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La notte sotto la pelle
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E-book221 pagine3 ore

La notte sotto la pelle

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Info su questo ebook

Alcuni destini non sono scritti nelle stelle, pulsano, al ritmo del nostro cuore, diventando l'ombra dei nostri passi.
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2023
ISBN9791221454369
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    Anteprima del libro

    La notte sotto la pelle - Isabella Di Grazia

    Passato

    La prima sbiadita reminiscenza che possiedo di Lei, è una figura girata di spalle, davanti allo specchio, con la chioma fluente e nera che ricade sulle spalle. A pensarci bene, forse non è neppure un ricordo, piuttosto un’illusione. Eppure, nonostante i contorni imprecisi, quello schizzo vivido di mia madre è rimasto intagliato nella mia testa con le forme preziose del diamante.

    Dovevo avere circa tre anni, l’età in cui si fissano i genitori con la muta solennità con la quale si adorano i santi. In quel ricordo sbavato, ho la sensazione di essere vicino a una dea: vanitosa, leggiadra. Leggermente distaccata da me.

    L’unico istante della nostra vita, dove, ai miei occhi, splendeva perfetta e immortale.

    ***

    Fu una rosa a raccontarmi che sarei diventata la sorella di qualcuno.

    Una mattina, mentre percorrevamo a piedi la strada che ci portava in campagna, ci attardammo a scambiare due chiacchiere con una signora intenta a occuparsi dei suoi rosai. Nel salutarci, ella, offrì a mia madre una rosa rossa, augurandole la nascita di un maschio. Non so se Lei sapesse già che fosse un bambino, o se quel fiore fu di buon auspicio, in ogni caso, la scena si è cristallizzata, assumendo strane forme simboliche nella mia casta fantasia.

    Per logica, credo che il parto non sia stato veloce, poiché mi portarono a stare dai miei zii durante il ricovero.

    Furono giorni felici, un susseguirsi di avventure da scavezzacollo in compagnia dei miei cugini maschi che, essendo coetanei, condividevano con me il tempo dei giochi e delle scoperte.

    Per fare colazione bevevo il latte appena munto da mio cugino Fabrizio, un ragazzo smilzo e nervoso, poi portavamo al pascolo, insieme al fratello maggiore, le mucche, giganti lenti, spaventosi e affascinanti. Di notte dormivamo tutti in due enormi lettoni, in una promiscuità permissiva, carica di odori e di calore, bisbigliando parole tra i denti ancora da latte.

    Fissavo estasiata le figlie adolescenti di mia zia, così diverse e così belle, un elfo e una valchiria, senza riuscire a immedesimarmi nel genere femminile. Ero attratta dai giochi e dal mondo maschile, dalle rincorse in mezzo all’erba, dalle attività nella stalla, da una libertà indisciplinata, che alle bambine era vietata in quanto disdicevole.

    Quando mio padre venne a prendermi annunciando la nascita di mio fratello, non desideravo tornare a casa. Mi dovette trascinare in auto, urlante e disperata; intanto mia zia, con la prole al seguito, cercava di rassicurarmi, dicendomi che sarei tornata presto.

    Devo ammettere che in quei giorni avrei volentieri scambiato la mia famiglia con la loro. In quella casa, ogni cosa sembrava risplendere di perfezione, e io mi sentivo trattata con predilezione e con un affetto mai sperimentato prima, fatto di contatto, premure e moine.

    Appena arrivata a casa, mia madre, mi accompagnò a vedere il nuovo arrivato, nella culla.

    Con le guance umide di lacrime e gli occhi lucidi, mi sporsi sulla sponda e vidi un ammasso informe, un bambolotto con le dita appallottolate.

    Non provai niente.

    Non capivo cos’era, cosa significasse avere un fratello. Non avevo mai visto altri neonati da vicino per rendermi conto della loro natura. Capì solo che, da quel momento in poi, tutto sarebbe stato diverso.

    Avevo quattro anni.

    ***

    Un giorno d’estate, dopo la nascita di mio fratello, mia madre mi aveva portato con sé al mercato rionale. In quegli anni il mercato aveva un’importanza sociale e dava l’opportunità a famiglie come la mia, chiuse nel perimetro dei loro limiti, di approvvigionarsi di merce e suppellettili, utili alla quotidianità, per non dire alla sopravvivenza.

