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Festina lente
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E-book358 pagine5 ore

Festina lente

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La morte improvvisa del più caro amico a causa di un'apparente overdose, il doloroso carico di sospetti, il riaffiorare di teneri ricordi: Festina lente è un viaggio attraverso il quale il giovane protagonista scoprirà una verità crudele. Un romanzo ambientato nell'Italia di oggi, dove cinismo e meschinità si intrecciano con la generosità e la solidarietà di compagni inaspettati; un percorso nel quale assumerà grande rilievo la presenza saggia e discreta di un anziano insegnante. Perché un vecchio professore in pensione è la guida migliore che un ragazzo possa desiderare.
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2015
ISBN9788893216845
Festina lente

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    Anteprima del libro

    Festina lente - Roberto Robert

    BIOGRAFICHE

    TITOLO

    ROMANZO DI

    ROBERTO ROBERT

    PRIMA EDIZIONE CARTACEA 2008

    EDIZIONE DIGITALE NOVEMBRE 2015

    A  CURA  DI  LIONELLO SCALISI

    Youcanprint Self-Publishing

    ISBN: 9788893216845

    CAPITOLO PRIMO

    Ciao, Massimo.

    Lo so, sarei dovuto passare a visitarti già da tempo. Scusami se non ci sono riuscito.

    Immagino che tu sia più tranquillo adesso, dovunque tu sia. Lo spero proprio.

    Non ho faticato per individuare la tomba, il marmo della tua lapide è ancora candido e le lettere e le cifre d’ottone sono lucide ed allineate per bene. Nei loculi attorno non è così, il tempo ha striato di grigio molte lastre e alcuni nomi e date presentano spazi vuoti.

    Abbiamo condiviso tanti anni di scuola, dalle elementari fino a quel tremendo momento, quello della morte di tuo padre. Graziano Caccia, muratore, anni cinquantuno, primavera del 92. Un volo dal ponteggio di un cantiere, un urlo, un tonfo. Una delle tante anonime disgrazie sul lavoro, il mattino dopo due colonne sul giornale con piazzata in mezzo una fotografia, un trafiletto in un angolo nell’edizione seguente poi più nulla, solo il dolore dei familiari. Tua mamma da allora si è chiusa sempre più in sé stessa tentando invano di mitigare con l’alcool la sofferenza per la scomparsa del marito; Sara, tua sorella minore, nel giugno dello stesso anno ha invece terminato le scuole medie; a luglio ci siamo diplomati, io brillantemente, tu con gran fatica.

    Privo di ogni velleità accademica hai iniziato ad arrangiarti con occupazioni saltuarie, piccole riparazioni, oggettini intagliati nel legno, alcuni quadri. Possedevi grandi abilità nei lavori manuali, unica eredità che ti ha lasciato tuo padre; così di fatto, seppur formalmente ancora residente al vecchio indirizzo familiare, ti sei accampato in un magazzino scrostato ricolmo di attrezzi e carabattole variopinte, lì hai potuto mettere a frutto le tue qualità.

    Siamo però sempre rimasti in contatto negli anni successivi al liceo. La tua vita si è progressivamente allontanata dal giro dei comuni amici mentre la mia si è invece incanalata verso l’agognato destino di molti: una laurea in filosofia, un buon lavoro, un inizio di indipendenza economica. Negli ultimi mesi, da quando la banca presso la quale lavoro mi aveva assegnato in modo definitivo alla filiale del centro città, i nostri rapporti erano ripresi con maggior frequenza, passavi spesso a trovarmi in ufficio suscitando ogni volta commenti non troppo benevoli a causa dei tuoi capelli lunghi e del tuo abbigliamento che con un eufemismo avrebbe potuto essere definito casual. Io ti dicevo di lasciar correre, di non farci troppo caso, tu mi rispondevi sorridendo che da tempo ci eri abituato. Capitava a volte che, dopo aver discorso brevemente di tutto e di niente, in modo velato accennassi al tuo bisogno di denaro. Quante volte ti ho allungato qualche banconota, Massimo, ricordi? Tu prima cercavi di rifiutarle, fingevi di vergognarti, poi te le ficcavi in tasca furtivo giurandomi e spergiurandomi che me le avresti restituite.

