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Le grandi dinastie che hanno cambiato l'Italia
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E-book1.012 pagine29 ore

Le grandi dinastie che hanno cambiato l'Italia

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Dai Giulio-Claudi agli Sforza, dai Medici ai Savoia

Prestigio e potere sono prerogative delle grandi famiglie, tramandati di padre in figlio fin dai tempi più remoti. Quelle italiane non fanno eccezione. Questo libro ripercorre in modo documentato e appassionato le vicende delle famiglie che hanno plasmato il destino dell’Italia, con i loro condottieri, feudatari, imperatori, capitani d’industria. Dalla gens Giulio-Claudia ai Gonzaga, dai Medici ai Borghese, dai Savoia agli Agnelli, gli alberi genealogici raccontano storie intrecciate alla Storia con la S maiuscola, storie di patrimoni creati dal nulla o consolidati di generazione in generazione. Nella gens romana, nella signoria rinascimentale, nelle casate imperiali, nelle dinastie dell’alta borghesia contemporanea, l’egemonia si è rafforzata per secoli attraverso matrimoni combinati, lotte intestine e adozioni mirate unicamente a garantire la trasmissione di un’eredità. Che si tratti di interessi politici, militari o economici, quello che emerge è uno scenario in cui la famiglia ha poco se non nulla a che fare con gli affetti…

Famiglie e uomini protagonisti della storia, disposti a tutto pur di mantenere il potere nelle proprie mani

Tra le grandi dinastie:
I Giulio-Claudi 
Gli Hohenstaufen
Gli Orsini 
I Caetani
I Colonna 
I Visconti
Gli Sforza 
Gli Este
I Gonzaga 
I Borgia
I Farnese 
I Medici
I Borghese 
I Barberini
I Borbone 
I Savoia
Gli Asburgo 
Gli Agnelli
I Berlusconi
Alessandro Moriccioni
nato a Roma nel 1980, è scrittore e divulgatore. Ha scritto C’era una volta. Riti, miti e vicende storiche che hanno ispirato le fiabe e le favole di tutto il mondo; Pionieri degli oceani. Viaggi intorno al mondo dall’alba dell’uomo a Cristoforo Colombo; Behind the Museum. La vita segreta dei musei. Ospite di diverse trasmissioni televisive ha condotto per due stagioni il programma online Terra Incognita ed è stato inviato della trasmissione Nero Toscana. Le grandi dinastie che hanno cambiato l'Italia è il suo primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2018
ISBN9788822726902
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    Anteprima del libro

    Le grandi dinastie che hanno cambiato l'Italia - Alessandro Moriccioni

    Avvertenza

    La storia delle famiglie, delle dinastie e delle stirpi che si sono succedute in Italia, e che abbiamo cercato di delineare, è spesso molto frastagliata. In alcuni casi non si conoscono i nomi di tutti gli appartenenti, in altri casi le tracce che sono state lasciate dai vari esponenti sono labili o del tutto inesistenti, per alcuni, invece, sono stati scritti un numero incalcolabile di libri. Consapevoli di esser ben lontani dalla completezza, abbiamo scelto di raccontare quei personaggi e quelle famiglie che più di altre, a nostro parere, hanno influito politicamente, economicamente, socialmente e culturalmente trasformando l’Italia nel paese e nella nazione che oggi conosciamo. Abbiamo provato a raccontare queste grandi famiglie inserendole nel periodo e nel contesto storico in cui videro il massimo del loro fulgore e della loro influenza, pur tratteggiandone, ove possibile e necessario, la storia dalle origini per arrivare, in alcuni casi, ai tempi moderni. La maggior parte dei testi utilizzati come apparato bibliografico sono stati volutamente selezionati tra quelli di facile reperibilità per dare al lettore che lo desideri l’opportunità di approfondire ogni argomento attraverso gli eccellenti volumi di facile consultazione che si trovano elencati nella sezione apposita. L’obiettivo dell’Autore del presente libro è sempre stato quello di proporre un’opera divulgativa, dunque non specialistica, che fosse piacevolmente fruibile da un pubblico di non addetti ai lavori.

    Introduzione

    Forse non ci avete mai pensato, ma cos’è esattamente una famiglia?

