro, e non c’è da stupirsi che abbia fatto una brutta fine. Ma poi, tornato dal padre una volta morto, come lo avrebbe accolto questi? Duemila anni di predicazione che vanno a catafascio per colpa di suo figlio. Magari lo avrebbe cacciato definitivamente di casa e costretto, così, a tornare sulla terra (e dove altro se no?) reincarnandosi in continuazione. Comunque a sistemare le cose per il Padre ci avrebbero pensato i suoi discepoli, i teologi e la Santa Romana Chiesa restituendo al Padre tutto quel potere politico ed economico che aveva prima, magari questa volta nel nome del Figlio. Il povero Figlio, invece, subirebbe, nel corso dei secoli ogni genere di soprusi ed angherie proprio da parte di quei Cristiani che lui ha costruito.

    D.C.


    1 Naturalmente Francesco Datini non ha mai letto la Divina Commedia. Questo racconto, come gli altri, è un misto di fatti storici e inventati.

    ELENA E AFRODITE

    Neubukow (Prussia) 1832 d.C.

    Ernst Schliemann era uno stimato Pastore Protestante di quella piccola città della Prussia. O, per meglio dire, era stimato perché era l’unico alfabetizzato che si era presentato per quel malpagato posto di Pastore in quello scalcinato paesotto di contadini perlopiù analfabeti. A questi avrebbe dovuto raccontare della Bibbia, ma lui di tempo sulla Bibbia ne aveva passato poco. La sua vera passione era un’altra: l’Epica dell’Antica Grecia. Quella sì che la conosceva a memoria, tanto che nei suoi sermoni intercalava il diluvio universale con la guerra di Troja finendo per confondere Abramo con Agamennone e Noè con Ulisse.

    È difficile immaginare cosa pensassero i suoi fedeli di quegli strani sermoni, ma è certo che un ammiratore, Ernst Schliemann, ce l’aveva: era il suo figlioletto Heinrich. Questi rimaneva incantato ad ascoltare per intere serate le storie di Agamennone, Andromeda, Ulisse, Achille, Ettore, Elena e Clitemnestra senza mai annoiarsi. A dodici anni le conosceva già a memoria, tanto da promettere solennemente al padre che lui, da grande, avrebbe trovato la città di Troja.

    «Guarda figliolo che sono solo leggende – gli diceva il padre per disincantarlo –. La città di Troja non è mai esistita, così come non è mai esistita la Guerra di Troja». A quei tempi questo poteva anche essere un discorso sensato da fare a un ragazzino, nulla, infatti, lasciava intendere che quelle vicende fossero realmente accadute. A parte quei testi letterari, non c’era nessuna traccia di quei fatti nei reperti archeologici. Ma quello che Ernst Schliemann non capiva di suo figlio è che questi era, come tutti i ragazzi della sua età, un piccolo visionario ma che, a differenza degli altri ragazzi, lui visionario lo sarebbe rimasto anche da grande. E gli dei hanno un debole per i visionari piccoli o grandi che siano. Soprattutto quegli dei che una volta erano immortali, ma che rischiano di morire perché sono stati dimenticati da tutti.

    Per mettersi a cercare la città di Troja, però, servono i mezzi economici e la famiglia Schliemann di mezzi non ne aveva. A peggiorare la situazione, Ernst morì quando il figlio Heinrich aveva sedici anni lasciando la famiglia in pieno tracollo finanziario. Heinrich dovette abbandonare gli studi e andò a lavorare come garzone in una drogheria. A vent’anni decise di cercare fortuna in America. Vendette la casa che gli avevano lasciato i genitori e si imbarcò. Ma la nave, dopo nemmeno un giorno di viaggio, fece naufragio. Lui venne salvato da una nave olandese che lo portò ad Amsterdam. Addio America e ora era lì, in quella città straniera, senza un soldo e senza nemmeno la possibilità di tornare al suo paese natale.

    Forse fu a quel punto che gli dei decisero di intervenire. Quel ragazzo così sfigato, senza un’aiutino, la città di Troja non l’avrebbe mai trovata. Infatti, da quel momento, le cose per lui cominciarono improvvisamente a girare tutte per il verso giusto. Conobbe una vedova ricchissima e la sposò. Grazie ai soldi di lei, aprì un negozio, poi un altro e un altro ancora. Iniziò a commerciare di tutto, con l’America, la Russia e il Medio Oriente. Gli affari gli andavano a gonfie vele. Diventò ricchissimo anche lui, uno degli uomini più ricchi del Nord Europa. Ma sembrava essersi dimenticato dell’Iliade e dell’Odissea, preso com’era a fare quattrini. Aveva

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