    E’ accaduto ancora pochi giorni fa, è l’ultima volta che ti ho incontrato. Mi sei sembrato diverso dal solito, Massimo, sei apparso più sereno, hai accennato ad una opportunità di guadagno che pareva schiudersi a breve, hai azzardato la promessa che mi avresti reso tutto il denaro che ti avevo prestato fin dall’inizio. Non ho dato particolare peso a quelle parole, ero certo che di soldi non ne avrei mai più rivisti, però ero contento di vederti sollevato, forse con qualche concreta prospettiva nella vita.

    Scusami, mi sono accorto solo adesso che non ti ho nemmeno detto una preghiera.

    L’eterno riposo dona a loro signore e splenda ad essi la luce perpetua riposino in pace amen.

    Stupido che sono.

    L’eterno riposo

    dona a lui,

    Signore,

    e splenda a lui

    la Luce perpetua.

    Riposi in pace.

    Amen.

    * * * * *

    Non avevamo partecipato in molti al funerale di Massimo. Forse fin troppi, considerando come aveva trascorsi gli ultimi anni della sua vita. Spesso siamo portati a giudicare l’esistenza di un uomo dal numero di persone delle quali si circonda, amici sinceri o postulanti interessati che siano; così facciamo anche nel momento della morte, quando durante le esequie molti si accalcano nei primi banchi delle chiese per poter dire: c’ero anch’io perché anch’io lo conoscevo.

    Per Massimo tutto questo non era accaduto, non c’erano né le folle dai battimani sguaiati che sovente si scorgono in televisione né la usuale partecipazione, composta e dolente, di un qualsiasi funerale. Ad accompagnarlo alla tomba sua madre, seduta all’angolo del primo banco, curva, minuta, aggrappata al braccio di Sara; accanto un paio di vecchie zie; più indietro s’intravedeva, rado, qualche vicino di casa. Avevo risalito lentamente la navata centrale della Chiesa dell’Incoronata superando le file vuote di banchi poste ai due lati fino a riconoscere due compagne dei tempi dello scientifico, Stefania e Miriam. Noi tre, equidistanti tra altare ed ingresso, sembravamo essere gli unici amici presenti in quella circostanza.

    L’antica parrocchiale settecentesca era illuminata dai grandi lampadari centrali, i faretti posti ai lati delle navate erano ancora spenti e il sole del pomeriggio novembrino filtrava fioco dai rosoni colorati. Con Massimo avevamo frequentato quella chiesa fin da bambini, facevamo entrambi i chierichetti alle celebrazioni di don Agostino, parroco che all’epoca aveva battezzato noi e la quasi totalità dei bambini del quartiere. Ci piaceva a quel tempo, qualche minuto prima dell’inizio della messa, traversare la sagrestia ed entrare nel campanile per suonare la grande campana che rintoccava forte in tutta la zona. Io e Massimo aggrappati, avvinghiati alla corda più ruvida e spessa, le mani rosse e quasi scorticate, appesi per fare a gara a chi avrebbe toccato per primo la volta a cupola della piccola stanza. Cesco, il sacrestano, ci implorava di smettere, ci saremmo fatti male; noi proseguivamo apposta, imperterriti, ci spingevamo con le gambe a molla sul pavimento per riuscire ad arrivare ancora più in alto. Ormai Cesco era morto da anni, don Agostino era invecchiato e noi due ci eravamo allontanati dalla chiesa; Massimo del tutto, la mia frequenza invece era rimasta saltuaria e riservata a Natale, Pasqua e poche altre occasioni importanti. Chierichetti non se ne vedevano più molti in giro, per le campane era stato montato un congegno elettronico temporizzato con le varie melodie.