    Nella nostra moderna società occidentale, con il termine famiglia intendiamo quella cerchia ristretta di parenti prossimi che, in un modo o nell’altro, sia positivamente che negativamente, hanno, o hanno avuto, una grande influenza su di noi. Pensate ai genitori − il padre e la madre che ne sono il nucleo comunitario − ai fratelli e alle sorelle, o ai nonni e agli zii. Tutte queste figure completano un quadro non di rado molto nutrito. Nonostante questo, è nostra consuetudine considerare la famiglia in modo ancor più elementare, cioè come un trittico che si forma attraverso l’unione di «due individui di sesso differente e la loro prole»¹.

    Tuttavia, non è sempre stato così. Ancora oggi, questi parametri sociali, che sembrano assoluti, stanno lentamente cambiando attraverso i matrimoni omosessuali e le adozioni che ne possono conseguire, oppure con la progressiva scomparsa del vincolo del matrimonio in favore della perpetua convivenza.

    Il flusso inarrestabile del mutamento sociale che sta coinvolgendo la famiglia coesiste, a ogni modo, con situazioni opposte tutt’altro che libertarie, dove il padre è padrone e decide della vita e della morte di moglie, figli e nipoti. Questo accade ancora oggi in molti dei villaggi rurali dell’India, per cui se si rifugge dalla volontà paterna di sposare l’uomo o la donna scelti dal patriarca si può andare incontro alla morte per mano degli stessi familiari. In molte culture, la famiglia non rappresenta la culla degli affetti e può avere obiettivi e interessi diversi da quelli concepiti dai più, soprattutto se la famiglia in questione ricopre cariche politiche importanti, come la guida di una nazione, oppure possiede titoli nobiliari o un ruolo rilevante dal punto di vista economico e commerciale. È così che sono nate le dinastie. Spesso, dove si trovano il potere e la ricchezza, si possono anche trovare potenti famiglie decise a non lasciarseli sfuggire.

    Il concetto di dinastia si è imposto storicamente, almeno nell’immaginario comune, grazie all’intervento del sacerdote egiziano Manetone che nel iii secolo a.C. scrisse gli Aegyptiaca, una storia dell’Egitto in cui propose una lista di sovrani suddivisa proprio in dinastie, anche se il termine utilizzato, in questo caso, non è sinonimo né di genia né di parentela. Non sempre almeno. In molti casi, nelle dinastie egizie troviamo una successione di generali oppure, come nel caso di Amenofi iii e Akhenaton, la linea di discendenza non è certa. Una dinastia egizia è dunque una convenzione con cui gli studiosi incasellano un periodo di relativa stabilità di un regno; non è importante, o almeno risulta casuale, che appartenenti della stessa famiglia ne siano gli esponenti e anche in quei casi, le famiglie interessate sono da considerarsi al plurale, cioè frutto di diversi nuclei parentali formatisi attraverso incroci e alleanze.

    Qualcosa di simile, nella storia, ha riguardato anche i clan, come quelli scozzesi, formati da persone di norma imparentate e discendenti tutte da un comune antenato. Tuttavia anche nei clan si trovano elementi senza vincoli di sangue, quindi non appartenenti allo stesso lignaggio, ma legati simbolicamente da un animale totemico oppure da interessi comuni.

    Ciò non toglie che il significato preciso di dinastia sia proprio quello definito dalla Treccani ovvero «l’insieme dei sovrani di una medesima famiglia, anche di rami diversi, succedentisi in uno stesso paese o in paesi diversi. […] Per estens., riferito a famiglie nobili, a famiglie di grande potenza finanziaria, e anche a famiglie o a scuole in cui si perpetui una grande tradizione d’arte»².

    La famiglia, dunque, prima di tutto. È il solo modo di mantenere il prestigio e il potere. Creare vincoli e parentele tra grandi famiglie è una modalità molto antica.

    Sin dall’inizio della loro storia, i romani diedero grande importanza al «vincolo indissolubile del matrimonio finalizzato alla procreazione» fondando la loro gloriosa società sul concetto di stirpe³. Fare figli era necessario per non estinguersi, anche perché se una famiglia riteneva di aver avuto un ruolo attivo nella nascita e nei successi politici di Roma, scrivono Frediani e Prossomariti ne Le grandi dinastie dell’Antica Roma, «i suoi membri tenevano in particolar modo a proseguire la loro stirpe: come per tutti i potenti, era soprattutto un modo per perpetuare se stessi, il loro potere e la loro influenza sulla società»⁴.

