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Leonardo e Geltrude - quarto volume
Leonardo e Geltrude - quarto volume
Leonardo e Geltrude - quarto volume
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Leonardo e Geltrude - quarto volume

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Leonardo e Geltrude è, probabilmente, l’opera maggiormente conosciuta di Pestalozzi ed è uno dei grandi romanzi pedagogici del romanticismo. Per i suoi contenuti e la sua forza morale, è paragonato ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni così come al Wilhem Meister di Goethe. Pestalozzi si propone di elevare, per mezzo dell’educazione, le classi disagiate e derelitte alla coscienza della propria umanità, acquistando dignità grazie all’istruzione e al lavoro.
Protagonisti sono Leonardo, un muratore, e la sua coraggiosa moglie Geltrude, simbolo della dimensione familiare e materna. Geltrude, ispirata, comprende subito che per la soluzione dei problemi sociali che affliggono il villaggio di Bonnal, è necessaria la collaborazione di tutti.
Il barone Arner e il parroco Ernst rispecchiano l'impegno educativo dell'aristocrazia e della Chiesa, gruppi sociali a cui Pestalozzi attribuisce l'impegno concreto di iniziative destinate al rinnovamento morale della società. Allo stesso modo il principe incarna l'ideale pestalozziano di uno Stato educatore.
Ed è proprio nel quarto volume che Arner si impegna personalmente con il principe per far sì che l'esperienza di Bonnal venga estesa a tutto lo Stato e, difatti, nonostante alterne vicende, la riforma educativa sarà estesa a tutto lo Stato. Nel frattempo, la malattia di Arner si aggrava e nonostante le più alte cariche del villaggio provino preoccupazione e apprensione per le sue condizioni, il popolo sembra indifferente alle sorti del suo feudatario. Questo conduce Pestalozzi a sviluppare quella che viene chiamata la "filosofia del tenente", vale a dire la tendenza umana al male e di come si di importanza fondamentale un'educazione che la ostacoli.
L’educazione, secondo Pestalozzi, è la “forza comune” che collega tutto ed è identica all’amore. Alla fine dei conti si tratta di educazione e istruzione nell’amore, con l’amore, per l’amore. Come dice lo stesso Pestalozzi: “Solo nell’elevamento dell’uomo riconosco la possibilità della formazione del nostro genere stesso all’umanità. L’amore è l’unico, l’eterno fondamento dell’istruzione della nostra natura all’umanità.”

L’autore: Pedagogista svizzero (1746-1727), nato a Zurigo da una famiglia di origine italiana, è stato uno dei più importanti pedagogisti, educatori e riformatori del sistema scolastico dell’epoca illuministico-romantica. P. intende l’educazione come libera e spontanea formazione della personalità del bambino, che lo deve guidare alla luce di una coscienza morale e religiosa verso la società e la vita. Secondo il suo metodo, i bambini devono essere istruiti con attività concrete e con le realtà oggettive e devono essere lasciati liberi di perseguire i propri interessi e di ricavare le proprie conclusioni dai concetti che gli vengono presentati. Fonda e dirige numerose scuole convinto che la didattica è l’arte di agevolare l’apprendimento, operando sulla mente del fanciullo con elementi presi dalla realtà.
La sua didattica “puerocentrica” e concreta aveva come obiettivola preparazione dell’individuo all’uso libero ed integrale di tutte le facoltà per diventare utile alla società sviluppando, in anticipo su molti altri pedagogisti, una educazione olistica centrata sulla dimensione intellettuale (mente), etica (la formazione del “cuore”), tecnica (formazione della “mano”)
LinguaItaliano
Data di uscita13 giu 2018
ISBN9788833260259
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    Leonardo e Geltrude - quarto volume - Johan Heinrich Pestalozzi

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    Johan Heinrich Pestalozzi

    LEONARDO E GELTRUDE

    quarto volume

    I grandi dell’educazione

    KKIEN Publishing International

    info@kkienpublishing.it

    www.kkienpublishing.it

    Titolo originale: Lienhard und Gertrud, 1781.

    Traduzione dal tedesco di Stefania Quadri aggiornando quella di Giovanni Sanna del 1928.

    In copertina: dipinto raffigurante Pestalozzi nella scuola di Stans

    Prima edizione digitale: 2018

    ISBN 9788833260259

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    Table Of Contents

    CAPITOLO I.

    Comincia ad apparire il sole.

    CAPITOLO II.

    Segue pioggia.

    CAPITOLO III.

    Intorno all’educazione dei nobili. Intorno ai diritti nobiliari; e un poco anche intorno ai diritti dei contadini.