    Don Agostino sbucò alle tre in punto, salì sull’altare con passo sofferto, i paramenti viola gli cascavano in modo irregolare dalle spalle curve. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, iniziò con voce roca facendosi il segno della croce, oggi accompagniamo con la preghiera il ritorno al Padre del nostro fratello Massimo. Cristo ha sconfitto il peccato e la morte, anche noi siamo chiamati a morire al peccato per risorgere alla vita nuova, continuò, riconosciamoci bisognosi della misericordia del Padre, amen.

    Il rito di introduzione, poi le letture.

    L’omelia.

    Non è facile, oggi, cercare di accettare questa morte. Non è facile soprattutto se ci limitiamo a ragionare in base ai nostri canoni esclusivamente umani. Non ci è facile capire il perché di una vita spezzata dopo poco più di trent’anni. Ma il Signore non ragiona guardando a trenta, a cinquanta o a cento anni, il Signore guarda nel cuore degli uomini, di quelli che ci lasciano e di quelli che restano nel loro immenso dolore. Il Signore guarda nell’intimo dell’animo di questa madre, di questa sorella, di tutti quelli che hanno voluto bene a Massimo e sa donare loro la forza di superare questa perdita. Don Agostino si fermò un istante, parve quasi riflettere su come proseguire, prese nuovamente fiato, sospirò, continuò pacato. Non è nemmeno facile avvicinarsi al mistero della morte senza perdere i nostri vizi, primo fra tutti quello di giudicare gli altri. Forse il nostro fratello Massimo non ha condotto una vita esemplare se valutata con i nostri criteri terreni. Forse lo abbiamo giudicato senza conoscerlo profondamente, senza capirlo. Abbiamo guardato i suoi vestiti, i suoi capelli lunghi, il suo modo di vivere così distante dal nostro, da noi che ci consideriamo normali. Ma il Signore non guarda all’esteriorità, guarda nell’animo di ogni uomo e di ognuno conosce il pensiero più recondito. Noi non sappiamo quale fosse il disegno di Dio per questo nostro fratello ma lo dobbiamo accettare con fede. Il Signore, nella sua grande misericordia, saprà restituirgli quel che noi gli abbiamo tolto, la dignità, l’ascolto, l’aiuto fraterno.

    Un ultimo soffio, congiunse le mani, tornò seduto sulla sua poltrona al centro dell’altare. C’era un silenzio assoluto, quasi irreale, scorsi la signora Caccia che con un leggero sussulto si mise a singhiozzare sempre appoggiata al braccio di Sara. Sinceramente non mi era parso che quelle parole le fossero state di particolare conforto.

    Massimo era morto di overdose, lo aveva stabilito il medico legale quando aveva esaminato il corpo. Il dolore della madre, il dolore di Sara, quello di noi pochi amici era reso ancora più lancinante da questo motivo. Eppure Massimo non era mai stato segnalato come tossicodipendente. Qualche bevuta, probabilmente qualche canna, nulla però che facesse presagire una fine con un ago in un braccio col corpo accasciato contro un muro. Io l’avevo visto prima di tutti gli altri il corpo di Massimo perché avevo accompagnato Sara immaginando e temendo di trovarlo, il vecchio cementificio d’altronde già in altre occasioni si era rivelato l’ultimo rifugio terreno di qualche tossico. Massimo – il suo corpo – stava leggermente girato su di un fianco, le gambe ripiegate all’indietro, le braccia aperte. Pareva un Cristo staccato da una croce e gettato malamente in un angolo, una Pietà blasfema più fredda del marmo. Il giorno successivo un breve trafiletto sulla stampa locale aveva riportato la notizia che Massimo Caccia, 31 anni, residente in città e ufficialmente privo di regolare occupazione, è stato rinvenuto privo di vita nel pomeriggio di ieri nei dintorni del cementificio. Le cause della morte sono da ascriversi ad overdose di stupefacenti così come stabilito dal medico accorso sul posto assieme al magistrato di turno ed alle forze dell’ordine. Il giovane lascia la madre ed una sorella. Negli ultimi due giorni avevo aiutato Sara a sbrigare le pratiche relative al funerale recandomi con lei presso i vari uffici comunali e da don Agostino.

