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Un'amicizia
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E-book183 pagine2 ore

Un'amicizia

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Info su questo ebook

Umberto Manfredini, vecchio medico in pensione, classe 1936, ha pensato di scrivere una specie di testamento spirituale che comprendesse l’amico di una vita, Giuseppe Galimberti, architetto. Di solito nessuno legge quelle che considera le lagne dei vecchi, ma è un peccato perché oggi pochi giovani hanno dei maestri con la voglia di trasmettere qualcosa prima di andarsene. I due protagonisti del racconto, due persone assolutamente reali, avrebbero voluto trasmettere valori e idee, evidentemente, però, non ci sono riusciti, forse perché persi dietro ai miti e ai sogni delle loro vite. I luoghi del racconto sono reali e molti li conoscono, invece alcune cose non sono vere, ma sono servite per poter giustificare l’invenzione letteraria.
LinguaItaliano
Data di uscita21 apr 2020
ISBN9788855129084
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    Anteprima del libro

    Un'amicizia - Umberto Manfredini

    Umberto Manfredini

    Un’amicizia

    Copyright© 2020 Edizioni del Faro

    Gruppo Editoriale Tangram Srl

    Via dei Casai, 6 – 38123 Trento

    www.edizionidelfaro.it

    info@edizionidelfaro.it

    Prima edizione digitale: aprile 2020

    ISBN 978-88-6537-639-3 (Print)

    ISBN 978-88-5512-908-4 (ePub)

    ISBN 978-88-5512-909-1 (mobi)

    http://www.edizionidelfaro.it/

    https://www.facebook.com/edizionidelfaro

    https://twitter.com/EdizionidelFaro

    http://www.linkedin.com/company/edizioni-del-faro

    Il libro

    Umberto Manfredini, vecchio medico in pensione, classe 1936, ha pensato di scrivere una specie di testamento spirituale che comprendesse l’amico di una vita, Giuseppe Galimberti, architetto. Di solito nessuno legge quelle che considera le lagne dei vecchi, ma è un peccato perché oggi pochi giovani hanno dei maestri con la voglia di trasmettere qualcosa prima di andarsene. I due protagonisti del racconto, due persone assolutamente reali, avrebbero voluto trasmettere valori e idee, evidentemente, però, non ci sono riusciti, forse perché persi dietro ai miti e ai sogni delle loro vite. I luoghi del racconto sono reali e molti li conoscono, invece alcune cose non sono vere, ma sono servite per poter giustificare l’invenzione letteraria.

    L’autore

    Umberto Manfredini è nato a Vienna nel 1936. Laureato in medicina a Pavia nel 1961 si è reso conto di essere diventato un vecchio quando l’Ordine dei Medici gli ha conferito la medaglia d’oro riservata a coloro che hanno compiuto i cinquant'anni di laurea. La cosa lo ha fatto incazzare e ha deciso di reagire scrivendo un breve romanzo, o se preferite racconto lungo, che vuole esprimere la speranza che i giovani ancora dotati di cervello si ribellino alla situazione in cui tanti disonesti li hanno posti facendo dell’economia un mostro e non un aiuto per l’uomo. Vi è molto di autobiografico, in quelle poche pagine, come sempre accade per qualunque cosa si scriva. A molti lettori sembreranno le parole di un sopravvissuto dinosauro, ma chi scrive spera che almeno due o tre lettori si trovino d’accordo con lui che si è reso conto di avere ancora il desiderio, e qualche residua energia, per fare, se necessario, una rivoluzione anche non del tutto pacifica per garantire un futuro ai suoi nipoti.

    Un’amicizia

    Capitolo I

    «T i senti molto male?» chiede con voce tranquilla colui che sta seduto vicino al letto all’uomo che vi è steso sopra.

    «Sopportabile» risponde ansimando questi e compiendo un certo sforzo per rispondere.

    Pur essendo adagiato comodamente su due cuscini il suo respiro è corto, accelerato e un poco sibilante.

    «Pensi di mandar giù qualcosa di solido o preferisci un the?»

    «Mi andrebbe bene un te se non ti dispiace ma ben zuccherato.»

    Sono in una stanza con le pareti di legno chiaro di abete, due letti accostati alle pareti della camera, due piccoli comodini anche loro di legno chiaro, il pavimento di larice è invece rossiccio. Una piccola stufa a cherosene emette un po’ di tepore. Dalla vasta finestra si vede una vallata in cui scorre dolcemente rumoroso il torrente fra macchie di betulle e boschi di abeti, qua e là ontani e belle piante di maggio ciondolo con i loro luminosi grappoli gialli. È maggio e le viole tricolor in larghe chiazze sono in piena fioritura ai bordi dei prati, i larici sono già coperti di teneri aghi verdi, le infiorescenze rosse in declino. Nei prati che circondano la casa montana l’erba ha già raggiunto l’altezza di una buona spanna, i crocus sono appassiti da poco, qualche soldanella alpina fa capolino tra l’erba e già si possono individuare quelli che diventeranno dei bei ranuncoli gialli, i meravigliosi «botton d’oro.»