    CAPITOLO IV.

    Il ragno lavora bene alla sua tela.

    CAPITOLO V.

    Il ragno crede di averlo colto nella sua rete come una mosca; ma la mosca vi passa attraverso e strappa i fili.

    CAPITOLO VI.

    Il cuore dà colore a tutto ciò che l’uomo vede, sente e sa.

    CAPITOLO VIII.

    La saggezza degli antichi e la lingua dei moderni.

    CAPITOLO IX.

    Ciò che m’induce a tacere.

    CAPITOLO X.

    Credetemi, un tal uomo è utile — ma credetemi anche, non lo può usare ognuno.

    CAPITOLO XI.

    Il compenso del peccato è certamente la morte; ma la falce non sempre coglie il vero peccatore.

    CAPITOLO XII.

    Anche la grandezza di un domestico è grandezza umana.

    CAPITOLO XIII.

    Vi sono stati d’animo, che possono aiutare una persona a prender l’angina.

    CAPITOLO XIV.

    Intorno al bruciare le carte e al ritornare in se stessi.

    CAPITOLO XVI.

    Il vecchio è buono; e quindi agli occhi del fanciullo i suoi errori scompaiono.

    CAPITOLO XVII.

    Voi conoscete gli animali, che per lo più mangiano appaiati a un truogolo; e qui troverete qualche cosa di simile.

    CAPITOLO XVIII.

    Ti diverte, amico? Benone! Ma non sostenere poi che nella natura umana non vi sia alcuna tendenza alla ferocia!

    CAPITOLO XVIII.

    Intorno alle espressioni del popolo e al suo vero vantaggio.

    CAPITOLO XIX.

    Sentimenti del popolo in fatto di delitti, e conseguenze giudiziarie di essi.

    CAPITOLO XX.

    Il cuore è tocco e nascono pensieri di conversione.

    CAPITOLO XXI.

    Tra gli uccelli, il lamento dell’usignolo è il più bello; ma tra gli uomini è assai migliore un altro tono.

    CAPITOLO XXII.

    Come son diverse negli uomini le manifestazioni delle stesse impressioni.

    CAPITOLO XXIII.

    Immortalità e verità. Germania e Asia.

    CAPITOLO XXIV.

    Il gentiluomo cristiano; storia monastica dell’età della cavalleria.

    CAPITOLO XXV.

    Massime per l’educazione della nobiltà.

    CAPITOLO XXVI.

    Molte persone desiderano la morte di Arner.

    CAPITOLO XXVII.

    Ciò che persuade la Meyer a fidanzarsi.

    CAPITOLO XXVIII.

    Equivoco.

    CAPITOLO XXIX.

    Il fidanzamento di una matrigna.

    CAPITOLO XXX.

    Se mangi del sale, ti vien sete.

    CAPITOLO XXXI.

    Due cuori di maestri di scuola.

    CAPITOLO XXXII.

    Comincia a vedersi che l’albero ha messo radici.

    CAPITOLO XXXIII.

    Un fantastico che accede ad una verità religiosa, e un parroco, che sul pulpito dimentica se stesso, e parla soltanto da uomo.

    CAPITOLO XXXIV.

    Un ministro di Stato nel villaggio.

    CAPITOLO XXXV.

    Una domestica chiede congedo benservito alla graziosa padrona.

    CAPITOLO XXXVI.

    Il ministro di Stato nella scuola e presso il maestro.

    CAPITOLO XXXVII.

    Manifestazioni di gioia e d’amicizia e punizione d’un calunniatore.

    CAPITOLO XXXVIII.

    Storia di passione d’un uomo che aveva buon cuore, ma non conosceva bene il mestiere, che doveva fare.

    CAPITOLO XXXIX.

    Massime del collo grosso, che si rassomiglia al diavolo della Fisiognomica di Lavater.

    CAPITOLO XL.

    Doppia differenza fra cose e fra uomini.

    CAPITOLO XLI.

    La filosofia del mio tenente e quella del mio libro.

    CAPITOLO XLII.

    Concordanza della filosofia del mio tenente con la filosofia del popolo.

    CAPITOLO XLIII.

    Idee del popolo circa il furto.

    CAPITOLO XLIV.

    Filosofia popolare circa l’istinto sessuale.

    CAPITOLO XLV.

    Se voi non diventerete come uno di questi piccoli, non entrerete nel regno del Cielo.

    CAPITOLO XLVI.

    La testa e il cuore prendono ugualmente la mano all’uomo, che non li domina itene entrambi.