    Solo terminato il Padre nostro, piegandomi appena di lato per scambiare il gesto della pace con le due ragazze in piedi accanto a me, intravidi sul fondo della chiesa una figura scarna che nel tempo mi era divenuta particolarmente cara: il professor Festina lente.

    Festina lente era in realtà lo scanzonato soprannome irriguardosamente affibbiato a Lanfranco De Benedictis, nostro insegnante di lettere del triennio. L’idea era stata di Massimo, l’aveva buttata lì ridendo una mattina in aula prima delle lezioni e la classe aveva applaudito con entusiasmo. De Benedictis si era ingegnato in tutti i modi per inculcare qualche nozione di latino nelle nostre teste svagate più propense alle infatuazioni giovanili che allo studio dei classici, e quando avvertiva la nostra incapacità montare rabbiosa di fronte a qualche consecutio particolarmente ostica se ne usciva con il suo motto preferito, Festina lente, appunto, affrettarsi ma con calma. Un ossimoro curioso per lo sbrigativo giudizio di noi ragazzi, benché il professor De Benedictis si fosse affannato spesso a ricordarci come fosse attribuito addirittura a Svetonio e come Aldo Manuzio lo avesse scelto come motto; probabilmente anche il celeberrimo Adelante, Pedro, con juicio di manzoniana memoria era in qualche modo debitore di questa massima latina. Per noi, giovani gaudenti e crudeli, Festina lente calzava invece a pennello in virtù delle spesse lenti da vista che il professor De Benedictis portava con rassegnazione alzando gli occhiali sulla fronte solo quando aveva necessità di guardare da vicino qualche testo dai caratteri particolarmente minuti.

    Certo De Benedictis non era l’unico tra gli insegnanti del liceo ad essere stato gratificato dalla nostra perfidia. Concetta Polimeni, giovane e procace professoressa di inglese abituata a strizzare le sue abbondanti forme in colorati microvestitini, si era beccata il nomignolo di Sesso Compresso. Giovanni Testini, professore di storia e filosofia alto poco più di un metro e mezzo, dal cranio completamente calvo e dalle lunghe orecchie a sventola, era Maestro Yoda come il saggio Jedi di Star Wars. Sergio Castellanza, monumentale professore di matematica dal ventre immenso e debordante che faceva ballonzolare davanti ai banchi della prima fila era stato soprannominato L’Epacinonda. Forse il buon Festina lente era stato ancora fortunato rispetto ai suoi colleghi.

    Terminata la frequenza universitaria, a differenza di quanto avvenuto con gli altri insegnanti, non avevo perso i contatti con l’anziano professore di lettere. Era andato in pensione un paio d’anni dopo la nostra maturità, mi capitava talvolta di incontrarlo presso i giardinetti del centro mentre seduto su di una panchina si dedicava alla attività tradizionalmente attribuita ai pensionati, la lettura del quotidiano locale, la Voce civica. Trascorreva parte della sua mattinata facendo scorrere per bene tutte le notizie, sia quelle cittadine che le nazionali, non mi stupivo più di trovarlo sempre aggiornatissimo anche sull’attualità più spicciola o banale. I primi anni mi capitava di salutarlo appena scambiando solo qualche convenevole; con il trascorrere del tempo invece, liberatomi a poco a poco dalla soggezione, ero entrato in confidenza con lui. Festina lente aveva sempre trattato noi studenti in modo molto formale, non freddo ma nemmeno particolarmente espansivo; l’avevo quindi scoperto sotto una luce diversa e più cordiale. Ormai quegli incontri mattutini erano quasi un piacevole inizio di giornata tanto che a volte, dovendomi muovere spesso a piedi nel centro cittadino, allungavo leggermente la strada per passare a fianco dei giardinetti e cogliere l’occasione di un saluto. Nelle ultime settimane tuttavia mi era accaduto di trovarlo più sofferente, mi pareva avesse anche meno voglia di scambiar qualche parola con me. Non che me lo facesse pesare, era affabile come al solito; eppure avvertivo come il parlare, il ragionare su di un qualsiasi argomento, il concentrarsi con la mente per manifestarmene i pensieri gli procurasse quasi una sorta di spossatezza fisica.