    Gironzolando tra le bancarelle, a un passo da mia madre, notai un paio di sandali, e le chiesi di comprarmeli. Mi disse di no. Ignoro se lo fece perché reputava non mi servissero o se non avesse soldi a sufficienza, a ogni modo, io mi incapricciai. Per tutta la giornata le diedi il tormento, piansi, supplicai, urlai. Lasciammo il paese e raggiungemmo il casolare di campagna, ciononostante, non mi diedi pace. Ricordo che gridavo in maniera incontrollata, preda di una crisi nervosa; col senno di poi, ritengo fosse una manifestazione eccessiva. Forse quello era un rigurgito della mia indole melodrammatica, al limite del teatrale. A un certo momento, mi allontanai dall’abitato, imboccando la strada, con l’asfalto consumato e schiarito, per tornare a casa, in paese. Mio padre, mi raggiunse a piedi cinquecento metri più avanti, e dopo essersi tolto la cintura di cuoio, mi picchiò, lì in mezzo alla carreggiata, con gli alberi testimoni muti e omertosi.

    Le scudisciate e il dolore non li rammento. Rammento il bruciore dell’umiliazione, la mortificazione della carne unita a quella di una giovane e innocente anima, una farfalla di bambina, oltraggiata e pestata come fosse una bestia.

    Non successe più. Io sicuramente presi altre botte da mia madre, feci altre scenate, e mio padre perse, ancora, il lume della ragione. Ma non permisi mai più che mi picchiasse, non permisi mai più a me stessa di essere debole davanti a lui. Un pezzo di carne sul quale abbattere la cinghia indurita.

    Sviluppai, dopo quell’episodio, due caratteristiche predominanti nel mio carattere, l’orgoglio e la manipolazione. L’orgoglio mi avrebbe aiutato a non legare i miei desideri alla volontà degli altri e la manipolazione per indirizzare la coscienza di chi mi stava davanti.

    ***

    Né io, né mio fratello, frequentammo la scuola materna. Nemmeno col senno di poi riesco a ricucire possibili motivazioni che possano spiegare una scelta del genere. Con molta probabilità, nessuno credeva che fosse necessario, visto e considerato che mia madre non aveva un impiego fuori casa e poteva badare a noi. Erano una coppia distante dalla comunità i miei genitori, poco integrati, capaci a stento di leggere e scrivere, e ancora più a stento, di seguire il corso di un progresso che in quegli anni iniziava una piena corsa.

    Mio padre lasciava il letto molto presto, raggiungeva il casolare, accudiva gli animali e poi andava a lavoro, in un’azienda agricola, portandosi dietro la schiscetta, un contenitore di alluminio, nel quale mia madre disponeva il pranzo. Lo rivedevamo solo a tarda sera, quando ci riportava in paese.

    Lei, di prima mattina, lavava a mano, nel lavandino di pietra, sistemato in un angolo del garage e io venivo svegliata dal rumore dell’acqua che vorticava giù nello scarico.

    Dopo aver pulito la casa di quattro vani, piccoli e ammobiliati male, a livelli sfalsati, con mio fratello in braccio e me al fianco, percorreva i quattro km a piedi, fino alla campagna. Mi ricordo le prese in giro, alimentate da mio padre o da mio nonno, perché aveva sempre le ginocchia sbucciate, a causa delle frequenti cadute durante il percorso sconnesso. La trattavano come fosse una bambina con poco giudizio e maldestra.

    Mia madre era una bambina. Aveva venticinque anni e due figli e nessuno che l’amasse davvero.

    Orfana di madre, un padre alcolista, gretto, violento, da lei temuto e aborrito, era stata ceduta, dai fratelli più grandi e dai cognati, al primo arrivato offertosi come partito dopo il lutto materno. Rappresentava un problema, una ragazzina di cui ci si doveva liberare, altrimenti sarebbe divenuta un peso, una bocca in più da sfamare, e in un contesto dove solo la rigidità e il polso fermo di una matrona, qual’era stata mia nonna materna, avevano impedito il degrado e lo sfacelo, l’offerta di mio padre, uomo perbene, adulto, lavoratore, di portarsela via, era stata accettata di buon grado, con una dose di riconoscenza.

    Nessuno si pose il problema di quindici anni di differenza, della ritrosia di Lei a lasciare la propria casa. Nessuno considerò che era solo una diciottenne addolorata dalla perdita della madre, che non aveva nessuna forma di educazione sentimentale, e che il matrimonio, con quelle prerogative, diventava solo una sorta di prostituzione legittimata. Una violenza.

