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L'odissea di Timoteo
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E-book275 pagine4 ore

L'odissea di Timoteo

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Fantasy - romanzo (213 pagine) - Tra mito classico e fantascienza, una rilettura dei viaggi di Ulisse che trasforma i ciclopi in enormi robot e le sirene in temibili aliene venute dallo spazio per sedurre gli uomini.


Sono passati più di vent'anni dal ritorno di Ulisse in patria. Timoteo, che insieme a lui ha combattuto a Troia ed è l’unico sopravvissuto dopo il viaggio di ritorno, scopre che gli aedi cantano il falso. Esaltano Ulisse come fosse un eroe valoroso quando in realtà è altro e Timoteo lo sa bene, visto che ha vissuto sulla propria pelle quelle stesse avventure che il canto mistifica e abbellisce in poema. Ulisse era un codardo e le mitiche creature in cui si è imbattuto come Polifemo, Circe o le sirene, erano forme di vita aliene atterrate per un motivo preciso sulla Terra, minacciata da Daigon Troll, il più pericoloso criminale ricercato dalla Federazione spaziale.

Nel raccontare la “sua Odissea”, Timoteo allarga l’orizzonte omerico oltre il mare e le stelle, in un’avventura che supera i confini dell’universo per confrontarsi con un nemico alieno ben più arduo da abbattere che le mura di Troia. La sua mente, scettica di natura, condizionata dal mito e dalla superstizione per limite storico, deve confrontarsi con una realtà che non può che farlo sentire smarrito, rendendolo un eroe contemporaneo al lettore.


Alberto Grandi è nato a Milano dove si è laureato in Lettere Moderne all’Università Statale. Giornalista professionista, ha collaborato con numerose testate come Vanity Faire, GQ e Jack scrivendo di nuove tecnologie, videogiochi e letteratura, con particolare riguardo alle nuove forme narrative online e ai fenomeni del self publishing e delle writing community.

Nel 2014 ha fondato Pennematte, un social network per autori e lettori della rete che organizza concorsi di racconti di genere prevalentemente fantasy e sci-fi e pubblica news sulla passione di scrivere e l’attualità letteraria. Dal 2009 è redattore fisso per Wired Italia dove si occupa, tra le altre cose, della sezione “Idee” del sito in cui sono raccolti gli editoriali riguardanti i fatti del giorno.

Ama scrivere e leggere. Crede fermamente che la narrativa sia una tecnologia di viaggio alternativo. Quando non legge viaggia con sua moglie che è greca e lo porta per le isole del Mediterraneo.

Questo è il suo primo romanzo.

LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2018
ISBN9788825405163
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    L'odissea di Timoteo - Alberto Grandi

    romanzo.

    Capitolo 1: Troia

    Sono un vecchio marinaio che aspetta la morte allo stesso modo di come ha affrontato la vita: scrutando l'orizzonte.

    Mi trovo sull'isola di Zacinto. È qui che il mio re Ulisse ha scelto che trascorressi gli ultimi anni. Come dono per essergli rimasto fedele, mi ha dato una casa, cinque schiavi, qualche ettaro di terreno e del bestiame. Me la passo bene, forse troppo. Chi è stato per mare come me, sa accontentarsi e, anzi, l’agio gli viene a schifo e alla fine rimpiange la fame degli anni di navigazione. Ma forse l’agio mi viene a schifo perché fa parte della vecchiaia come la fame faceva parte della giovinezza e, inutile prendersi in giro, la più ricca delle vecchiaie non vale la più miserabile delle giovinezze.

    A proposito di prendersi in giro: Ulisse, di ritorno dai suoi viaggi, non ha fatto altro. Ha raccontato un sacco di balle riguardo a quello che abbiamo passato a Troia, col risultato che oggi è un personaggio leggendario; un uomo che nei versi dei cantastorie è altra cosa rispetto a ciò che fu veramente. Ancora una volta quel lupo ha mostrato d'esser scaltro e saper guardare oltre. Un vero genio nel promuovere se stesso e crearsi un culto su misura come fosse un dio.

    Un giorno la gente potrebbe parlare di me, deve aver pensato, chi lo sa, magari mi studieranno a scuola, meglio che racconti delle mie avventure la parte migliore e lasci all'oblio la peggiore.