    Alla comunione mi ritrovai accanto il buon De Benedictis nella scarna fila che avanzava lentamente a fianco della mia, la sua mano ossuta mi strinse l’avambraccio con una forza inaspettata. Don Agostino era quasi al termine del suo ufficio, avrei potuto presto salutare il mio vecchio insegnante. Scorsi Stefania bisbigliare qualcosa all’orecchio di Miriam, immaginai che le stesse rivelando il mio stesso desiderio.

    Dal profondo gridai a Te, Signore; Signore, ascolta la mia voce, intonò il celebrante per l’ultimo rito funebre, le tue orecchie siano attente alla voce della mia preghiera, risposero i fedeli più anziani. Io e le due ragazze restammo in silenzio, eravamo gli unici dall’anagrafe postconciliare presenti oltre a Sara; non riuscivo a scorgerla in viso, certo di giaculatorie non doveva averne masticate molte nemmeno lei. Mi voltai invece leggermente per studiare il professore potendolo fare senza stargli troppo vicino, lo vedevo mentre intonava piano le strofe, il capo scosso da un lieve tremito che mi pareva essersi accentuato negli ultimi tempi. Mi rigirai di scatto quando mi accorsi che stava sollevando lo sguardo in avanti, non volevo farmi cogliere nell’atto di scrutarlo.

    Terminata la messa ci trovammo tutti fuori, la cassa venne portata a spalla dagli addetti dell’impresa comunale lungo la navata e caricata sul furgone che aspettava posteggiato a retromarcia davanti all’ingresso della chiesa. Due dei necrofori, notai con un senso di fastidio, masticavano una cicca in modo vistoso. Nel piazzale mi recai subito a porgere le condoglianze alla signora Caccia e a Sara abbracciandole entrambi, la donna non dette cenno di riconoscermi, la ragazza si chinò verso di lei spiegandole chi fossi. Un sorriso assente sul volto slavato, un ringraziamento mormorato piano, no, forse non aveva capito ma non era importante. Il carro funebre partì subito verso il cimitero, Sara con la mamma e le zie lo seguirono su di un’auto. Il sagrato era ormai vuoto, c’era solo il professor De Benedictis a fianco delle due ragazze che, a differenza di me, non lo vedevano da diverso tempo.

    Beretta, Locatelli e Ronchi. Siete venuti solo voi tre, a quanto pare, disse Festina lente abbracciandoci. Mi resi conto che ci aveva curiosamente elencato in rigoroso ordine alfabetico.

    Era la terza volta che un suo studente veniva a mancare, ci spiegò, però questa, tra tutte, era certo la più inattesa e dolorosa. Filippo Mancini era morto quattro anni prima in un incidente stradale, poi Gabriella Cassina, quella non ce la potevamo ricordare, era successo troppo tempo addietro. Ma Massimo non se l’aspettava, proprio no. Non così.

    Io non lo vedevo da un po’, sarà almeno da quattro o cinque anni, disse Stefania, non sapevo che si drogasse.

    Massimo non si drogava, affermai in modo perentorio.

    Ne sono sicuro, certo, l’avevo visto spesso, diverse volte era venuto nel mio ufficio. L’ho visto più di voi due messe assieme, cosa significa che non mi aveva mai detto niente? Certe cose si sanno, si percepiscono aldilà delle parole. Al cementificio l’ho trovato io, c’ero andato con sua sorella, Sara, ve la ricordate? Massimo non si drogava, aveva una sua vita un po’ strana ma sono sicuro che non si drogasse. Solo l’intervento di De Benedictis ci riportò alla calma impedendo che la situazione degenerasse. Mi scusai subito, restammo imbarazzati in silenzio per alcuni istanti.

    E lei, professore, come sta? domandò allora Miriam per riprendere il filo della conversazione. La trovo bene.