    Con l’avvento dell’impero, per risolvere il problema dell’assenza di un erede diretto, diversi imperatori ricorsero alla pratica dell’adozione, come accaduto a Traiano che fu adottato da Nerva nel 97 d.C. Ma si tratta di una parentesi della durata di soli cento anni.

    Durante il medioevo, precisamente nel xii secolo, iniziano ad apparire i cognomi, assenti nella documentazione dei secoli precedenti, dove ci si firmava col solo nome e raramente col patronimico (l’espressione che indicava il vincolo paterno). Gli storici hanno faticato non poco a ricostruire l’ascendenza di famiglie prive del cognome ideando sofisticati metodi per risalire alle «dinamiche dei gruppi familiari che hanno lasciato sufficiente materiale documentario»⁵. Le ricerche hanno dimostrato che nel medioevo la famiglia era basata sulla semplice formula padre, madre e figli che, all’occorrenza, poteva essere estesa con relazioni che andavano nella direzione degli interessi e delle opportunità che via via si presentavano. Nelle zone rurali, si sviluppa poi la cosiddetta famiglia di stampo patriarcale, legata alla necessità di utilizzare l’intera forza lavoro (bambini compresi), che resisterà sino al xx secolo.

    Tuttavia, durante l’età di mezzo, sarà il matrimonio religioso a incidere maggiormente sul cambiamento sociale, poiché si assiste all’introduzione di una specifica demarcazione tra la legittimità e l’illegittimità di una discendenza e addirittura nasce, per l’aristocrazia, uno statuto araldico specifico⁶.

    A ogni modo l’obiettivo delle famiglie nobili è sempre lo stesso, come scrive Ludovico Gatto ne Il Medioevo giorno per giorno:

    A sorreggere e potenziare il nucleo familiare contribuisce anzitutto il patrimonio immobiliare e mobiliare, teso a regolare la vita dei singoli nella collettività e a dare prestigio politico ed economico alla discendenza. […] Allora si scelgono case contermini o non lontane. Le famiglie più importanti formano addirittura un consorzio con i suoi statuti ed eleggono membri cui sono affidati i compiti di assicurare la protezione del casato, di costruire torri, di dirimere controversie.

    Il potere, il prestigio e l’egemonia sono sempre correlate all’azione delle grandi famiglie nel corso del tempo. Ed è a cavallo del Rinascimento che, in Italia, sorgono i casati più importanti, tra cui i Medici, gli Sforza e i Cybo. È tra tardo medioevo e Rinascimento con i comuni, le signorie e le città stato che assistiamo a rivalità importanti, a scontri e alleanze che sembrano la trama di un romanzo.

    La storia d’Italia dunque, dove ancora oggi in molte regioni l’influenza della famiglia è parte integrante del tessuto relazionale di figli e nipoti, è costellata di vicende dinastiche intrise di assassinii, violenze, nepotismi; pensate alla saga dei Borgia durante il loro dominio su Roma. Così come spesso la brama di potere e ricchezza portò, di contro, al fiorire del mecenatismo e all’eccellenza delle arti; Michelangelo dipinse la volta della Cappella Sistina per volere di Giulio ii Della Rovere.

    A Venezia esser doge fu spesso un affare di famiglia, tra i Mocenigo ce ne sarebbe addirittura uno, Tommaso, che, dopo aver profetizzato nel 1423 l’elezione del suo successore e la rovina militare di Venezia, oggi se ne andrebbe in giro in forma di spirito a infestare le calle.

    Le epoche successive non fanno differenza, si susseguono casati nobiliari, re e imperatori. Si affacciano alla storia i Bonaparte, i Borbone, gli Asburgo, i Savoia. Cambia l’Europa, nascono stati, cadono regni e mutano anche le famiglie.

    Durante il Risorgimento, grandi uomini d’azione agiscono per il bene di una patria in costruzione che diverrà poi il Regno d’Italia e alcuni appartengono a famiglie di guerrieri; pochi lo sanno ma, oltre al famoso Giuseppe, altri Garibaldi presero parte alle stesse battaglie.