    Mi spiace per te Ulisse, ma il vecchio Timoteo le balle non sa digerirle e ha il vizio di dire la verità. È per questo che a quaranta e passa anni, invece di abbandonarmi alle carni della giovane schiava Dafne, che mi hai gentilmente regalato, sono qui, seduto davanti al mare, a raccontare come andarono le cose, di modo che non finiscano in niente, come l'onda che muore sulla spiaggia senza lasciare traccia.

    Prima di cominciare, due parole su di me, di modo che voi sappiate chi vi sta parlando.

    Mio padre era Alexis, figlio di Asterio, mia madre Clio. I miei genitori erano nati a Itaca, la stessa isola in cui nacqui io. Si stava bene a Itaca, ai tempi della mia infanzia. Una favola. Mio padre era contadino e non si mischiava in faccende di guerrieri e battaglie, le lasciava agli eroi di professione. Coltivava campi lui, io e mia madre lo aiutavamo.

    Fossi stato saggio avrei continuato il suo lavoro, invece ho sempre avuto una testa ben modellata per cacciarmi nei guai, sicché quando Ulisse si mise in cerca d'uomini che lo seguissero a Troia, promettendo avventure e ricchezze, fui tra i primi ad alzare la mano.

    La guerra durò dieci anni, come si dice, e furono un massacro come lo sono tutte le guerre. Non ricordo più quanti uomini ho ammazzato, non ricordo più quante volte ho rischiato di farmi ammazzare. So per certo una cosa: se la mia vita fosse un canto, come rischia di diventare quella d’Ulisse, non intonerei un solo verso su quei dieci anni maledetti. Mi vergogno di come mi comportai, sapete? Fui una vera bestia.

    Ci sono due versioni riguardo alla guerra che noi achei muovemmo contro Troia.

    La prima: a Menelao, re di Lacedemone, non andò giù che Paride gli avesse soffiato la moglie Elena, la più bella tra le mortali, e così andò a riprenderla armato fino ai denti, accompagnato dal fratello Agamennone. Una questione d'onore, insomma. Giusta e pulita.

    Versione numero due: il rapimento di Elena era una scusa; Menelao era interessato al territorio della Tracia. Elena era sì la gran bellezza che si raccontava, ma antipatica come una serpe e in più aveva ceduto al corteggiamento nemmeno troppo serrato di Paride. Suo marito aveva scarso interesse a riportare a casa una donna che gli aveva mostrato la stessa fedeltà di una cagna disposta a leccare qualsiasi mano le porga l’osso.

    Il punto di vista di Timoteo in merito? A Menelao, di Elena, gli importava un fico. Il re, come suo fratello Agamennone, era interessato a ingrandire i possedimenti, ecco. Le corna erano una scusa.

    Vi parlavo dei dieci anni che durò il massacro: furono terribili, sotto ogni punto di vista. Uno sbudellamento totale. Però, ora che mi sforzo di ricordare, furono anche interessanti. Alla fine, se non li avessi vissuti da protagonista, non saprei le cose che so oggi.

    Prendiamo Achille. Grande guerriero. Un uomo che era come un toro, sfondava chiunque gli si mettesse contro. Infallibile con la lancia. Micidiale con la spada. Non a caso in molti lo reputavano un mezzo dio e sostenevano che sua madre fosse Teti, la nereide. Ebbene, cosa si dice oggi di Achille? Che l'unico modo per farlo fuori era colpendolo al tallone destro, suo punto debole.

    Volete sapere la verità da chi è stato lì?

    Achille non era un dio, nemmeno a metà. Il tallone destro non era il suo punto debole. Molto banalmente, una notte in cui se n'era uscito dalla tenda, dopo un paio d'ore di passione con uno dei suoi servi, fu morso al piede – destro o sinistro, non ricordo – da una biscia. Inizialmente il prode acheo diede poca importanza alla cosa. Lui era un mezzo dio. Aveva infilzato più nemici la sua spada che tocchi d'agnello lo spiedo dell'oste, che poteva fargli un morso di biscia?