    CAPITOLO XLVII.

    Chi è soltanto tuono, non può governare, e non deve mai e poi mai voler essere podestà.

    CAPITOLO XLVIII.

    La festa di Arner.

    CAPITOLO XLIX.

    Verità nuziali per mendicanti e per legislatori.

    CAPITOLO L.

    Morte di Hummel.

    CAPITOLO LI.

    Legislazione di Arner.

    CAPITOLO LII.

    Arner continua con le sue massime a prender di petto il vizio preferito dell’età nostra: la pigrizia.

    CAPITOLO LIII.

    Forma del processo giudiziario stabilita da Arner per il suo tribunale inferiore di Bonnal; si parla anche dello spirito dei contadini, del loro ordine, della vita e dei bisogni del villaggio, in relazione agli scopi fondamentali del governo rurale.

    CAPITOLO LIV.

    Legislazione di Arner contro il furto.

    CAPITOLO LV.

    Leggi di Arner contro l’impulso sessuale.

    CAPITOLO LVI.

    L’influenza di questa legislazione sull’amore della gioia e sull’inclinazione alla tranquillità e all’onore.

    CAPITOLO LVII.

    Religione.

    CAPITOLO LVIII.

    Superstizione e idolatria.

    CAPITOLO LIX.

    Come Arner preserva il popolo dalla superstizione.

    CAPITOLO LX.

    Una parola intorno alla necessità del culto divino se si vuole illuminare veramente il popolo.

    CAPITOLO LXI.

    La forma della festa istituita da Arner si fonda sullo spirito e sul sistema di vita dei contadini, e nello stesso tempo congiunge i fini di un saggio legislatore con quelli di un pio maestro di religione, ed è basata sulla condizione individuale di coloro

    CAPITOLO LXII.

    A questo io miravo sin da principio, lettore; e se tu dici di no, devi tornare indietro, e dir di no anche a molte delle cose che precedono.

    CAPITOLO LXIII.

    Arner abbatte la forca, fonda uno spedale, e manda contento il boia.

    CAPITOLO LXIV.

    Quadro del mondo nella confusione degli errori e delle false deduzioni.

    CAPITOLO LXV.

    Il cicaleccio sulle cose di Arner, che si è propagato così forte e per tanto tempo, finirà bene.

    CAPITOLO LXVI.

    Tiro birbone, che però fa cilecca.

    CAPITOLO LXVII.

    Consolazione di Arner, e conversazione che bene intitolarsi: Guarda che principe!

    CAPITOLO LXVIII.

    Mene mene tekel upharsin.

    CAPITOLO LXIX.

    Conoscete il gioco: il mio mulino va, il tuo mulino sta.

    CAPITOLO LXX.

    L’autore fa la recensione al suo libro, i signori della Commissione fanno il loro rapporto al duca.

    CAPITOLO LXXI.

    L’autore sa in precedenza che gli ecclesiastici, abituati al vecchio trotto, non sono d’accordo con lui.

    CAPITOLO LXXII.

    Gli altri ceti continuano ad approvare l’autore fino alla fine della recensione del suo libro.

    CAPITOLO LXXIII.

    Anche questo è noioso per coloro che non pensano all’universale, e costoro sono molti.

    CAPITOLO LXXIV.

    Il tenente mostra ancora quasi a volo ciò che egli sarebbe stato capace di fare in una sfera più elevata, e l’autore conclude il suo libro.

    AL SIGNOR FELICE BATTIER FIGLIO IN BASILEA

    Amico!.

    Tu mi trovasti come pianta calpestata sulla strada — e mi salvasti dal calcare dei piedi umani.

    — Di questo io non parlo. —

    Leggi, amico, queste pagine! Con esse io conduco a fine il mio ideale di governo del villaggio. — Cominciai nella casupola d’un donna oppressa e col quadro della grande depravazione del villaggio, e termino con la rigenerazione di esso. —

    Quando io cominciai, la patria disse fortemente e concorde che il quadro del povero tugurio e della depravazione è verità. — L’uomo che governa il timone dello Stato e l’operaio giornaliero del villaggio a una voce hanno detto che le cose stanno così!

    Era il quadro della mia esperienza — non potevo ingannarmi.

    Quindi io mi inoltrai, risalendo verso le sorgenti del male. Non mi accontentai di dire: — le cose stanno così; tentai anche di mostrare perché stanno così, e come si può fare perché vadano altrimenti.

    Il quadro si ampliò. — La casupola della povera donna dileguò nella rappresentazione progressiva del tutto.