    Nessuno ci pensò. A nessuno importò.

    L’ignoranza incolpevole, sommata all’individualismo umano e a un patriarcato nobile, dilagante e riconosciuto come regime assoluto, condannarono una giovane donna all’infelicità e alla ferocia di una vita che non le apparteneva più.

    ***

    L’infanzia mia e di mio fratello fu ricca di spensieratezza e di gioia.

    Due cose che non si possono apprezzare o cogliere a quell’età.

    Tutte le mancanze che, oggettivamente, c’erano, non potevamo sentirle, tagliati fuori dal confronto con il mondo reale, con i nostri simili, con altre case, altre famiglie, altri stili di vita.

    In quella zona, le innovazioni, il progresso, arrivavano molto in ritardo e lentamente. Le persone erano refrattarie a essi, si aggrappavano alle tradizioni, al ritmo costante della natura, al giogo di una sottomissione feudale ormai scomparsa ma mai superato.

    Ogni tappa per quella gente semplice, senza smanie di potere e senza ambizioni, rappresentava una vittoria raggiunta con impegno e sudore. Persino le esistenze di noi bambini erano scandite da eventi rituali, che si sgranavano nel corso dei mesi e dei giorni.

    Ricordo, a fine primavera, l’arrivo della trebbia, un mostro rosso, di metallo, affamato, che poi riversava, in sacchi di iuta, chicchi color oro, che per i miei genitori avevano anche lo stesso valore. L’estate dedicata incessantemente all’orto, fino a tarda sera. Far scorrere l’acqua nei solchi quando la calura e l’afa si erano attenuate. Raccogliere i primi frutti, le verdure. Pomodori, cetrioli, peperoni. Mia madre preparava un’insalata, aggiungendo cipolle, basilico e una dose di olio abbondante. Inzuppare il pane, compatto, pesante, umido, impastato a mano nella madia e cotto con frasche di ulivo, in quel sughetto, significava assaporare il senso della vita. Un sapore sapido, acido, dolce e terreno, come la carne, come la pelle, come l’amore.

    La vendemmia diventava una ricorrenza che aspettavo con trepidazione in quanto invitavamo parenti e amici. Si arrivava in campagna di buon ora, e ci si divideva i compiti. Le donne staccavano i grappoli; gli uomini trasportavano il carico in cantina, dove mio padre, addetto alla spremitura, supervisionava. Mia madre, tra i filari, trascinandosi dietro un canestro di vimini, sceglieva i grappoli migliori, le uve più dolci, per poi porzionarli e mandarli in dono o farne mostarda, che teneva nascosta fino a Pasqua, quando la tirava fuori, per farcire dolci tipici.

    Eravamo felici e non lo sapevamo. Vestiti in maniera umile, senza televisore, senza giocattoli, senza merendine, senza favole della buonanotte, senza abbracci, senza coccole. Eravamo liberi, sereni, in modo illogico e inspiegabile.

    ***

    Il casolare di campagna somigliava a un arcipelago di stanze povere, coi muri di tufo, intonacati di cemento crudo. La maggior parte di esse servivano da riparo per gli animali da allevamento: polli, maiali, mucche. Noi alloggiavamo in uno spazio limitato, due stanzette minuscole, cucina e camera da letto. Non c’erano i servizi, non c’erano mobili, non c’era acqua corrente e, nei primi anni della mia infanzia, nemmeno l’elettricità. Eppure, trascorrevamo in quegli spazi la maggior parte del tempo. In paese tornavamo solo a dormire nei mesi freddi, o quando la scuola, ci diede delle regole più consone da rispettare. Mi ricordo le cene alla luce di un lume fatto con una latta e dell’olio bruciato che esalava del fumo nero, appiccicoso e maleodorante. Le falene giocavano incoscienti con la fiamma arancione, dai contorni bluastri.

    Facevo il bagno in una tinozza di plastica dura, con l’acqua che mia madre aveva riscaldato nel calderone d’alluminio annerito, e mi insaponava con un pezzo di sapone grezzo, compatto, scivoloso tra le mani. Un sapone preparato da Lei, usato anche al posto dello shampoo o per lavare i panni.

    Il caminetto, nella nostra famiglia, sia in campagna, sia in paese, simboleggiava il cuore pulsante. Dalle proprie braci derivava il calore dei nostri corpi, la luce calda delle stanze, il cibo fumante nei piatti: la nostra stessa salvezza.