    Poi le cose peggiorarono. Il morso originò una ferita che s'infettò e rese la caviglia gonfia come un'anguria. Ben presto Achille non fu in grado di reggersi in piedi. Non morì in battaglia, trafitto dal dardo scagliato da Paride e guidato dal dio Apollo, come alcuni cantano e i più stolti credono, ma nella tenda, in preda alle febbri suscitate dal veleno d'una misera biscia, una microscopica creatura strisciante.

    Io ero presente, quando spirò per andarsene nella casa di Ade, il dio degli inferi, o in qualsiasi altro luogo si finisca una volta schiattati. E non se ne andò fiero e sprezzante come aveva sempre vissuto, il semidio Achille, figlio di Peleo, l'invincibile, l'uomo che valeva per cento eccetera. Piangeva, circondato dai fantasmi di tutti quelli che aveva ammazzato e che reclamavano la sua anima. Rabbrividiva dalle febbri e dal terrore come una donnetta. Chiamava Patroclo, il suo amante; solo che non c'era più, Patroclo, morto pure lui, pochi giorni prima, in battaglia.

    Ecco, non fossi stato in guerra, queste cose non le saprei e mi berrei d'un fiato quello che rifilano i cantastorie.

    Ma sto divagando.

    Dicevo: dopo dieci anni tondi, noi achei mettiamo le mani su Troia. La conquista della città, mi scoccia ammetterlo, è merito d'Ulisse. In quella circostanza, il re di Itaca dimostrò di essere il genio che si dice e mito e realtà coincisero.

    Ricordo ancora la sera in cui ebbe l'idea dei cavalli di legno.

    Tanti anni di guerre, da una parte avevano logorato l'esercito degli achei – lo stesso che, inizialmente, contava migliaia di uomini giunti sulle spiagge della Tracia a bordo di centinaia di navi – dall'altro circondato le mura di Troia di un'aura di invulnerabilità.

    Io e Ulisse camminavamo sotto la loro ombra, allungata dalla sera. Il re di Itaca ogni tanto levava lo sguardo a tutta quella pietra inaccessibile e inarcava il sopracciglio con aria preoccupata. Poi, d'un tratto, si fermò.

    – Achille – disse.

    – Achille cosa? – chiesi.

    – Achille, il figlio di Peleo, l'invincibile, l'uomo dio, che cos'è che l'ha ammazzato? Dimmelo, Timoteo.

    Scrollai le spalle. – Lo sappiamo tutti cosa lo ha ammazzato: il morso della biscia.

    – Non il morso. Il veleno. La biscia ha aperto uno squarcio in quel corpo duro come il granito e ci ha sputato dentro il veleno. I germi. Questo ha ucciso un uomo infinitamente grande: l’infinitamente piccolo.

    – E quindi?

    Capivo che nella testa del mio signore si era accesa la fiaccola dell’ingegno, avevo imparato a conoscerlo, nel tempo.

    – Quindi è così che dobbiamo comportarci, noi. Se le mura di Troia sono il corpo di Achille, noi dobbiamo penetrarle, subdoli e invisibili come germi.

    – Già, ma come faremo? – domandai.

    Ulisse non rispose. Riprese a camminare con aria perplessa, grattandosi la barba per un'ora buona, poi pronunciò la parola magica: – Cavalli.

    L'idea era così semplice da risultare idiota: costruire una ventina di cavalli di legno, ciascuno abbastanza grande da nascondere quindici uomini nella pancia. I cavalli sarebbero stati considerati dai troiani come un dono che noi achei tributavamo alle divinità dell'Olimpo per garantirci un sicuro ritorno a casa.

    – Questi troiani sono gente timorata – spiegò Ulisse quando ci radunò tutti per esporre il piano. – Chi ha visitato la loro città, ha detto che è piena di templi e altari votivi. Si affidano agli dei, convinti che la solidità delle loro mura li possa proteggere in eterno, e in ciò sta la loro debolezza. Costruiremo venti cavalli, li piazzeremo durante la notte alle porte della città e sgombreremo la spiaggia e gli accampamenti, di modo da dare l'impressione che ci siamo ritirati.

    Una volta accolti nella loro città i cavalli di legno, i troiani avrebbero festeggiato la vittoria, bevendo, danzando, cantando inni agli dei fino a stordirsi. E allora, a notte fonda, dalle pance saremmo sbucati noi, gli achei, e il massacro si sarebbe compiuto.