    Bene è una parola impegnativa, ragazzi, potrei stare meglio ma non mi lamento. Non bisogna mai lamentarsi della propria condizione, non serve a nulla, solo ad immalinconirci e non ci risolve di certo i problemi. De Benedictis non aveva perso il suo atteggiamento un po’ moralistico ma da tempo, a differenza di quando ci intratteneva durante le lezioni scolastiche, la cosa non mi dava fastidio. Lo osservai con attenzione, indossava vestiti di vecchio taglio ma ancora in buono stato, la cravatta era annodata con cura e le scarpe erano state lucidate per bene. Non si era mai sposato, sapevamo che viveva con una sorella anch’essa nubile che sbrigava le faccende domestiche di entrambi.

    Parlammo ancora un poco prima di salutarci poi ci abbracciò tutti e tre e si incamminò verso casa, restammo a guardare la sua figura allontanarsi leggermente curva, le mani dietro la schiena, il tremito del capo.

    Festina lente non si smentisce mai, disse Miriam, sempre compassato, sempre così formale.

    Però ci vuole bene, commentai sommesso, è venuto al funerale di un suo studente che non vedeva da un sacco di tempo, e si ricordava ancora di quella ragazza morta tanti anni fa.

    Lo sai che è sempre vissuto solo per la scuola, osservò Stefania.

    Cambiammo discorso, Miriam laureatasi in biologia si era dedicata all’insegnamento, Stefania invece lavorava nello studio di commercialista del marito. I soldi, le malattie dei figli, chiacchiere banali e consuete. Io invece che facevo, stavo a guadagnar soldi come al solito, mi chiesero. Gli introiti dei consulenti finanziari sono da sempre ammantati da un alone leggendario, in realtà nella maggioranza dei casi non sono poi molto più alti di un buon stipendio e io purtroppo non costituivo un’eccezione alla legge dei grandi numeri. Inutile che si ingolosissero, scherzai, c’erano in giro un sacco di miei colleghi impomatati come dei damerini e coi macchinoni tirati a lucido ma era tutto fumo, si vivacchiava. Certo, dite tutti così per non pagare le tasse, ribatterono, stetti al gioco, vado in ufficio altrimenti oggi non guadagno i miei diecimila euro quotidiani. Ci salutammo, ci scambiammo l’augurio di non doverci rivedere in un’altra occasione simile. Mi scusai di nuovo con Stefania per il mio atteggiamento di poco prima, lanciai un ultimo sguardo tutt’attorno. Il piazzale era deserto, sarei passato alla tomba di Massimo in un’altra circostanza.

    Per strada, camminando di buon passo per ritornare al lavoro, mi sorpresi a pensare su come fosse iniziata tutta la storia. Lunedì pomeriggio, due giorni addietro, Sara si era presentata all’improvviso con la sua sciarpa arcobaleno svolazzante attorno al collo e la sua sacca con un orsacchiotto di peluche appeso alle frange. Non era certo una nostra cliente tipo, lo avevano capito tutti. Io avevo richiuso la porta del mio ufficio alle sue spalle per non farle provare l’imbarazzo dei tanti sguardi che fingendo di svagare qua e là con ostentata noncuranza in realtà la spiavano di sottecchi. Le avevo porto una sedia, mi ero seduto al suo fianco e non dietro la scrivania perché forse, sentendosi maggiormente a suo agio, avrebbe potuto parlarmi in modo più libero.

    Massimo non c’è più, aveva attaccato lei tutto d’un fiato, non riesco a trovarlo, al telefonino non risponde, sono stata al magazzino e c’è tutto chiuso, non lo trovo. Avevo cercato di tranquillizzarla chiedendole di cominciare dall’inizio, lei mi aveva allora raccontato, non senza interrompersi più volte per soffiarsi il naso, di come Massimo non avesse più dato notizie di sé dalla mattina, o meglio dalla sera precedente. Non aveva dormito a casa e questo non rappresentava necessariamente un problema, tuttavia lei non era in grado di rintracciarlo e questo invece la inquietava perché non le era mai capitato. Aveva anche provato a recarsi dai Carabinieri ma senza esito, le era stato suggerito che per una denuncia di scomparsa, trattandosi di una persona ampiamente maggiorenne e per di più senza una dimora stabile, sarebbe stato meglio aspettare almeno ventiquattro ore. Non si poteva escludere l’ipotesi di un allontanamento volontario, nel qual caso non ci sarebbe stato molto da fare.

