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Mi chiamo Davide
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E-book298 pagine3 ore

Mi chiamo Davide

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Info su questo ebook

Il faticoso viaggio di Davide cominciato il giorno del suo quindicesimo compleanno. Nato senza fame, cresciuto dai nonni e un padre militare severo. L'eroina la sua sposa, i guai traguardi costruiti dalla collera e la noia. Condivide l'inferno con gli ultimi e scopre l'umanità solo dopo aver assaggiato la disperazione della tossicodipendenza.
Andrei, Giorgio, Chanel e Gabriele amici indimenticabili, bagliori di luce in fondo al tunnel, briciole di pane sulla strada di casa.
E sua madre, la consapevolezza guardata con gli occhi di un fantasma dal cuore crepato.
LinguaItaliano
Data di uscita16 apr 2020
ISBN9788833465562
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    Mi chiamo Davide - Maddalena Caprara

    viaggio.

    Capitolo 1

    21 marzo. Il mio compleanno.

    Sono nato senza fame.

    Non conosco l’acquolina e neppure la sazietà. Ingurgito alimenti per non ferire mia nonna, li trangugio frettolosamente agevolando lo scorrimento di cibo in fondo al tunnel, lontano da me, sotto i piedi, all’inferno.

    Poi attendo che la nausea riporti la consuetudine negli organi e negli occhi.

    Se non fossero le botte di papà e gli sguardi minacciosi del nonno probabilmente sarei già morto di stenti, invece sopravvivo dentro un cumulo di ossa rotte, ma energiche.

    Mia madre è un puntino disperso nell’universo, un volto di sabbia macerato dalla tempesta.

    Non l’ho mai conosciuta, se n’è andata lo stesso giorno in cui ho messo piede in questo pianeta, in camicia da notte, scalza, con il seno carico di cibo destinato a me.

    Di lei alcuna traccia, nemmeno un ricordo o una scia di luce che riconducesse ai suoi occhi, al suo profumo, ai suoi vestiti. Ogni testimonianza in casa nostra è stata sotterrata, annientata, cancellata per sempre dalla collera di chi è rimasto, da coloro che si sono rimboccati le maniche per crescermi e mantenermi incolume in questa vita.

    In sala da pranzo e in soggiorno cornici sterili accolgono solamente foto di papà, me e i nonni. Mio padre con la squadra di calcio dopo una vittoria, insieme ai genitori il giorno del diploma di maturità, all’accademia militare in divisa mentre giura dovere, fedeltà e rispetto alle istituzioni di stato. E un’altra con me neonato, in braccio, rapito da una smorfia fragile e malinconica. Sbarbato, incerto, stanco, da poco rientrato dalla guerra, appena padre.

    Anch’io sono piuttosto presente in queste gigantografie cronologiche; in fasce, sui passi claudicanti, nell’era sdentata, dentro il grembiule bianco del primo giorno di scuola. Felice e sorridente come può essere un bambino ancora privo di esperienza vitale e cognizione. Alcuna ruga di rabbia o stralcio di debolezza, le fatiche dell’anima e del corpo sarebbero maturate più avanti, nel corso degli anni.

    Di mamma nulla, neppure un pensiero.

    Non che mi interessasse più di tanto, nonna ha sopperito la mancanza in maniera eccellente attraverso le carezze, i baci, le torte di compleanno alla fragola, le favole prima di dormire, i pianeti luminosi sul soffitto della camera. I panni stirati, lo skateboard, i Carhartt con le tasche laterali, e le bugie per salvarmi dalle punizioni del nonno e di papà.

    Mentre mia madre fuggiva rinunciando a suo figlio appena venuto al mondo, papà combatteva una guerra a Baghdad, in Iraq, era il 21 marzo del 2003, il primo giorno di primavera.

    Mio padre è il caporale maggiore, il militare dalle mani veloci e pesanti, l’uomo che disarma con un respiro. Ogni volta che parte per una missione mi abbraccia fortissimo come se fosse l’ultimo contatto, la porzione finale di questa vita. Non è cattivo, mi vuole bene, anche quando le sberle lasciano segni rossi sulle guance per giorni e i maestri o i professori mi guardano con gli occhi tristi.