    Questo era il piano e questo accadde.

    Poco importa che nei canti accompagnati dalla lira il cavallo sia uno, invece che venti, il genio di Ulisse fece ciò che il veleno aveva fatto ad Achille: penetrò, infettò, sconfisse.

    La vittoria, tradotta in versi, finisce sempre con l'addolcire la realtà. Da quello che mi ha detto mio nipote, s'insegna addirittura ai bambini, la vittoria di Troia, la si racconta come fosse una favola. Ebbene, a parer mio, ai bambini dovrebbero insegnare i ventri squarciati, i visceri esplosi, le teste mozzate, le donne stuprate e fatte schiave, gli indifesi inchiodati, i neonati soffocati o buttati giù dalla rupe, di modo che loro, da adulti, non si azzardino a combattere. Perché persino la più gloriosa e appassionante delle battaglie rimane un'opera di alta macelleria.

    La notte della disfatta di Troia, quando noi achei sbucammo dalle pance dei cavalli, l'umanità precipitò a un nuovo livello di orrore e follia.

    Io ero un guerriero, oltre che un marinaio. Sapevo che era inevitabile che uccidessi, ma cercai di farlo, come dire, con metodo. Non toccai le donne, né i bambini. Invece alcuni miei compagni… Che gli dei li perdonino, li vidi compiere cose atroci.

    Ricordo Aiace Oileo. Eravamo irrotti nel tempio della dea Atena; lui muoveva la spada a destra e manca uccidendo chi gli capitava sotto tiro, folle di crudeltà, ebbro di sangue. Poi, i suoi occhi individuarono una donna bellissima, dalla tunica scomposta dalla smania della fuga, i lunghi capelli neri e scarmigliati. Aiace le piombò addosso, le strappò la veste, le allargò le gambe e la violentò a sangue sull'altare. Poi sgozzò la poveretta, schizzando di rosso la statua di Atena. Quella donna era Cassandra, la profetessa, e questa fu la sua vera fine, non venne condotta a Micene come raccontano alcuni. Si dice che fu lo stupro ad attirare l'ira degli dei su di noi e farci precipitare nella spirale di disgrazie che seguì.

    La mattina della partenza guardai Troia, grigia di cenere e fumo, poi il mare, anch'esso grigio, sfiorato da nuvole che si arricciavano come a prendere la rincorsa sul filo dell'orizzonte per ricadere in un temporale coi fiocchi, e pensai che la terra sembrava lo specchio dell’acqua e viceversa.

    Ulisse non colse i cattivi presagi che ci aleggiavano intorno come corvi o non volle coglierli, calato nel ruolo del conquistatore che torna in patria.

    Come sanno anche le capre, oramai, il ritorno non fu così facile.

    Ma ecco, si sono mossi i remi.

    La barca si è staccata dall'approdo.

    Io e i miei compagni fendiamo le acque, diretti a Itaca.

    Ulisse è sporto sulla prua.

    Ogni tanto guarda l'orizzonte, ogni tanto Troia, ridotta in cenere.

    Rabbrividisce.

    È per il freddo o per la consapevolezza dello scempio commesso?

    Un soffio di vento gelido gonfia le vele.

    Siete pronti per un'altra avventura?

    Capitolo 2: Lotofagi

    Cominciammo a remare.

    Eravamo stanchi, ma il pensiero che presto avremmo riabbracciato i nostri cari ci ritemprava.

    Accanto a me sedeva un soldato, Polite, tra i più valorosi e ottimo rematore. Era giovane e non faceva che parlare di cos'avrebbe combinato una volta in patria.

    – Mangerò una capra intera. Poi vuoterò un otre di vino. Poi pagherò dieci ragazze e mi sollazzerò con loro fino a quando, sfinito, non cadrò in un sonno lungo dieci anni. Dieci anni ho combattuto e dieci mi servono per riposare.

    – Io, invece, metterò incinta mia moglie – raccontava Sinone. – Son partito lo stesso giorno che l'ho sposata. Non ho avuto il tempo di darle il ben servito. Appena arrivo a casa, povera lei!