    Se la legge è quella non mi sembra che abbiano torto, avevo commentato io.

    Non lo so, aveva ribattuto lei, forse per la legge è così, ma la legge non può spiegare tutto, le paure, le ansie. Dov’è Massimo, Paolo, dov’è andato? E’ la prima volta che mi succede di non riuscire a trovarlo. Alla mamma non ho ancora detto niente, sai come sta …

    Non avrebbe potuto nascondere molto a lungo alla madre che il fratello era scomparso, per quanto sovente annebbiata dall’alcool e non perfettamente in sé anche da sobria la donna sarebbe tuttavia stata in grado di comprendere la situazione. Mi ero fatto passare il cellulare di Sara, c’era ancora l’ultima chiamata in memoria e avevo ritentato senza molta convinzione. La solita voce registrata, l’utente non è reperibile o ha il telefono spento. Sara aveva continuato a guardarmi, attendeva una mia ispirazione.

    Era possibile che andasse in qualche posto che noi non conoscevamo oltre al magazzino o che frequentasse qualcuno di strano, avevo chiesto per prendere tempo in attesa che mi balenasse velocemente qualche idea in testa. Forse qualche volta si recava al vecchio cementificio assieme a un suo amico, mi aveva risposto lei, un extracomunitario, Dudu, Dudo, uno col nome strano. Poi ne aveva sentito anche un altro di nome, ogni tanto le parlava di questi tipi ma lei non aveva mai dato tanto peso a quel che diceva. Si disperò, sono stata una stupida, Paolo, dovevo ascoltarlo veramente, dovevo cercare di capire come viveva, che problemi doveva affrontare. Avevo cercato invano di consolarla, sai, anche da me è stato qui spesso e non mi ha mai detto niente.

    Il vecchio cementificio era un complesso industriale abbandonato da anni che si trovava ai margini della città ed era ormai quasi fatiscente. Da quando era stato dismesso dall’ultima proprietà aveva progressivamente rappresentato il rifugio di vagabondi e sbandati, in tempi più recenti le presenze si erano incrementate a causa dell’afflusso di immigrati di ogni tipo e razza dediti alle più svariate attività, quasi tutte illecite. Saltuariamente le forze dell’ordine intervenivano per quella che nel linguaggio burocratico veniva definita una bonifica, per alcuni giorni i residenti si diradavano fin quasi a scomparire salvo rientrarci a pericolo scampato, tanto che in capo a pochi giorni la situazione tornava come prima. La stampa locale aveva riportato in diverse occasioni che in quel luogo, oltre al ritrovamento di un paio di drogati morti, si erano verificate liti e risse furibonde che scoppiavano a volte per un nonnulla, più spesso per motivi legati ai traffici illegali che svolgevano gli ospiti; quasi sempre, in quelle circostanze, per più d’uno si era reso necessario il ricovero a causa delle lesioni subite. Immaginare Massimo in quel luogo stava iniziando a procurami un sottile senso di angoscia, cercai vanamente di non trasmetterlo a Sara.

    Forse è meglio se andiamo a dare un’occhiata, aveva suggerito lei quasi intuendo i miei pensieri.

    Non sarai mica matta? Lo sai che ambientino è, quello, le avevo risposto cercando di forzare il tono di voce, in realtà recarsi sul posto era l’unica cosa da fare.

    Dai, andiamo, mi aveva incitato, dove hai la macchina?