    I nonni paterni vennero a prendermi appena capirono in quale luogo mia madre aveva deciso di farmi nascere. Una clinica privata di Terni, a centonovantanove chilometri di distanza, due ore e ventitré minuti da casa nostra. Lo scoprirono in tv, al Tg delle 8. In un lampo velocissimo si convinsero che il bambino abbandonato fossi io e la donna snaturata mia madre scomparsa dal quartiere da almeno tre giorni. Non saprò mai perché scelse quel posto.

    A quanto pare l’intuito fu ottimo, ebbero ragione, il neonato ripudiato risultò essere il loro nipote.

    Nonna non parla mai di mia madre, ma quando ero piccolo, nei racconti di favole spesso introduceva un personaggio fragile, una donna fantasma bellissima dai capelli biondi e la carnagione chiara. Le assegnava sempre un cuore stanco, paragonabile ad una sfera di vetro crepata, un insieme di frazioni tristi, un agglomerato di pezzi tenuti saldi da una colla scadente. Si riferiva a lei ne sono sicuro, l’ho capito nel periodo della consapevolezza, nel momento in cui i quesiti cominciarono a scavare i pensieri e le curiosità edificavano castelli immaginari.

    Non può mancare una persona che non hai conosciuto.

    A sette anni psicologi e insegnanti trovarono un senso e diedero un nome alla rabbia accumulata nell’anima diagnosticandomi il disturbo oppositivo provocatorio. Odio le regole e la gente che mi obbliga a rispettarle e non sopporto le opinioni degli altri, soprattutto quando si discostano dalle mie.

    Ho anche qualche problemino con l’ADHD, classificazione lieve-moderata, sono un iperattivo con deficit di attenzione, ma tutto sommato cognitivamente risulto nella norma. Ho un buon intuito con i numeri e matematica è la mia materia preferita.

    Alle elementari ho trascorso un sacco di tempo fuori dalla classe, faticavo a restare seduto, infastidivo continuamente i compagni con gorgheggi, saltelli e cadute dalla sedia. Masticavo la gomma per sputarne i rimasugli sulla faccia dei vicini di banco, rifiutavo categoricamente i consigli pazienti degli insegnanti.

    Con gli anni la condiscendenza dei maestri è scemata, sono subentrate note disciplinari, punizioni e rilassanti passeggiate con i bidelli lungo i corridoi, e tra le porzioni di strada che comprendevano i bidoni della spazzatura e la palestra.

    Alle medie ho migliorato il tempo di permanenza sulla sedia, da quindici minuti sono passato a mezz’ora. Sono rimasti i tic nervosi tra cui il movimento frenetico della gamba da seduto e i cambi repentini di posizione.

    Gli amici mi chiamano Pelloss, è il diminutivo di pelle e ossa, ma il mio vero nome è Davide e oggi compio quindici anni.

    Per regalo Roberto, un amico, mi ha sparato una dose di eroina dritta in vena. Desideravo da tempo sperimentarla, da quando la marijuana e l’MDMA risultavano obsoleti, noiosi e inefficienti. Non che non funzionassero anzi, le feste o i sabato sera di noia sono spesso farciti di pasticche, cervelli su di giri, mandibole incontrollabili e voli terrificanti compiuti di notte con lo skateboard alla rampa. I lividi e le ossa rotte le uniche certificazioni di questi episodi.

    Negli ultimi tempi la monotonia si è trasformata in necessità, le droghe e l’alcool elementi indispensabili, pretesti stabiliti dal corpo e la mente. Senza siamo alberi spogli, inutili, fragili.

    Gli spinelli invece riducono l’effetto adrenergico, calmano i nervi, tentano di spegnere gli ardori, servono per riportare i pensieri in una via discreta, riposare, concentrarsi e dormire.

    Del resto non ho mai temuto gli aghi, fin dalla nascita la mia vita senza fame è stata condita e condizionata da iniezioni stimolanti e flebo ricostituenti. Fluidi di linfa che non arrivano in nessun posto.

    Osare, sentirmi coraggioso, superman e provare un orgasmo, non quello guadagnato insieme ad una femmina, io ancora non ho idea di cosa voglia dire avere una ragazza, l’unico bacio sperperato è stato a dicembre, alla festa di compleanno di Sara dopo la sesta birra.