    A questo fine si richiedevano molte cose. Dovevano esporsi i vizi del villaggio in tutti i loro rapporti,  come già gli errori di Leonardo e di Hummel.

    Si doveva toccare l’abuso dell’influenza religiosa — e gli errori della legislazione; si dovevano rivelare gli ostacoli che si oppongono al progredire della vera educazione umana e mettere a nudo le sorgenti di essi.

      Occorreva mettere in rilievo, in maniera adatta alle vere condizioni del popolo, le difficoltà che si frappongono ad un miglior governo di esso, e svolgere e mettere in chiaro, collegandosi a tutte le sue condizioni di vita, la possibilità di mutarne tutta l’anima.

    Occorreva rivelare lo spirito del servizio dello Stato — l’intimo scopo finale del governo di quest’ultimo e così pure lo spirito del servizio dell’altare e l’influenza del reale governo di esso; e per entrambi, in ogni ramo della rispettiva influenza, bisognava dimostrare che cosa questo servizio potrebbe e dovrebbe essere e non è. —

    Dovevano recarsi giù nelle più umili capanne le vere massime dell’ordine sociale, attraverso il turbinio di mille ostacoli e tutto ciò doveva farsi attenendosi in ogni punto a reali concetti e sentimenti popolari, e in ogni punto l’intimo sentire della più umile umanità doveva rimaner vicino alle immagini che io disegnavo per eccitarla ad aiutarsi.

    Volevo condurmi a cuore aperto così col popolo come coi suoi signori, e riavvicinare i due elementi mediante una miglior conoscenza della reciproca verità insita nei loro rapporti.

    Questo ho tentato di fare; e le cose più essenziali, fra quelle che dico, le ho vedute. —

    E molto di ciò che consiglio l’ho anche fatto. — Io ho perduto la felicità della mia vita nello sforzo impostomi col tentativo di educare il popolo — e ho osservato, come forse nessun altro, le vere condizioni del popolo, come pure i mezzi atti a modificarle, così nel loro complesso come nelle infinite peculiarità delle svariatissime condizioni particolari, sempre separatisi dal tutto e operanti isolatamente. — E la via da me intrapresa non è stata mai percorsa; nessuno aveva finora tentato di trattare quest’argomento sotto gli aspetti che l’ho trattato io — tutto ciò che io dico si fonda essenzialmente, sino nei minimi particolari, sulle mie esperienze reali.  Senza dubbio io errai nei miei tentativi pratici; ma appunto questi errori della mia vita attiva mi hanno permesso d’imparare quello che non sapevo, allorchè agivo.

    Leggi, amico, queste pagine, e accetta i miei ringraziamenti per i concetti più importanti di esse, che senza di te non sarebbero mai giunti a tanta maturità, e permetti che a proposito di essi io ti dica, che non conosco nessun altro, dal quale io abbia appreso quanto da te, e il cui giudizio abbia per me tanto peso, nei riguardi dei punti più importanti riflettenti l’istradamento del popolo, quanto il tuo.

    Amico! mi sento ancora addosso il peso delle mie esperienze — vivo ancora nel sogno, nell’immagine di quest’azione, e l’impulso verso questo scopo non cesserà d’agire in me, finché avrò respiro — e finché avrò respiro, non mi sentirò nella mia sfera, finché non potrò effettivamente agire per il conseguimento dei primi scopi della mia vita.

    Conservami la tua amicizia! Io sono sempre con animo grato e affettuoso

    il tuo

    P**

    CAPITOLO I.

    Comincia ad apparire il sole.

    Abbiamo fatto un passo avanti — ecco le parole con cui terminavo. E ricomincio.

    Quando Arner rincasò, trovò sul leggìo due lettere. La prima che aprì era del conte Bylifsky, così concepita:

    Carissimo! Il duca è incantato di tutto ciò che vai facendo. Non può saziarsi di leggere l’ultima tua lettera, e non me l’ha ancora restituita, vuole farti dipingere dal nostro Menzow nell’atto che tu stai a terra nel giardino della parrocchia circondato dalle fanciulle di Bonnal; e ha detto di voler porre questo quadro nella cameretta, ch’egli chiama il suo cantuccio, e nella quale non si trova ancora alcun ritratto, all’infuori di quello il cui originale a te sembrò somigliante nel collo e negli occhi a quella brutta testona che è stata disegnata dal Füssli nella Fisiognomica del Lavater{1} —e accanto a questo ora vieni tu, anima buona, proprio dirimpetto. Che mai farai tu su quella parete precisamente dirimpetto a questa testa? E che penserà il duca, se sentirà questo contrasto — che forma certamente una satira al suo governo — come certamente lo sentirà? — Il tempo sarà maestro. Amico, adesso si parla di te a Corte, e naturalmente tu sei già odiato dall’uomo, cui non va a genio ogni cosa che spinga il duca a ricordarsi del genere umano. Egli dice ad alta voce, che questo pensiero del duca non è salutare, e tuttavia lo consiglierà a soddisfare il suo desiderio di venire ad osservare di persona le tue istituzioni; ma io farò ancora rimandare a lungo. Se vi è mezzo, perché tutto ciò che tu hai fatto finora vada rapidamente in fumo, è questo: che il duca ne faccia una questione di Stato, prima che tu rabbia portata a fine come questione privata. Questo potrebbe essere il desiderio di Helidor, ma egli non avrà la soddisfazione di veder staccare per questa via il tuo ritratto dal Gobelin grigio, al quale gli piacerebbe tanto di rimanere appeso egli solo. Se tu vi fossi già! Tu lo meriti più di chiunque! Tu vivi nella tua innocenza come un fanciullo e non sai nè chi sei, nè che cosa fai; e anche a noi qui accade lo stesso, ma in ben altro senso.

    Il tuo tenente vale tant’oro; digli da parte mia che porti a compimento la tua intrapresa e che non abbia disgusto, finché è necessario, a mostrarsi guidatore di se stesso così sicuro e così grande anche su una staffa così umile.

    Che fanno i tuoi ragazzi? E Teresa? Salutamela, e dille che io non frequento più i circoli di Corte, dacché è volato via il cigno, di cui le nostre oche si ricordano ancora con invidia{2}. Stammi bene, e rispondi presto. Adesso devo quasi pregarti per aver tue lettere, come se anche prima non fossi già tanto contente di riceverne....

    Ciò che ti auguro, amico mio, è che la tua felicità non rassomigli mai alla mia; giacché me ne sento opprimere anche le spalle.

    Bylifsky.

    CAPITOLO II.

    Segue pioggia.

    La gioia causata da questa lettera fu distrutta dall’altra, che proveniva dallo zio del barone, generale Von Arnburg, il quale preannunziava una sua visita di alcune settimane insieme con sua nipote Silvia.

    Non è che fossero spaventati di lui. Era un buon vecchio, che impiegava tutta la mattinata fra la sua cioccolata e il suo abbigliamento, senza dar noia a nessuno, ed era contento purché gli si tenesse compagnia dal sonnellino pomeridiano fino a cena.

    Ma di Silvia erano atterriti davvero. E sarebbe avvenuto lo stesso, dovunque il generale l’avesse condotta. Infatti, all’infuori di lui, non vi è persona, che la conosca, e che non si spaventi di passare alcune settimane sotto lo stesso tetto con lei; e del resto se ne spaventa anch’egli. Ma era la figlia di sua sorella, e se n’era caricato per compassione.

    Guastata in gioventù da un padre dissipatore che l’aveva allevata come una principessa, ella aveva tutti i difetti di chi non sa come si guadagni il pane; e caduta d’improvviso, alla morte di lui, in povertà e in dipendenza, ella ora odia chiunque si trova in migliori condizioni di lei, e adopera l’unica specialità ch’essa abbia, il suo maligno spirito, per amareggiare tutti coloro che invidia. Tutto il suo essere è contorto. Non si vergogna di nulla. Quando parla, l’innocenza ne soffre o arrossisce. Odia tutto ciò che procede per la via diritta, e disprezza tutto ciò ch’è naturale, non obliquo e non contraffatto. Questo è il tipo. Quando si parla di una donna incinta, sputa per terra, e dice: — Questa stupida non avrebbe potuto avere un po’ più di giudizio e astenersi dal mettere al mondo un’altra creatura miserabile? 

    La persona che si porta insieme ha molti punti di somiglianza con lei, senza tuttavia raggiungerla. Essa le dà il titolo di amica, io penso, finché la dura, giacché quest’amicizia è pagata con un salario annuo; e la si chiama Aglee. Entrambe sono venute poco volentieri in campagna, e per ben due anni avevano fatto di tutto per distogliere lo zio da questo viaggio; ma quest’anno non vi erano riuscite, e quindi, oltre ai loro caratteracci, portavano anche questo malumore.

    Rollenberger fu il primo nel quale si abbatterono. Egli col suo Carlo stava in giardino a mettere in ordine su una panca certi semi di fiori, allorché quelle due subito la mattina dopo il loro arrivo si misero a sedere al suo fianco con tale piglio francese, che metà dei semi caddero per terra.