    Con l’avvento dell’industrializzazione, poi, e il disastro delle due guerre mondiali, si affermano, a discapito delle decadute famiglie nobili, dinastie borghesi capaci di influenzare la politica col proprio peso economico. Cambiano gli assetti della politica, dunque, cambia il modo di governare, ma sono spesso le famiglie di importanti industriali e scaltri imprenditori a muovere i fili da dietro le quinte e, sempre più spesso, dal palcoscenico stesso.

    La famiglia è quindi un nucleo importante e, se coeso, inattaccabile. La storia ne è testimone da secoli e lo vedremo intraprendendo questo viaggio alla scoperta delle dinastie che hanno cambiato la storia d’Italia, entrando in contatto con i personaggi che le hanno rese grandi e con tutte le loro storie e curiosità. C’è chi afferma che le sorti del mondo siano nelle mani di pochi individui ricchissimi appartenenti a famiglie antiche e importanti; che sia vero oppure no, la storia che stiamo per raccontarvi, seppure circoscritta alla penisola italiana, ha come protagonisti uomini eccezionali, donne straordinarie e schiatte in lotta per il potere.

    Tutto questo ha avuto un solo e unico risultato: ha profondamente trasformato la nostra cultura portandoci a essere ciò che siamo oggi.

    1 Umberto Galimberti (a cura di), Psicologia, Garzanti, Torino 1999, p. 412.

    2 www.treccani.it/vocabolario/dinastia/

    3 Andrea Frediani – Sara Prossomariti, Le grandi dinastie dell’antica Roma, Newton Compton editori, Roma 2017, p. 7.

    4 Ibidem.

    5 aa.vv., Medioevo, Garzanti, Milano 2007, p. 630.

    6 Ibidem.

    7 Ludovico Gatto, Il Medioevo giorno per giorno, Newton Compton editori, Roma 2016, pp. 109-110.

    Parte prima (753 a.C.-i secolo d.C.)

    1. Roma. Dalla fondazione all’impero

    Le prime famiglie e dinastie che, in un modo o nell’altro, ebbero una qualche rilevanza nella storia d’Italia, si originarono a Roma subito dopo la sua fondazione e si distinsero fondamentalmente in campo politico e militare. In origine per Italia si intendeva la porzione meridionale della penisola che era occupata dai greci. Nel iii secolo con lo stesso nome si indicava, invece, quasi tutto lo stivale a eccezione di una parte del settentrione. Fu solo sotto Augusto, nel i secolo a.C. che per Italia s’intese tutto il territorio comprensivo delle Alpi. Così come il concetto di Italia si estese sempre di più nei secoli a seguito dell’espansione romana anche l’apporto delle grandi famiglie ebbe lo stesso destino originando il proprio dominio e la propria influenza a Roma.

    È a Roma che tutto ha inizio, un giorno giungeranno famiglie straniere molto influenti e potenti, ma per ora la storia di Roma è la storia di queste famiglie e la storia di queste famiglie è la storia d’Italia.

    Ma in quale contesto storico si mossero i personaggi che stiamo per conoscere? Quali furono le vicende che coinvolsero e resero grandi le famiglie che ancora oggi la storia ricorda?

    Per inciso, tutto ciò che vi racconteremo in questo volume è il frutto della sintesi stringata di quasi duemilaottocento anni di storia complicata ma estremamente affascinante.

    Fondazione di Roma e periodo regio

    Attorno al 1000 a.C. l’Italia era abitata da un gran numero di popoli e tribù fieri della propria indipendenza e completamente diversi l’uno dall’altro. Possedevano una lingua propria, un diverso livello di civilizzazione, tradizioni, usi e costumi differenti. Pensate, solo sul territorio italiano gli studiosi hanno identificato circa quaranta lingue, tutti idiomi indoeuropei.

    Tra l’viii e il vii secolo il quadro comincia ormai a delinearsi; l’Italia è divisa in alcune ampie aree culturali: in Toscana, a nord del Tevere e fino all’Arno vivevano gli Etruschi; in tutta la fascia appenninica, nell’Italia centro-orientale e, a occidente, fino ai confini del Lazio e della Campania vi era un vasto gruppo di popolazioni parlanti lingue indoeuropee, divise ma con caratteristiche comuni individuabili, alle quali è stato dato il nome di Italici o, più precisamente, di Osco-Umbri o Umbro-Sabelli, una definizione che si fonda sulla lingua.