    I rituali di una vita si svolgevano innanzi alle sue nere fauci, alla sua provvidenza lucente, trasformandolo in un tabernacolo laico.

    La memoria, almeno la mia, non è fatta di immagini, di colori o di contorni. Infatti, mi capita di studiare le poche, vecchie, foto e di non riconoscermi, come se le mie insicurezze avessero tratteggiato di me un profilo differente.

    Sono i sapori, gli odori, le fragranze, le sensazioni tattili e le emozioni, serbate intatte, in un angolo a tenuta stagna, nelle molecole del mio corpo, che innescano un meccanismo di nostalgia, una memoria involontaria, subcosciente.

    Il sapore sapido e denso della ricotta calda, fiocchi di latte candidi; la crosta bruciacchiata della lasagna dei giorni di festa; l’odore pungente di ammoniaca dei dolci di Pasqua, fragranti di forno; la dolcezza carica che stemperava l’amaro del caffè mischiato al latte della colazione; lo stupore di scoprire i primi chicchi scuri nella vigna, e sentirsi dire che era passato lo zingaro, un’allegoria suggestiva; il fermento di attesa per l’arrivo delle giostre in paese, nel giorno della celebrazione del Santo Patrono; il fruscio acquoso del grano, che scendeva nei sacchi di iuta, e la pula fastidiosa nell’aria; mia madre che batteva con una scarpa sul pavimento del piano superiore per chiamarci; il sentore di candeggina e di spezie delle sue mani.

    ***

    L’infanzia fu un percorso abbastanza ritirato: mi specchiavo nella natura, mi confrontavo con piante e fiori, lottavo col vento e con la pioggia, col freddo e la solitudine.

    Avevo un’abbronzatura costante, così persistente, anche nei mesi invernali, che negli anni a seguire, quando qualcuno mi tacciava di essere bianca come la carta, mi sbigottiva. Nella mente sopravviveva un riverbero di me, color carta bruciata.

    Se gli unici ragazzini con cui avevo contatti erano i miei cugini o i nipoti dei fittavoli, nostri vicini, esisteva, peraltro, una schiera di personaggi presenti a tal punto da influenzare la crescita mia e di mio fratello. Perlopiù erano vecchi agricoltori, cresciuti con i piedi piantati in quella terra, grassa e argillosa, figure scolpite dal sole, dalla fatica, dall’ombra degli alberi, tanto da somigliare al contesto da cui succhiavano gli ultimi residui di energia.

    C’era una coppia dalle fattezze circensi, lui esile, arido, pelle e ossa, somigliava a una pianta di biancospino in inverno, spoglio di morbidezza; lei, un donnone imponente, rotondo, la pelle tesa e lucida come le angurie giganti di fine estate. Erano affettuosi, nonostante fossero rudi e avari, come solo i contadini sanno essere.

    A giorni alterni, passavano in macchina, fermandosi a fare quattro chiacchiere, degli zii di mio padre. Considerati più in alto nella scala sociale, e trattati con una deferenza educata, esclusivamente perché avevano abbandonato le terre e si erano trasferiti in città, diventando commercianti. Lui era dimesso, placido, molto somigliante a mio nonno, suo fratello, e si muoveva e parlava col ritmo di un elemento d’orchestra, a ogni gesto e a ogni cenno della consorte, direttrice severa.

    Nonostante non avessi mai sperimentato la vita cittadina di quei parenti, sentivo che la loro realtà differiva di molto dalla nostra e che, senza rendersene conto, ci gettavano occhiate di compatimento.

    Altre famiglie, altre figure, apparivano e scomparivano nelle nostre giornate.

    Una persona, un signore, anche lui emancipatesi dal ruolo di contadino, ma che tornava, di tanto in tanto, malinconico, alle origini, tracciò, in maniera indelebile, un solco profondo e indissolubile nella mia piccola e ingenua vita.

    Lo vedevo arrivare dalla discesa, e mi bloccavo a osservare l’andatura regolare, l’eleganza sottolineata dal cappotto in inverno o dal bastone nella bella stagione.

    Era magro, con la carnagione giallognola di un fumatore, e i baffetti curati. Lo visualizzo alto e gentile, sebbene il ricordo arrivi dalla prospettiva di una bambina di quattro, cinque anni.

    Mi portava in regalo delle penne e dei quaderni. Niente

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