    Carlo, che in vita sua non aveva mai visto una contadina mettersi a sedere a quel modo su una panca piena di cose, fece loro certi occhi, che non aveva mai fatto a nessuna contadina, e aveva già a metà aperto la bocca, quando vide che il signor Rollenberger gli faceva cenno. Allora richiuse la bocca e senza dir una parola, andò via, ma si vedeva bene ch’era corrucciato: era diventato tutto rosso.

    Silvia si volse verso Aglee burlandosi di questo rossore; e quindi domandò a Rollenberger che cosa mai insegnava, giacché le sembrava ch’egli dovesse sapere press’a poco niente. Punto da questa domanda egli rispose di sperare, se le signore si fermavano lì un poco, che avrebbero visto esse stesse. Ella insistette, domandandogli se aveva una biblioteca, e dove studiava.

    Non abituato ad esser interrogato così, e non sapendo dove andassero a parare queste domande, il maestro per qualche momento stette muto. Poi, guardandola fissa, rispose: — No, non ho studiato in nessuna parte, e non posseggo biblioteca.

    Essa naturalmente non gli restò in debito dello sguardo, e continuò a domandargli se era stato precettore in qualche altra casa. Egli rispose: — Sì, in una di dodici ragazzi.

    Lei. E che cosa ne ha fatto?

    Lui ( dopo essere rimasto un poco stupefatto). Dei fanciulli per bene, dei quali grazie a Dio nessuno ha avuto mai a lamentarsi.

    Lei. Dove sono questi ragazzi?

    Lui. A casa loro, dal loro babbo.

    Lei. Davvero? — E chi è il loro babbo?

    Lui. Il podestà di Eleberg.

    Lei. Voglio ben credere, che Lei sia in grado di tirar su a un podestà di contadini tutto un gregge di ragazzi; ma mio cugino è uno sciocco, e non sa quale specie di educazione occorre per il suo grado. E Lei non avrebbe dovuto andare in cerca di questo servizio.

    Lui. Non ho mai cercato servizio (pronunciando lentamente quest’ultima parola).

    Lei. Eh, già, le saranno corsi dietro per questo servizio (pronunciando questa parola con asprezza e lentamente, per rifare il verso all’altro).

    E continuò ancora a lungo su questo tono. Al buon uomo sudavano perfino le punte delle dita; ma finalmente non poté più contenersi. Quando sentì farsi per la terza volta la domanda, che cosa mai poteva capire egli e sapere al mondo, da insegnare ai ragazzi, rispose: — Debbo dunque dirle tutto quello che so?

    Ella rispose: — Ma principi dunque una buona volta a dire qualche cosa!

    E lui allora: — Ebbene; — so ingrassare vacche e buoi; so rivoltare il terreno e seminarlo; so coltivare

    prati irrigui e campi di trifoglio; m’intendo di manutenzione di boschi montani e di foreste; so fare i conti così coi contadini, come coi signori, e quando mi si confida una cosa, faccio onore al mio impegno dal primo momento all’ultimo.

    Questa risposta fece scattare la dama dal banco. — In vita mia non ho mai visto un idiota con la lingua così lunga — disse nell’andar via ad Aglee. Questa le replicò: — Non lo chiami così, le ha dato una lezione.

    CAPITOLO III.

    Intorno all’educazione dei nobili. Intorno ai diritti nobiliari; e un poco anche intorno ai diritti dei contadini.

    Per vendicarsi, ella raccontò tutto il colloquio ad Arner, naturalmente con aggiunte, e poi anche in presenza del generale, giacché sapeva che costui, fanciullescamente geloso dei privilegi della nobiltà, era persuaso che non si poteva mai fare abbastanza per educare un fanciullo di casata nobile diversamente dagli altri. E naturalmente il generale trovò che il nipote non aveva ben provveduto con questo precettore, e che il fanciullo non sarebbe stato educato convenientemente al suo grado e ai suoi alti diritti.

    Mentre così diceva, Silvia lo interruppe e disse: — Eh, zio, il cugino non apprezza troppo questi alti diritti; li apprezza tanto poco, che ha rinunziato al passaggio attraverso le rupi, che avrebbe raddoppiato il valore del castello, e che suo nonno aveva con tanta fatica conquistato sui contadini, come se non vi avesse alcun diritto; ma così può aver la soddisfazione di fare un regalo ai cari contadini e al loro caro bestiame.

    Arner, amareggiato da questo tono e da queste insinuazioni, rispose breve e asciutto: — Essi non mi dovevano dare questo passaggio.