    L’Italia meridionale e la Sicilia cominciano a essere dominate dalla colonizzazione greca, che stava creando una lunga teoria di città sulle coste dello Ionio e del basso Tirreno, e stava raggiungendo un modus vivendi con le popolazioni indigene, del resto ancora non numerose in quelle regioni.

    Dunque, all’atto della sua fondazione, tradizionalmente ascritta al 753 a.C., Roma si trovò a confinare con gli etruschi, con i sanniti e con i sabini. La città che un giorno avrebbe dominato il mondo conosciuto, era formata da un gruppo di villaggi composti da casette di paglia e capanne sparse senza una logica urbanistica, abitate da pastori e sorte in un paesaggio ricco di collinette e facili da difendere; il terreno di origine vulcanica era estremamente fertile e il fiume Tevere permetteva un comodo accesso al mare. Tutte queste caratteristiche favorirono la crescita del centro urbano e contribuirono al rafforzarsi della popolazione. Il successivo mito di fondazione con la storia di Romolo e Remo è noto, così come quella di Enea profugo di Troia e unico sopravvissuto alla celebre battaglia descritta dai poemi omerici che sarebbe stato il progenitore della stirpe romana. Romolo, primo re di Roma, avrebbe fondato la città dando poi asilo a tutti gli emarginati, i criminali, gli esuli e gli stranieri entro i suoi confini, creando una vera e propria società multiculturale.

    Morto Romolo, Roma ebbe diversi re tutti stranieri. La carica non si ereditava e si doveva passare per un breve interregno durante il quale si decideva chi sarebbe dovuto salire al trono e si lasciava al popolo l’ultima parola sulla figura scelta. Sembra che il punto di vista della popolazione fosse piuttosto importante e, in qualche modo, questa usanza si è radicata tanto da contribuire a gettare le basi dell’idea repubblicana.

    Dal momento che dell’epoca monarchica non esistono resoconti storici contemporanei – una storia che partiva dalle origini di Roma, ad esempio, fu scritta nel 216 a.C. negli Annali da Fabio Pittore, un esponente dell’importante e antichissima famiglia dei Fabi di cui parleremo nel prossimo capitolo – la maggior parte di quanto state leggendo si evince dai reperti archeologici. Del resto tutte le fonti scritte che possediamo sono di molto successive ai fatti narrati e i reperti provenienti dagli scavi archeologici ci danno solo un’idea generica di quanto accaduto veramente. Peter Jones, nel suo Breve storia di Roma, osserva:

    In un mondo ideale potremmo pensare che tali scavi potrebbero dirci se i racconti degli storici sono attendibili, ma tutto ciò che l’archeologia ci fornisce sono reperti materiali: essa non ci fornisce storie (a meno che dagli scavi non emergano dei testi). Nel migliore dei casi è in grado di fornirci una serie di istantanee di tendenze ed evoluzioni materiali, dalle quali possiamo ricavare informazioni importantissime, per esempio di come un popolo divenga più ricco, più povero o più urbanizzato al contatto con altre culture, e via dicendo.

    Ed ecco che sono proprio le prove archeologiche a farci comprendere quanto accadde a Roma dopo la sua fondazione. Sotto i suoi re, la città iniziò a ingrandirsi ed evolversi gradualmente ma con rapidità divenendo una vera e propria realtà urbana e, combattendo contro le popolazioni vicine, iniziò a espandersi conquistando nuovi territori entrando in contatto diretto con sempre nuove culture.

    I romani erano un popolo guerriero e, nei primi anni, combattevano spesso. Le guerre più impegnative duravano al massimo un paio di giorni e si svolgevano nei periodi in cui i soldati contadini di cui disponevano i capi non dovevano necessariamente essere al lavoro nei campi.

    La rapida espansione romana si coglie anche grazie alla diffusione della loro lingua. Il latino, che nei reperti riesumati dagli archeologi non compare prima dell’viii secolo in forma scritta, si diffuse seguendo l’evolversi del dominio romano e sostituendo man mano le varie forme linguistiche locali.