    Non sfiorava, il buon Sinone, il pensiero che qualcun altro potesse aver ingravidato la sua donna. Pensiero che, invece, era al centro delle riflessioni di più d'un soldato.

    La guerra, si sa, rende tutto più romantico. Un giovane uomo e una giovane donna si amano, colpiti dai dardi di Cupido, ma ecco che la sorte avversa li separa. Il giovane deve armarsi e partire. La ragazza sospira. Rimane sola a casa, col cuore in tumulto per il desiderio di riabbracciare l'amato e il terrore di non rivederlo più. Un bel giorno l'amato ritorna e la vita di coppia riprende, con più passione di prima.

    Di solito le cose vanno così, ma cosa succede se la guerra dura dieci anni?

    In dieci anni una chioma di neri capelli fa in tempo a striarsi d'argento, il più generoso dei seni ad ammainare le vele e l'amore più puro a contaminarsi di noia.

    In un certo senso mi ritenevo fortunato a non essermi sposato. Tornavo a casa senza correre il rischio di ritrovare figli che non mi riconoscevano e una moglie che non mi amava.

    Mentre l'equipaggio procedeva così, unito nel remare, ma ognuno per la sua rotta dentro il cuore, il mare cominciò a gonfiarsi.

    Chi comanda le onde?

    È veramente lui, Poseidone, dio del mare e dei terremoti, figlio di Crono, fratello del grande Zeus?

    Oppure è il caos che smuove le correnti degli abissi e inalbera le onde e le avvampa di una schiuma collerica contro la prua?

    Sia come sia, la peggior cosa che possa fare un marinaio quando arriva la tempesta, è perdere tempo chiedendosi chi l'abbia originata.

    Ulisse urlò: – Ognuno resti seduto al proprio posto e remate! Remate con tutta la forza che avete nelle braccia!

    Ben presto le undici navi dirette insieme alla nostra a Itaca sparirono all'orizzonte. Le onde divennero gigantesche. A me sembravano i soldati troiani risorti in forma d'acqua per farci a pezzi. La nostra nave, leggera e spedita quando il vento le era favorevole, ora sballottava come un guscio di noce. Un maglio di schiuma ci buttò contro una formazione di scogli, fracassando i remi d'una fiancata. Un altro rovescio stralciò la vela. A quel punto manovrare divenne impossibile.

    Ora, tra le tante falsità riguardo alle nostre imprese c'è quella secondo cui la tempesta durò nove giorni. In realtà, durò una notte e fu abbastanza, ve l'assicuro.

    Il mare cominciò a calmarsi sul far dell'alba. A mezzogiorno circa le acque si appiattirono di colpo, come l’asse piallata dal falegname. Non avevamo la minima idea di dove fossimo, poi, ecco comparire la terra. Una striscia giallo ocra e battuta dalla calura profilarsi oltre l'azzurro. Non era Itaca, ma la vista d'un possibile approdo ci tornò lo stesso gradita.

    – Dove siamo, Ulisse? – domandò qualcuno.

    Se c'è una cosa che mi è sempre piaciuta del mio re, è la sua umiltà. Se una domanda simile fosse stata posta ad Agamennone o ad Achille, questi avrebbe risposto rabbioso e che accidenti ne so, io?. Ulisse ammetteva la propria ignoranza senza problemi. Era un uomo privo dell'urgenza di sembrare un dio. E la sua umiltà, invece di smarrire noi, suoi compagni di viaggio, ci faceva sentire più uniti a lui.

    – Non ne ho idea. Non ho mai visto coste così piatte.

    – Forse siamo alla fine del mondo – disse un compagno.

    – Non credo – disse Ulisse. – Avanti, usiamo i remi che ci rimangono e raggiungiamo terra.

    Così facendo, pur prostrati e senza energie, ci avvicinammo alla spiaggia.

    Legammo la barca a una roccia che spuntava tra le acque, poi Ulisse comandò a me e a un altro soldato, Euriloco, secondo in comando, di tuffarci, nuotare fino a riva e perlustrare il territorio.

    – Armatevi, ma se mai incontraste qualcuno, non mostratevi arroganti. Dite chi siete, due soldati di Ulisse, il re di Itaca, che cercano di che sfamarsi per rimettersi in forze e riprendere il viaggio. Poi dite che, per ringraziarli della loro ospitalità, io, Ulisse, sacrificherò un toro alla dea Atena, una volta toccata la patria.