    Roberto è il tempo che non riesco a riempire, l’amicizia intermittente, il maggiorenne dalle iniziative estrose e avventate. Conoscenti per convenienza, ognuno al suo posto, condividiamo la droga, lo skateboard e i guai.

    Fatto sta che me lo sono trovato davanti scuola alle 8.10, una sorpresa a dir poco entusiasmante, soprattutto in previsione di una giornata ricca di smancerie legate ai convenevoli. Odio fortemente i compleanni, in particolare il mio.

    «Tanti auguri Pelloss!» ha bisbigliato, poi con la voce robotizzata dall'alzataccia ha intonato un traballante happy birthday e infilato in tasca la roba facendo attenzione a non essere sgamato dalla folla di studenti.

    Non potevo crederci, a breve avrei realizzato il desiderio tanto atteso: farmi di eroina.

    Raggiungiamo casa sua, una villetta a schiera su tre piani col parquet persino in cucina. Nella mansarda, dentro la fodera del puff spuntano una siringa da insulina nuova, un cucchiaio bruciacchiato e un laccio emostatico. Sistemo il sedere sul divano, lo stesso movimento utilizzato nella sala prelievi durante l’analisi del sangue.

    L’adrenalina incrementa la frequenza cardiaca, il respiro si fa denso, ogni emissione d’aria spurga particelle miste di paura ed euforia. Una sensazione meravigliosa, la stessa che arde quando combino un guaio.

    Ci sono voluti pochi secondi, il liquido magico dell’eroina ha cominciato a rilasciare la parte piacevole di questa avventura. I fedeli lo chiamano flash l’effetto breve e straordinario, l’energia di calore che riempie il sangue, le cellule di tutto il corpo, i pensieri.

    In questo viaggio di percezioni meravigliose ho immaginato il volto di mia madre, percepito la pelle della sua mano mentre mi accarezzava. È la prima volta.

    Nel marasma di quiete e rilassatezza di quei momenti ho lasciato le redini dell’esistenza, catapultato fuori la fetta angosciante, sputato la concretezza lontano dal mondo in cui vivo.

    Risorgo in un gemito lungo ed estremamente gradevole che sconquassa il basso ventre e gli organi di tutto il corpo.

    «Che figata!» esclamo. La mia voce è incastrata tra le corde vocali, esce un suono stentato.

    «Tanti auguri amico mio, benvenuto nel club dei fattoni!»

    Sorrido, vorrei spararmi ancora eroina e provare nuovamente lo sbalordimento e l’orgasmo.

    Trascorro l’intera mattinata pensando al liquido magico, nella testa l’immagine dello stantuffo mentre inietta il veleno e rianima le viscere.

    Torno a casa energico e felice, l’apice del piacere provocato dall’eroina fruga i ricordi, resta vivido nei pensieri e nel basso ventre, anche a pranzo davanti un piatto di noiosi e puzzolenti spaghetti al tonno. Sto da Dio.

    Nonna mi scuote. «Davide!»

    Il tono è pacato, ma dentro i timpani risuona come un tamburo fastidiosissimo. I postumi della mattina bussano prepotentemente, mi sembra di aver appena chiuso gli occhi e dormito pochissimo nonostante la pennichella pomeridiana sia durata quasi tre ore.

    «Sono le quattro, ti ho preparato la merenda!» sussurra.

    La nausea invade l’intelletto, lo stomaco, la vita. Distendo le falangi delle mani per accertarmi di essere ancora vivo, per convincere mia nonna a lasciarmi in pace. È un gesto di divieto, un basta, un modo gentile per cacciarla dalla stanza.

    Il letto un giaciglio di morbidezza e accoglienza, il cuscino un capezzale che protegge tutti gli screzi della mente.

    «Il nonno si arrabbia, lo sai» supplica.

    I miei familiari sono i promemoria legati al cibo, lo stimolo della fame che non possiedo, i responsabili del nutrimento forzato. Quattro pasti al giorno, tremilatrecento calorie somministrate come medicine salvavita, appuntamenti indispensabili annotati sulla lavagnetta della cucina. Chilocalorie scrupolosamente calcolate in base all’età e alla crescita.

    Davide: colazione 495 cal.

    Davide: pranzo 1320 cal.

    Davide: merenda 330 cal.

