Un'altra vita
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Stefano Morfini (1966) è nato a Firenze, dove lavora e vive con moglie, due figli e due gatti. Questa è la sua prima pubblicazione
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Anteprima del libro
Un'altra vita - Stefano Morfini
Stefano Morfini
Un’altra vita
© 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-5768-7
I edizione aprile 2022
Finito di stampare nel mese di maggio 2022
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Un’altra vita
A Stefania per il costante supporto.
A Francesco e Liliana, grazie ovunque voi siate.
Nuove voci
Introduzione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: «Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere».
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi, ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei Santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre, è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi, potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
«Può bastare un attimo per scordare una vita,
ma a volte non basta una vita per scordare un attimo.»
(Jim Morrison)
Capitolo 1
Apro gli occhi, buio pesto, non mi rendo subito conto di dove sono, ad orientarmi mi aiuta il gocciolio della pioggia, guardo la sveglia sono le 7.05: ho dormito benissimo, come sempre del resto da quando sono qua.
Indugio un po’ nel letto, perché come ti culla il rumore della pioggia non ti culla niente e nessuno.
Uscendo dalle coperte avverto il freddo che ristagna nella stanza: non mi fido a dormire con la stufa a legna accesa, preferisco la piacevole sensazione di disagio che da novembre a maggio accompagna il mio congedo dal talamo, così come il cigolio di sollievo della vecchia rete che sospira quando le tolgo un peso: il mio.
Apro gli impostoni in legno e mi godo la vista del prato, dei castagni, del bosco di abeti sullo sfondo di un verde profondissimo, lavato e lucidato dalla pioggia.
Respiro il profumo meraviglioso del terreno umido e soffice, gli odori di questa nuova vita, forse non meritata ma sicuramente sudata, odori che in quella precedente ho detestato, almeno quando sono stato in grado di percepirli.
Giunto a questa fase nuova della mia esistenza, non so se Iddio mi abbia ignorato, come avrei meritato, oppure abbia deciso che negli ultimi dieci anni avessi espiato abbastanza la mia quotidiana arroganza, comunque sia andata, il suo forse involontario contributo lo ha dato, visto che abito in una piccola colonica appoggiata alla canonica di don Marco, il mio proprietario e impresario: mi ha preso come affittuario in cambio di una cifra più che abbordabile – 300€ al mese, consumi compresi – per 50 mq di calpestabile composti da un cucinone
con lavello in pietra, cucina economica, tavolone, una lavatrice e naturalmente il caminetto, un bagnetto con doccia e, al piano di sopra, una camera matrimoniale.
Al canone di affitto devo aggiungere una disponibilità illimitata a provvedere ad ogni tipo di incombenza in cui può incorre il don: fantastico e benvoluto amministratore di anime oltre che grande consumatore di Chianti e tortelli.
Del resto, dopo dieci anni di stenti e di espedienti, a 62 anni, ho finalmente maturato il diritto ad una lauta pensione di 835€ al mese e il grado di perpetua è il massimo al quale potevo aspirare.
Non ho scelto la casetta di don Marco solo perché abbordabile economicamente, l’ho scelta perché con la sua aria rurale rappresenta quanto di più lontano ho rincorso nei primi 52 anni della mia vita, con il riscaldamento a legna, l’assenza della lavastoviglie, la luce delle lampade percorsa da brividi non appena ne accendo più di tre in contemporanea e il caminetto.
Scendo in cucina: due tronchetti nella stufa di ghisa, due fette di pane e marmellata, due mandarini, due tazze di caffè: l’intera moka nella tazza a bicchiere che ho trovato di corredo nella vecchia piattaia.
Stamani non ho compiti da svolgere: causa meteo mi risulta impossibile procedere con il restauro della staccionata che circonda la canonica, impossibile anche tagliare l’erba, non avendo lampadine da cambiare o sedie da incollare posso ritenermi libero di andare in paese a fare un po’ di spesa.
Un’altra novità di questa nuova era: ho scoperto che adoro camminare sotto la pioggia.
Indosso la vecchia cacciatora che ho trovato nell’armadio della camera e che ho salvato dal cassone della Caritas dove don Marco voleva destinarla, cappello cerato con tesa, scarpe antinfortunistiche con carrarmato gentilmente offerte dalla don Marco & co, zaino impermeabile in spalla e via.
Dal paese mi separa circa un chilometro da fare rigorosamente a piedi, per i primi 300 metri la strada è affiancata da un torrente poi entra in una sorta di galleria di rami di enormi castagni che scortano il viandante, come in parata, fino in paese.
Il gorgoglio del torrente lascia spazio al crepitio della pioggia sulle foglie dei castagni: un suono meraviglioso che trasmette pace, mi fermo sotto quella galleria per far sì che il rumore del mio incedere non disturbi questa melodia.
Non è un caso se i cileni hanno ideato il Palo de lluvia (cosiddetto bastone della pioggia
), strumento idiofono a scuotimento diffuso nel centro e sud America costituito da un tronco di cactus essiccato in cui vengono conficcate le spine della pianta e inserite al suo interno delle pietruzze o dei pezzetti di conchiglie che, muovendosi, riproducono lo scroscio della pioggia sugli alberi; i banchi di ogni fiera dell’artigianato o mercatino etnico ne offrono una vasta gamma.
Arrivo all’inizio del paese, entro da Tonino, la più vecchia fra le rare botteghe rimaste in un paesotto che si anima un po’ solo da giugno a fine agosto e che per il resto dell’anno è un’esposizione di persiane chiuse e tavoli da giardino incellofanati.
La bottega di Tonino è stata la bottega di Tonio il fornaio, nonno di Tonino, poi di Primo, babbo di Tonino, che ha aggiunto il banco degli affettati e infine è diventata di Tonino, che come garzone c’ha lavorato da quando aveva 13 anni, e da proprietario ha aggiunto il bancone del bar e lo scaffale dei tabacchi. Al posto dell’appartamento comunicante, dove è nato, ha ricavato una piccola trattoria con la cucina e due stanze che cubano