    L’evoluzione culturale di Roma si nota anche nei nomi dei suoi personaggi illustri. All’inizio ci si appellava a un uomo chiamandolo con l’unico nome che possedeva, anche perché era più che sufficiente averne uno, pensate a Romolo o a Remo. Più avanti i nomi diventarono due come per Numa Pompilio o Anco Marzio. Poi tre, Lucio Tarquinio Prisco o Lucio Tarquinio il Superbo. È un nuovo sistema di identificazione che si sviluppa con l’allargamento della società romana. Nel doppio nome, infatti, si iniziò a identificare anche la famiglia di appartenenza: la gens. Quando anche questo modo di chiamare le persone non fu più sufficiente – siamo ormai in età repubblicana – fu aggiunto un nome identificativo ereditato dalla famiglia. I nomi dei personaggi del passato, anche quelli di cui è dubbia la realtà storica, danno un’idea precisa di questo sviluppo sociale.

    Tra il 716 e il 674 a.C. avrebbe regnato sulla città il secondo re di Roma dopo Romolo, Numa Pompilio e fu lui ad attribuire a un oscuro funzionario, il pontifex, tutte quelle funzioni che più avanti avrebbero caratterizzato la massima personalità religiosa di Roma. Il pontifex maximus, infatti, avrebbe raccolto attorno a sé tutta una serie di compiti che andavano dallo stabilire il luogo e il prezzo di un sacrificio pubblico alla corretta modalità di una sepoltura. Insomma, Numa gettò le basi di quello che sarà un ruolo molto importante e rispettato; una carica a vita di cui saranno investiti anche degli atei come Giulio Cesare che ben ne comprendevano l’importanza politica. Questa sorta di «esperto canonico», come lo definisce lo stesso Peter Jones, si fonderà inesorabilmente con il cristianesimo generando una nuova idea di pontefice massimo, quella rivestita dal papa.

    Anco Marzio, che fu il quarto re di Roma tra il 641 e il 617 a.C., almeno secondo la tradizione, diede un primo impulso al commercio romano avviando delle saline nei pressi di Ostia. Il sale oltre a dare sapore al cibo forniva un ottimo conservante per la carne. La tecnica per estrarlo era nota all’uomo almeno dal 6000 a.C. e il sale fu una preziosa risorsa economica per Roma. Una curiosità: mai e poi mai i soldati romani ricevettero il loro stipendio in sacchetti di sale. A differenza di quanto comunemente si crede, si tratta di una leggenda messa in giro da Plinio il Vecchio che cercava di spiegarsi per quale astruso motivo la paga dei soldati fosse detta salarium

    Al sesto re di Roma, Servio Tullio regnante tra il 578 e il 534 a.C. fu invece attribuita la decisione che gli schiavi liberati divenissero immediatamente cittadini romani. Sembra che questa credenza si sia formata sull’assonanza del termine servus, che in latino sta per schiavo, col nome stesso del re. Chiunque abbia introdotto veramente questa novità assoluta, in un periodo in cui la schiavitù era diffusissima in tutta l’area mediterranea e oltre, creò un unicum liberale tra tutte le civiltà allora esistenti.

    Tarquinio il Superbo, settimo e ultimo re di Roma che governò tra il 534 e il 509 a.C. è descritto come un tipico tiranno greco che giudicava i reati capitali in prima persona mandando al patibolo chiunque volesse, espropriando i beni di quanti aveva condannato a morte. Era anche un guerrafondaio e i romani mal lo sopportavano tanto che Tarquinio era costretto a girare con accanto una guardia del corpo. Forse non c’è nulla di vero in queste storie, ma il passaggio alla repubblica deve essere avvenuto a causa di una rottura col sistema monarchico andato certamente degradandosi.

    Alla fine del periodo ricordato come quello dei sette re di Roma, un terzo del Lazio era stato assoggettato dai romani e gli abitanti della città erano saliti di numero fino a raggiungere le quarantamila unità. Roma era una città piuttosto grande rispetto a tutte quelle della regione. Basti pensare che ora era oltre il doppio di Tivoli, la seconda in classifica. Questa città nata sulle rive del Tevere, all’ombra dei sette colli, era già la maggiore potenza di tutto il Lazio.

    L’avvento della repubblica

    Ma cosa causò la fine dei re di Roma in favore di una nuova, più democratica, forma di governo?