    Silvia. Per altro la Corte ha pronunziato giudizio contro di loro.

    Arner. È stata un’ingiustizia commessa contro di loro.

    Silvia. Oh, bella!

    Generale. Ma come va che è stata commessa quest’ingiustizia?

    Arner. Essi hanno documenti in tutta regola, che provano come i contadini non sono tenuti a cedere quel passaggio.  Silvia. E come mai allora hanno perduto il processo?

    Arner. Solo per questa piccolezza, che nell’ufficio competente sono stati fatti sparire i documenti, cioè, per dirla chiara, si è nettamente rifiutato di consegnarli loro.

    Silvia. Ed Ella poi li ha loro riconsegnati?

    Arner. Si capisce, e inoltre li ho confermati.

    Generale. Questo poi è troppo.

    Arner. perché, caro zio?

    Generale. I tuoi figli e nipoti potrebbero pensarla diversamente da te, e non si deve mai lasciar sfuggir di mano un potere, che si ha; quando si crede di non avervi diritto, non lo si usa, per quanto tempo si vuole, e ce n’è già abbastanza.

    Silvia. Come viene educato Carlo, è certo che non la penserà mai diversamente.

    Il generale replicò: — Questo poi non ha che vederci.

    E Arner: — Zio, il miglior partito è senza dubbio quello di lasciare a ciascuno i propri diritti, come noi si vogliono rispettati i nostri.

    Sìlvia replicò: Questo discorso non calza. I contadini non hanno diritti; i loro diritti sono soltanto concessioni graziose dei signori.

    Generale. Però neanche questo è completamente vero.

    Arner. E se anche fosse vero, per me non avrebbe alcun peso. I contadini fanno facce così brutte, quando si vedono spogliati dei loro diritti, che io non vorrei avere neppure un cavallo nella scuderia, che scuotesse il capo e torcesse il muso e facesse gli occhiacci, come quelli là.

    Silvia. Non si può paragonare l’ordine dei cavalli con quello dei contadini.

    Arner. Credete forse che non si possa andar avanti, se si trattano i contadini altrettanto bene dei cavalli?

    Silvia. Per conto mio, potete pure far la prova, e allora vedrete. 

    Questo discorso dava fastidio allo zio. Egli era malcontento di entrambi, e giacché si trattava di cavalli, si recò nella scuderia, per vedere che cosa faceva il suo Brunello. Infatti il suo palafreniere il giorno prima gli aveva detto che la bestia aveva male ad una zampa.

    CAPITOLO IV.

    Il ragno lavora bene alla sua tela.

    Esse non temevano nessuno e niente, fuori che gli occhi e il silenzio del tenente. Sentivano bene, ch’egli avrebbe potuto parlare, se avesse voluto. E quindi cercarono di farlo saltar via dal castello alla prima occasione; e quando seppero ch’egli nella scuola tagliava i capelli e le unghie ai ragazzi, misero presto a posto l’affare.

    Appena si trovarono nuovamente a tavola, la Aglee, quando egli come al solito le porse il piatto, si tirò indietro con la seggiola scostandosi. Egli non sapeva di che cosa si trattasse, tutti i commensali rivolsero gli occhi verso loro, e Silvia disse forte e in modo da farsi ben capire, che si trattava soltanto di questo, che la sua amica era delicata di stomaco, e che il suo signor vicino nella scuola tagliava le unghie e i capelli ai ragazzi.

    Il tenente si levò, prese il bastone e il cappello e si ritirò in camera sua. Il generale lo chiamò, dicendogli che non se la prendesse così, e che si trattava di baie da donne; ma Silvia disse altrettanto forte: — Lasciatelo andare; è questo proprio quello che noi vogliamo.

    Arner s’era levato anch’egli, chiamò i valletti dalla tavola presso cui aspettavano ordini, e ancora dalla stessa stanza comandò loro di attaccare sul momento la sua carrozza, e recatosi poi nella camera del tenente scrisse con la matita questo biglietto al parroco di Bonnal: — Ho qui con me dei tipi, che non meritano nome di persone umane; e finché costoro non avranno sgombrato, non posso tenere con me persone limane —  e spedì il caro uomo a Bonnal con questa lettera di carico. Quando lo aiutò a montare in carrozza, gli disse ancora: — Ciò che mi dispiace, mio caro, è che non posso venir con voi.