    Non avevo opposto resistenza ma il brutto presentimento provato appena prima stava montandomi dentro sempre più. Non avevamo impiegato molto tempo, non era ancora l’ora di punta e in poco più di dieci minuti eravamo giunti all’estrema periferia della città vicini all’inizio della strada sterrata che portava, disegnando una ampia esse leggermente in discesa, al cementificio. Iniziava ad imbrunire, nel cielo arrossato svettavano i grandi cilindri metallici dei depositi, le gru d’acciaio sbilenche ed arrugginite, i nastri trasportatori, arti metallici immobili che parevano scarnificati dal tempo. Avevo sempre una torcia elettrica in auto, l’avevo presa con me anche se ancora ci si vedeva abbastanza, ci eravamo avvicinati con circospezione cercando di non fare troppo rumore. Non provavo paura, piuttosto un senso di fastidio nel trovarmi in un luogo tanto sporco. Ero vestito in modo abbastanza curato come era peraltro mia consuetudine quando lavoravo: gessato blu, scarpe impunturate, sciarpa leggera e soprabito scuro. Nonostante i miei sforzi di fare attenzione dopo pochi passi le scarpe erano ridotte da far schifo, lerce di un misto di fango e polvere d’ogni tipo, il soprabito rigato da sbavature biancastre. Sara sembrava più disinvolta di me nel muoversi in quel luogo, certo la ricercatezza nel vestire era l’ultima delle sue preoccupazioni.

    Avevamo scoperto ben presto che il cementificio era deserto. Giacigli improvvisati, stracci, cartoni, resti di cibo sparsi ovunque dimostravano la recente presenza di una umanità varia e misera della quale però non v’era più alcuna traccia sebbene quel luogo dovesse essere frequentato da decine di disperati, perlomeno così era sempre stato descritto dai mass media locali. Quasi avesse letto nella mia mente Sara aveva commentato come fosse veramente strano che nessuno sembrasse trovarsi in quel luogo, avevo avvertito in quella considerazione apparentemente banale il celarsi di una angoscia crescente per la sorte di Massimo e avevo cercato di tranquillizzarla, sono tutti venditori abusivi, sai com’è, saranno in giro con i loro borsoni pieni di mercanzia.

    La vecchia fabbrica era composta da alcuni grandi edifici in cemento ormai quasi del tutto scrostati e con le vetrate completamente in frantumi posti attorno ad un vasto piazzale rettangolare, su di un lato era rimasta quasi indenne dalla rovina la palazzina degli uffici, conservava un aspetto ancora decoroso in mezzo a tanta devastazione. Suggerii di entrarvi, era l’ultimo posto dove non avevamo ancora guardato.

    Avevo acceso la torcia, era ormai veramente buio, avevo indirizzato il fascio di luce un po’ dappertutto scrutando rapidamente locale per locale. Le stanze erano ricolme di vecchie attrezzature da ufficio, scrivanie, sedie sfondate, armadietti, scaffali, tutto ammucchiato alla rinfusa lungo le pareti e ricoperto da due dita di polvere, cartacce ingiallite erano sparpagliate in tutti i pavimenti assieme agli oggetti più disparati, frammenti di vetro, rifiuti di ogni genere. Avevo aperto ad una ad una le porte spingendole leggermente con la punta di un dito finché ero giunto di fronte ad bagno posto in fondo al corridoio, avevo puntato la torcia e gettato un’occhiata distratta. Ecco dov’era Massimo, dove stava il suo corpo immobile. Ecco perché il cementificio era deserto, perché tutti se ne erano andati via, scappati in preda al panico. Le forze dell’ordine prima o poi sarebbero giunte ad investigare interrogando ed identificando chiunque si fosse trovato in quel luogo, un tam tam invisibile si era probabilmente propagato in pochissimo tempo tra tutti quei disperati convincendo anche i più riottosi tra loro che per qualche tempo sarebbe stato meglio non farsi vedere.

    Avevo chiamato subito soccorso con il cellulare mentre Sara aveva lanciato un grido soffocando poi il pianto appoggiata alla mia spalla. Eravamo rimasti lì in piedi per un quarto d’ora, io avvolto nel mio soprabito scuro ormai tutto striato di sporco, lei accanto a me in lacrime. Non avevamo toccato Massimo – il suo corpo rigido - avevo dovuto faticare per convincere Sara a non farlo.

    Intorno al cadavere

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