    Stando a quanto narra la tradizione, nel 509 a.C. Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo, avrebbe stuprato Lucrezia moglie di un nobile romano. Disonorata nel profondo, Lucrezia si tolse la vita e il marito Collatino, imbestialito, decise di intervenire contro Tarquinio assieme a Lucio Giunio Bruto per cacciare a pedate il re dalla città. Sarebbe in conseguenza di questo evento che l’idea repubblicana iniziò a farsi strada nella mente e nella politica dei romani.

    Durante il caos antimonarchico gli etruschi di Porsenna cercarono di restaurare Tarquinio il Superbo sul trono di Roma ma Orazio Coclite difese l’unico ponte che dava accesso alla città con grande coraggio – stile Die Hard – mentre i nemici rimasero a bocca asciutta.

    I romani, in fuga precipitosa, si riversarono in direzione del ponte Sublicio (unico ponte sul Tevere a quell’epoca) per scappare. Orazio Coclite, di guardia presso il ponte, li chiamò a raccolta dicendo che avrebbe difeso l’ingresso dal lato etrusco mentre gli altri romani lo avrebbero demolito alle sue spalle. Coclite, con l’aiuto di Spurio Larcio e Tito Erminio Aquilino, tenne a bada gli etruschi finché il ponte non cominciò a farsi pericolante. Orazio Coclite ordinò agli altri due di tornare indietro, e il ponte crollò. Elevando una preghiera al dio del fiume, armato di tutto punto si tuffò nelle acque del Tevere e finalmente riapprodò sulla riva romana.¹⁰

    Una curiosità: Lucio Giunio Bruto apparteneva alla stessa famiglia di quel Marco Giunio Bruto che nel 44 a.C. assassinerà Giulio Cesare. Pare che Marco avesse in casa una statua del celebre antenato e che ne abbia in qualche modo ricalcato le gesta; il primo aveva cacciato un re favorendo la nascita della repubblica, mentre il secondo aveva eliminato un uomo che poteva proclamarsi re nella speranza, forse, di restaurare la repubblica¹¹.

    Nel 507 a.C. Cartagine la potenza mediterranea del Nordafrica si affrettò a firmare un trattato di non belligeranza con Roma (che nel frattempo era diventata una repubblica) riconoscendone di fatto l’importanza e il potere.

    Nel 493 a.C., dopo alcuni conflitti, latini e romani si unirono e Roma si espanse ulteriormente entrando in guerra con i popoli della Sabina, con i volsci e con gli equi. Nel 395 a.C. i romani sottomisero la città di Veio che aveva resistito agli attacchi per nove lunghi anni, e altri centri che furono immediatamente colonizzati con l’introduzione di nuove forme di amministrazione. Che non si poteva vincere sempre, e contro chiunque, i romani lo impararono presto. Nel 386 a.C. i galli, che si erano stanziati nell’Italia settentrionale dopo esser giunti da varie regioni europee, essendo un miscuglio di popoli provenienti da Svizzera, Francia, Belgio, Germania e Paesi Bassi, attaccarono Roma entrando in città e, abbandonandosi a ogni sorta di violenza e di razzia, incendiando buona parte dell’antico abitato. Fu uno shock per la popolazione e ci vollero diversi chili d’oro per convincere i galli a desistere e a tornarsene da dove erano venuti. Si dice, infatti, che quando la scarsità di viveri iniziò ad affamare i due schieramenti il condottiero gallo Brenno accettò di riscattare Roma in cambio di mille libbre d’oro, ma i galli usarono dei pesi diversi rispetto all’unità di misura dei romani, riuscendo a ottenere un bottino migliore. E Brenno pare ci abbia messo del suo quando, alle lamentele dei romani, rispose gettando la sua spada sul piatto della bilancia aggiungendo ulteriore peso alle pretese avide dei galli. Sembra che abbia anche minacciato i romani dicendo loro «Guai ai vinti!», ovvero «pagate e tenete la bocca chiusa se non volete altri guai…».