    I due uomini sono evidentemente già carichi d’anni; ambedue di media statura l’uno quasi oramai calvo l’altro con ancora qualche ciuffo di capelli, residuo di una folta capigliatura giovanile; hanno una corta barba, sono sopra i settant’anni giudicando dalla pelle del viso e del collo. Quello che sta seduto si alza lentamente ed esce dalla stanza su un piccolo corridoio, su cui si aprono altre due stanze più piccole, inizia a scendere una scala in legno dai solidi e larghi gradini che lo porta in un vasto locale a pianoterra dove un grande tavolo con due lunghe panche ai lati occupa tutta la parte centrale, un letto coperto da una ruvida coperta di lana rossa e verde è lì accanto. Sotto la scala che ha appena disceso un piccolo spazio contiene un tavolo di minori dimensioni, tre finestre danno luce, la più grande si apre sopra un bel lavandino in pietra e cemento di quelli che oggi non si trovano più in giro. Da questa si vede l’intero fondovalle che è tutto una fila di creste su cui ancora indugiano residui di neve, una cima forma una specie di grosso corno di roccia sotto il quale si indovina una traccia di sentiero che attraverso una vasta pietraia porta, attraverso una bocchetta, nella valle confinante. Proprio nella parte centrale della testata di valle il filo argenteo del corso del torrente scende quasi diritto e sparisce dentro un bosco di abeti. L’uomo calvo si dirige a una piccola stufa a gas, accende uno dei fornelli e, riempito un pentolino con fresca acqua di monte lo pone sulla fiamma a riscaldare. Apre poi un armadio incassato nel muro, ne trae fuori una scatola di bustine di the, un vaso di zucchero, un tubo di latte condensato e si siede davanti a un camino spento aspettando che il liquido vada a bollore. Tutto il vasto locale, dalle bianche pareti di calce, porta appesi alle pareti una decina di busti di animali, camosci e caprioli di varie età, impagliati e ai quali l’imbalsamatore è riuscito a lasciare un aspetto tale da farli sembrar vivi; una decina di tavolette di legno supportano invece trofei composti da sole corna. Prima di risalire la scala con la bevanda l’uomo sembra salutare con un cenno del capo gli animali che, pur immobili, danno però l’impressione di seguirlo con lo sguardo. A uno, uno splendido cervo, fa un sorriso di saluto come si fa con un vecchio conoscente col quale basta un cenno per capirsi. Sale lentamente e il locale risuona al tremare dei robusti gradini di spesso larice sotto il pesante passo reso faticoso dalle grosse scarpe da montagna.

    Entra nella camera sorridendo all’amico e gli porge la tazza fumante dicendo: «questo come minimo ti tira su, ci ho messo un filo di grappa.»

    L’altro ridacchia e risponde: «grazie, penso che con queste medicine non crepo neanche questa volta, ma per dio che fatica respirare.»

    Stanno in silenzio mentre il malato beve lentamente, poi il calvo dice con esitazione e dolcezza: «Pippo vogliamo fare il punto della situazione e ridiscutere i nostri progetti alla luce del tuo stato di salute?»

    L’altro ha come un sussulto e con voce decisa e fremente risponde: «Eh no Berto, avevamo un patto e non intendo modificarlo; tu sai che cosa avevamo giurato e deciso di fare e il fatto che potessimo star male e anche morire era previsto per cui ora non cambiarmi le carte in tavola, qui siamo e qui vivremo finché sarà possibile, non mi va proprio di finire come un coglione qualsiasi in un letto di ospedale con le flebo al braccio e qualche sant’uomo che cerca di convincermi della verità dei suoi deliri mistici pensando di aiutarmi, e poi tu sei medico fai quello che puoi e tanti saluti. Vade retro!»

    L’amico sorride con dolcezza e dice «scusami volevo solo capire come stavi, vedo che sei vispo e penso che hai deciso, per ora, di non lasciarmi ancora solo e nella merda. Abbiamo già provato cosa vuol dire, nel bene e nel male, perdere la propria compagna e di dolori ne abbiamo avuti ma il nostro legame che dura ormai dalla prima elementare ci ha sempre permesso di sostenerci a vicenda e anzi ci ha fatto passare periodi indimenticabili! Oramai sono sicuro che sia l’Amicizia il vero sentimento nobile che supera di gran lunga tutti gli altri. Sai non è che temo la morte mia, preferirei andarmene prima io ma se mi manchi non so come affronterò la solitudine in cui mi troverò senza di te, non vorrei finire nel panico. Se ciò non fosse, nella nostra situazione, una forma di egoismo, andrei giù al piano a prendere un bel robusto cane, credo sarebbe bello averlo qua con noi. Solo mi angoscia pensare cosa ne sarebbe di lui quando a breve ce ne andremo, secondo le nostre previsioni. Comunque teniamo presente a breve questa possibilità nel caso durassimo più del prevedibile. Perché toglierci una gioia e un senso di sicurezza e anche l’amore di un altro amico sincero?»

    Tacciono a lungo pensosi senza guardarsi, si capisce che stanno rimuginando o ricordando ciascuno cose del loro passato.