    Davide: cena 990 cal.

    Apro gli occhi, la luce filtra dalla finestra, è un laser accecante, insopportabile, eppure sono tiepidi raggi primaverili. Nonna accarezza i capelli, mi bacia la fronte, è il suo modo di incoraggiarmi per evitare la tempesta. La solita filippica del nonno costruita per abbindolare il mio perseverante rifiuto per il cibo.

    Sollevare il capo è uno sforzo disumano. Seduto sul letto assemblo i movimenti in una coordinazione traballante, acquisisco la posizione eretta, trascino le ossa fino in cucina.

    Ho un macigno in testa e dolore ovunque, penso al numero di cellulare di Roberto e alla prossima dose.

    Ha diciannove anni, ci siamo conosciuti a settembre al Half-pipe, la rampa degli skateboard. Sfoggiava uno splendido Sunrise Wave, uno di quelli che costano un occhio della testa. Il mio lo avevo comperato in un grande magazzino con i soldi guadagnati da un anno di resto della spesa. Una tavola scadente con quattro ruote.

    Ha eseguito un Grab e un Flip divinamente, senza sbavature, assemblando movimenti fluidi e competenti. Gli ho rubato lo spazio di lancio, attendevo da troppo tempo il mio turno e lui non rispettava il suo ignorando gli altri skater. È una sorta di leader spocchioso e prepotente.

    Una leggera spinta, un colpetto sulla spalla, sono scivolato giù e ho realizzato un jump. Quel giorno siamo diventati amici, tutti i pomeriggi alla rampa anche sotto la pioggia.

    «Tanti auguri tesoro di nonna!» esclama sorridendo.

    Sulla tavola una torta casereccia contornata da piccoli bignè alla crema e fiocchi di cioccolato. Al centro una candelina accesa, il numero quindici.

    L’entusiasmo dei nonni non cambia mai è stampato nelle pieghe stanche della pelle, resta vigile e onesto ogni anno nonostante le intemperie brusche dell’esistenza. Venderebbero l’anima al diavolo pur di regalarmi un po’ di sana felicità.

    «Esprimi un desiderio!» esulta il nonno, poi mi invita a fare una foto.

    «Sorridi! Cheese! Aspe... Davide come funzionano sti cosi?»

    Sospendo la smorfia dedicata alla posa e imposto la telecamera sul cellulare del nonno.

    «Clicca qui» dico pazientemente.

    Ritorno in posizione, ma questa volta la moina è arrogante e malinconica.

    Soffio e desidero farmi in vena nuovamente.

    Abbraccio nonna, inglobo il suo corpo minuto, le bacio i capelli odorosi di pan di Spagna e vaniglia.

    «Grazie» sussurro.

    Mi precipito dal nonno, lo avvinghio, la stretta è leggera, rimane intrappolata nei circuiti della severità e riservatezza, intendo comunque trasferirgli gratitudine.

    Al secondo morso desidererei vomitare, resisto, non voglio offendere i nonni. In un boccone trangugio la fetta di torta, facilito la deglutizione con del succo alla mela, immagino il malloppo piombare verso l’inferno, nel buio. La mandibola è impastata, debole, mi fanno male i denti.

    La video chiamata di papà interrompe la festa, affretto il passo per raggiungere il soggiorno e il pc, le gambe sono cumuli di ferro faticosamente trascinabili.

    «Ciao papà.» Sorrido e mi preparo a ricevere gli auguri.

    «Un'altra assenza? E la nota sul registro?» blatera. I suoi occhi emanano fuoco e veleno.

    Ritorno indietro in un frame di vita precedente, ricordo di aver fatto sega a scuola stamattina e di aver sbroccato ieri con la prof di matematica.

    «I nonni lo sanno? Dove sei stato?»

    Non rispondo.

    «Ma cosa hai in quella testa?» esclama innervosito, avvicinando la faccia allo schermo per fortificare la fase destinata al terrore. Sembra Sid dell'Era Glaciale. Mi scappa una risata, di quelle che infurierebbero anche il Papa.

    «Sei fortunato che non sono lì, altrimenti ti gonfierei di botte!»