    A tavola ora tutto era silenzio, e si sarebbe udita volare una mosca; ma Carlo disse a mezza voce a Rollenberger: — Adesso nessuno può più dire una parola! Ma questo non è giusto; tutti sanno che razza di ordine hanno le signorine nella loro camera, e come vi sono sparsi in ogni angolo ogni sorta di capelli e di pettini e simili; si vada dunque a vedere nella camera del tenente se si trova tutto questo.

    E così ogni giorno v’era qualche cosa di nuovo. Carlo ogni giorno domandava a mammà: — Quando dunque se ne vanno via?

    Povero Carlo! ne vedrai ancora delle belle, prima di quel momento. — Il generale vuol far qui la cura dell’acqua di Selz e l’ha appena incominciata; ma essa non gli può far bene, e non gli dà alcuna soddisfazione; Silvia guasta tutto.

    Per far loro onore, Arner aveva messo in ordine tutta la dimora da cima a fondo, aveva fatto ripulire la scuderia, gli arnesi da caccia, i finimenti delle carrozze e dei cavalli, e Teresa aveva fatto portar vìa dal cortile e tenere in luogo chiuso i polli e ogni altro animale; inoltre, sempre per un riguardo agli ospiti, non s’era dato il concime al giardino e all’orto, sebbene fosse quello il momento giusto, e invece erano stati ricoperti di sabbia tutti i viali. Inoltre quasi ogni giorno i castellani avevano procurato società agli ospiti, o lì conducevano in carrozza, e sempre a far visita a qualche altro castello, non già in case di parroci e di borghesi, perché non avessero a lagnarsi di nulla. Ma era tutto inutile; Silvia s’era fitta in capo di dar noia ai castellani, e ogni giorno faceva osservare al generale mille cose, che ferivano il suo orgoglio nobiliare, mostrandogli quasi ogni ora qualche cosa, ch’essa non riteneva conveniente al loro grado. E ben presto ella ebbe condotto il vecchio a punto tale, che questi non poteva più soffrire ai sentire da Arner neppure una parola sulla scuola, sul tenente, sul parroco di Bonnal, e ogni giorno gli diceva: — Tu ti tormenti per cose che non ti spettano e ti carichi di persone, che non ti fanno alcun onore; e non puoi neanche rimaner sano, dato il modo con cui ti agiti tutto il santo giorno. Invano l’altro gli rispondeva che queste faccende non lo affaticavano, che le faceva di buon grado. Si vede dalla tua cera, rispose il vecchio, che non stai bene; e l’unica causa sono appunto questo tuo affaticarti e le noie giornaliere ch’esso ti procura. Tutto questo affliggeva Arner, il quale, per liberarsi dal tormento, disse allo zio, devoto cortigiano, che non dipendeva più da lui di occuparsi o no di quelle faccende, che ormai n’era informato anche il duca, il quale le riteneva importanti, e che anzi egli doveva abbastanza spesso inviare in Corte relazioni, che andavano nelle mani di Sua Altezza medesima.

    Allora la cosa è diversa, se ne è informato il duca — allora la cosa è diversa — disse ora il vecchio, e ne fu tanto contento, da non pensar più che poteva soffrirne la salute del nipote.

    CAPITOLO V.

    Il ragno crede di averlo colto nella sua rete come una mosca; ma la mosca vi passa attraverso e strappa i fili.

    Egli ripeté per ben quattro volte: — Allora la cosa è diversa — e si recò subito nella camera di Silvia per dirle lo stesso, e che il duca era informato, per cui lei doveva aver prudenza. Ma colei gli rise in faccia e gli rispose, che se in tutto questo vi fosse stato il minimo fondo di verità, essa avrebbe dovuto saperne; ma poteva assicurarlo, che tutto quello che a Corte si sapeva intorno al buon cugino era soltanto che egli era un pazzo.

    In questo momento tu però non puoi affermarlo — disse il vecchio. E lei: — Ecco — Voi sapete certamente, giacché io ve lo raccontai cinque settimane fa, che Helidor, quando io gli accennai al vostro viaggio, mi domandò che cosa mai venivamo a far qui, dicendo che Arner è uno dei più grandi visionari del mondo.

    Questo è vero, rispose il generale, ma egli si trova in buoni termini con Bylifsky.

    Che monta? — replicò Silvia, Bylifsky per il duca è soltanto il cavallo del legno, ma. il cocchiere è l’altro; e Bylifsky che sa bene che cosa rappresenta l’altro, tiene troppo al suo posto per permettersi di parlare al duca di cose, che ripugnano a Helidor come veleno.

    Credi dunque, che il duca non ne sappia proprio nulla, e che mio nipote abbia voluto soltanto darmela ad

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