    Ascoltati gli ordini, il sottoscritto ed Euriloco si gettarono in acqua. Nuotammo lentamente perché eravamo sfiniti, ma in pochissimo tempo raggiungemmo la spiaggia.

    – Che posto è questo? – chiese Euriloco, mentre uscivamo dalle acque.

    – Accidenti, non lo so – dissi, e mi guardai intorno. – Non c'è un albero, niente. Solo i sassi da mangiare. Non ce la faccio più.

    Crollai a terra. L'ombra di Euriloco mi coprì. – Che stai facendo, Timoteo?

    Sorrisi. – Mi lascio morire, che vuoi che faccia? Meglio l'Ade che questa vita di guerra e tempesta. Forse Poseidone ci ha trascinato su quest'isola deserta apposta per farci morire. Perché ci rassegnassimo alla nostra sorte.

    – Tu veramente desideri morire?

    Mi sollevai sui gomiti. – Ovviamente no. L'istinto a salvarmi le chiappe è come una dannazione che mi perseguita. Non son tipo da lasciarsi andare. Però, insomma, converrai anche tu che la nostra situazione non è delle migliori. Il mare sembra ce l'abbia particolarmente con la nostra barchetta, o no?

    Euriloco sedette accanto a me, a gambe incrociate, con aria pensierosa.

    – Che hai? Che ti tormenta, ragazzo? – chiesi.

    – Non so, a volte penso che gli dei abbiano ragione ad avercela con noi – rispose lui.

    – Che intendi, perché avrebbero ragione?

    – Beh, insomma, non è che ci siamo comportati come agnellini imberbi, in questi ultimi dieci anni. Abbiamo assediato una città, Troia, messo a ferro e fuoco le altre della Tracia. Abbiamo ucciso, razziato, violentato, incendiato, incenerito… Sai, la notte prima di partire ho fatto un sogno. Tu ci credi nel potere premonitore dei sogni?

    – Non tanto. Però, racconta, che sogno hai fatto?

    – Ho sognato che stavo scalando il monte Olimpo.

    – L'Olimpo, il monte degli dei?

    – Ce n'è forse un altro? La scalata era parecchio difficoltosa perché, come tu sai, si tratta di una vetta altissima e impervia, ma alla fine c'ero riuscito. Avevo raggiunto la sommità. Mi ero addentrato per un boschetto di cipressi e avevo raggiunto il tempio dove gli dei si ritrovano a parlare. Era fatto di colonne enormi e così alte da non vederne la cima. In una stanza, sedevano loro, gli dei, a discutere. C'erano tutti, sai? Era, Poseidone, Demetra, Dioniso, e poi Apollo, Artemide, Ermes, Atena e anche Ares, Afrodite ed Efesto. Su un grande trono, circondato da fulmini dorati, stava lui, Zeus, il grande padre.

    – E che aspetto aveva Zeus?

    – Quello che noi uomini gli abbiamo dato. Era enorme. Un gigante. Aveva petto e braccia muscolosi, la barba bianca e spumosa e lo sguardo severo. Gli altri dei, al suo cospetto, sembravano comuni mortali.

    – Di che stavano parlando gli dei, tutti riuniti?

    – Ecco, vedi, questa è la cosa importante del sogno, o almeno quella che a me ha fatto più impressione. Ti dicevo, raggiunto il tempio, per non farmi vedere mi nascondo dietro una colonna e ascolto quel che si dicono gli immortali e allora scopro che stanno parlando di noi.

    – Cioè me, te e Ulisse?

    – No, non noi nello specifico, ma di tutti gli achei. Zeus scuote la testa. È parecchio arrabbiato. Questi greci, borbotta. Non passa giorno che non mi deludono. Hai ragione, padre, dice Apollo. Meriterebbero di sprofondare nelle tenebre e che il sole non li illumini più. Hai visto cos'hanno fatto a Troia? Si sono comportati da animali, ma io comincio a pensare che lo siano, animali, delle bestie feroci. Sono imperfetti, interviene Atena. "Alle volte

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