    Poi Berto dice con voce bassa come sussurrando: «mamma mia come passa il tempo, ricordi quando organizzammo tutto questo e tre anni fa lo mettemmo in atto? Quei pochi conoscenti a cui ne accennammo ci guardarono come se venissimo giù dalla luna, per non dire dei figli che dissero chiaramente che eravamo dei pazzi e che non erano d’accordo!»

    Il detto Pippo guarda verso il soffitto e, con veemenza ma faticosamente, prorompe: «Per fortuna che eravamo ben determinati a decidere per noi stessi e li abbiamo mandati a cagare. Un uomo potrà ben decidere come vivere gli ultimi anni della sua vita eh! Quando lavoravamo come pazzi per dare loro ciò di cui avevano bisogno nessuno ha detto nulla, ora non facciamo altro che vivere solo per noi stessi e stiamo realizzano il nostro vecchio sogno: vivere senza dogmi, dove ci piace vivere, in sintonia con l’universo, seguendo il nostro piacere e realizzando la fine di cui abbiamo sempre parlato quando nelle notti passate qui davanti al camino acceso le nostre anime cantavano la gioia dell’autodeterminazione e il distacco dai desideri inutili e fasulli che abbiamo sempre vissuto come una violenza imposta da una società del consumo ormai in agonia.»

    «Lo so Pippo e se si avvicina il momento di darci l’ultimo abbraccio, non sarà quello di due femminucce, faremo al meglio ciò che avevamo progettato per noi stessi, ora vedi di riposarti, stasera penso di preparare un bel minestrone e stapperò una bottiglia di quello buono: ora vado a pulire la verdura.»

    Berto ridiscende la scala e a metà tragitto grida con voce allegra: «Vedi di tirarti fuori dal letto vecchio tacchino, se non scendi salti la cena»

    È ormai arrivato in fondo quando arriva la risposta.

    «Pensa a cucinare vecchio stronzo che a scendere ci penso io, non crederai di scolarti il vino da solo, vero.»

    Quando Berto mette sul fuoco il minestrone il sole sta calando dietro le cime a ovest, la luce comincia a salire sul versante a est della valle e due camosci vengono a brucare erba selvatica e le gemme di alcuni noccioli selvatici sui piccoli spiazzi erbosi che qua e là interrompono le nere pareti rocciose. Lui si pone a cavalcioni di uno sgabello e col binocolo, da sotto la grande tettoia di legno, li osserva e li segue nel loro lento brucare, si accende una sigaretta e torna indietro col pensiero ricordando interi pezzi di vita che lui e il suo amico del cuore hanno vissuto insieme crescendo come due animali selvatici e ribelli e sviluppando quella visione della vita che ancora li unisce, vicini come sono ora alla fine del loro tempo. È stato proprio in quella bella baita di montagna che hanno passato intere stagioni quando la scuola era finita aprendo le loro menti a un travaso di idee e di sogni. Quell’ambiente montano, un maggengo a 1.400 metri, ora è spesso deserto e abbandonato. Solo qualche anziano sale lassù per tenere un minimo in ordine la sua baita e buttare via i corpi dei topi che hanno finito tragicamente la vita sul vischio. Ma molto pochi pernottano, la maggior parte sale con il fuoristrada e rientra al piano subito dopo il calar del sole perché da vecchi il silenzio e la solitudine, il sibilar del vento o lo scrosciar della pioggia e i fulmini e i tuoni di un improvviso temporale estivo portano pensieri bui e aumentano paure antiche come l’uomo. Mentre da adulto, nel pieno delle forze, la tua casa di sassi ti dà un senso di sicurezza da vecchio, per le esperienze fatte e soprattutto per la sensazione chiara del tuo decadimento fisico, tornano i timori che avevi da bambino e il pensiero del pericolo di trovarti in una situazione in cui le tue forze non ti consentono di trovare una via di uscita ti mette angoscia. È come se tornassi bambino e fossi senza i tuoi genitori e ti coglie facilmente il panico e ne hai vergogna e paura. Quante volte si sentono anziani moribondi invocare la mamma con una voce che ridiventa infantile, supplicante. Basta però, a volte, la presenza e soprattutto la voce di qualcuno in cui hai fiducia per avere un senso di maggior serenità e soprattutto sentire aumentare la tua speranza di sapertela cavare Da giovane vuoi qualcuno per far l’amore o anche per mangiare in compagnia o per fare una passeggiata o andar per funghi il futuro sembra infinito, da vecchio vuoi qualcuno con cui parlare del significato della tua vita e la cui presenza ti dia la sensazione che ci sarà chi ti tiene una mano quando te ne vai. È un tempo nel quale si tirano le somme di quel che si è vissuto, è come se si volesse capire se la nostra vita è stata abbastanza retta e giusta, quali errori abbiamo fatto, e si cerca di convincersi che si può andarsene avendo portato a termine più o meno molto di ciò per cui sentivamo di essere nati. Si avverte il bisogno di far pace cogli antenati e si ripensa al passato per capire se si sono traditi i principi fondamentali che ci hanno trasmesso o indicato e nello stesso tempo con serenità si guarda agli errori commessi con coloro che hanno condiviso

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