    Mostra il dorso della mano e prepara una sberla. Di istinto copro il volto, mi allontano dal pc, poi realizzo che è in Afghanistan. Ritorno davanti i suoi occhi, ghigno ancora, non riesco a non sfidarlo soprattutto quando le sue mani sono lontane anni luce dalla mia faccia. Mi diverto, è l’adrenalina bastarda, il modo per fargli pesare l’assenza, il piano B per accrescere il coraggio.

    È incollerito, si asciuga la fronte, sbuffa aria dal naso, sistema il bordino della t-shirt. Un vulcano in procinto di esplodere intorpidito dalla consapevolezza di un effetto privo di conseguenze dirette.

    Divento serio dolcifico la situazione, ci provo. «La prof di matematica mi ha chiamato idiota.»

    «E tu?» domanda. La sua voce arriva dopo, in un eco lontano.

    «Le ho tirato l'astuccio» biascico, deglutendo l'angoscia. Immagino una catastrofe mondiale per reprimere i ghigni.

    «L'astuccio?» urla, portando le mani alla faccia. «L'astuccio?» ripete incredulo, strizzando gli occhi, corrucciando la fronte.

    «Ma sei stupido? Cosa ti frulla in quella testa bacata, facciamo i conti io e te! Sei in punizione per tutta la settimana, anzi per tutto il mese! Quando torno giuro che ne prendi una caterva!»

    Annuisco da bravo ragazzo, conosco l’escamotage per abbindolare i nonni, non rimarrò in casa nemmeno un minuto.

    Ipotizzo mostri a due teste che divorano le interiora per limitare i ghigni e arginare la collera di papà, poi l’idea dei colpi, lo sconquassamento e il bruciore delle sberle sul viso ridimensionano gli intenti. Un brivido lungo il corpo mi riporta sui binari giusti, torno serio.

    «Facciamo i conti te lo prometto!» ripete papà, scuotendo l'indice minaccioso. Batte un pugno sulla scrivania, l'immagine trema, il tonfo giunge severo. Sussulto.

    «E smettila di annuire!» grida.

    «Si signore!» rispondo, alimentando la sua rabbia.

    La faccia di papà scompare dal monitor, il bip di fine chiamata certifica la resa.

    Penso alla tempesta di schiaffi e alle proibizioni severe che avrei subito se fosse stato a casa. Agli auguri non fatti.

    La collera diminuirà, mi rassereno, maledico l’era digitale e il registro elettronico.

    Capitolo 2

    Sono un mostro a due facce.

    Sono un mostro a due facce. Un ragazzo tiepido e obbediente quando mio padre non è in missione, stronzo e delinquente quando lo è.

    Doso le stupidaggini, le faccio durare fino alle due settimane che precedono il suo rientro in patria. Insulto i professori, lancio sassi alle macchine in corsa, bevo litri di birra il sabato sera, non mangio nulla, calo pasticche e fumo erba.

    Poi sistemo le cose, prendo voti eccellenti, lecco il culo ai professori, mi faccio interrogare, aiuto i nonni in casa, me ne esco con frasi insolite del tipo ho fame. Diminuisco le dosi di erba, tento di riassettare l’aspetto fisico e il contenuto mentale. Un meccanismo strutturato nei minimi dettagli ancora funzionante. Gli insegnanti credono alle sceneggiate, o forse no, probabilmente il comportamento accondiscendente di quei periodi è influenzato dalle dinamiche familiari e le ripercussioni rigide a cui sono sottoposto. Tutti conoscono la tempra esagerata di mio padre.

    Il cambiamento mi serve a rilassare i suoi nervi e quietare la sua mano pesante.

    Quando non riesco a controllarmi e combino guai giganteschi nei giorni vicini al suo rientro, raggiungo in bici la chiesa sull’eremo di Monte Giove, bagno la fronte con l’acqua santa, fisso il tabernacolo per qualche minuto, invito Dio a calmare le acque. Alcuna preghiera, mi collego allo spirito santo attraverso l’intelletto come se avessi un super potere. Chiacchiero con i divini, spiego la situazione, mi calmo. Un rituale non sempre efficace, mi serve, a volte funziona.

    Spesso invece, lascio penetrare le ingiurie nelle cellule della pelle, attendo che i colpi di mio padre disciplinino gli impulsi cattivi e i pensieri maldestri.

    Non riesco

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