    Sul fronte più interno Roma continuò i suoi scontri con gli equi e con i volsci assoggettandoli definitivamente nel 351 a.C. circa. Ma della guerra i romani non ne avevano mai abbastanza. Così iniziarono a spingersi verso sud scontrandosi con i temibili sanniti che contarono spesso sull’appoggio dei redivivi etruschi e su quello dei galli. I sanniti erano un popolo di pastori non molto evoluti che vivevano in villaggi sparsi nell’Italia centro-meridionale avvezzi al saccheggio e alle razzie che si erano spostati, per via dell’aumento della popolazione, nelle zone in cui si erano espansi i romani. Ci vollero tre sanguinose guerre per sbarazzarsene, ma nel 280 a.C. la situazione volgeva in favore di Roma anche grazie alla resa dell’Etruria centrale avvenuta nel 308 a.C. Insomma, il dominio sull’Italia (almeno quella che si considerava all’epoca essere l’Italia) era quasi completo. Rimanevano i greci a sud.

    All’inizio diverse città greche decisero di accettare l’egemonia romana senza tanti piagnistei e rimostranze, ma non la fiera Taranto che nel 280 a.C. si rivolse al generale Pirro affinché intervenisse dalla madre patria. Pirro si mosse con un esercito di trentacinquemila soldati e si portò appresso una ventina di elefanti indiani, animali che i romani non sapevano neanche esistessero. In effetti gli elefanti erano delle perfette macchine da guerra. Erano in grado di trasportare una portantina con dentro il conduttore e qualche arciere. Questi animali spaventarono l’esercito romano, che li chiamava «bovi lucani» in più di una battaglia, ma alla fine, nonostante per Roma si stesse mettendo male, l’esercito romano non si piegò ai negoziati coi greci.

    Pirro stava, dunque, per avere la meglio quando, nel 275 a.C., i romani lo sconfissero a Benevento ricacciandolo in Grecia. Gli elefanti erano stati neutralizzati grazie a un attacco dei soldati con le loro lance che li avevano spinti a tornare indietro così spaventati che schiacciarono come impazziti i soldati del generale greco. Pirro era rimasto tanto affascinato dall’esercito di Roma che pare abbia affermato che al comando di tali soldati avrebbe certamente conquistato il mondo.

    Così dal momento che nessuno riusciva ad arrestare l’avanzata di Roma, anche l’Egitto volle ratificare un trattato con i nuovi dominatori del Mediterraneo, cosa che accadde regolarmente nel 272 a.C.

    Il meridione d’Italia fu completamente conquistato nel 270 a.C. Ora nessuno avrebbe mai potuto mettere in discussione la potenza miliare di Roma anche se qualche vecchia tensione era sempre in agguato e di rivolte potevano esploderne in continuazione.

    A Roma chi ricopriva una carica politica non veniva pagato per il suo servizio. Quindi a fare i politici potevano essere solo ed esclusivamente i ricchi. Le famiglie che si arricchivano maggiormente erano più che altro quelle dei grandi proprietari terrieri che traevano i propri guadagni dal lucroso affitto dei terreni ai coltivatori. Questa era la classe dirigente romana, non dissimile da quella che terrà le sorti della Città Eterna dopo la caduta dell’impero romano e dopo il medioevo.

    In questo periodo Appio Claudio, che nel 312 a.C. era censore di Roma, fece tracciare la via Appia collegando Roma a Capua con una strada munita di fondamenta lunga duecentododici chilometri. E non fu un caso, perché Capua era appena stata conquistata dai romani e la strada doveva servire per mantenerne uno stretto controllo e per spostare le truppe, con annessi e connessi, agevolmente in caso di bisogno. Ovviamente anche i commerci furono favoriti dalla rete stradale che via via Roma realizzerà. Sempre Appio Claudio ordinò la costruzione del primo acquedotto che i romani avessero mai visto, quello dell’acqua Appia lungo circa sedici chilometri. Questo acquedotto, però, differiva sensibilmente da quelli che siamo abituati a considerare tali con i loro archi sovrapposti e le loro incredibili e precisissime pendenze. Questo acquedotto era formato da una galleria sotterranea più o meno grande quanto una persona e da un canale che portava l’acqua alla superficie. Questo genere di opera idraulica era molto diffusa in Medio Oriente.

    Roma, ora, iniziava a divenire una potenza economica oltre che militare: una potenza unanimemente riconosciuta. E si era allargata a dismisura. È stato calcolato che nel iv secolo a.C. la sua superficie era di poco più di duemila chilometri quadrati, mentre nel 280 a.C. essa occupava un territorio vasto 15.280 chilometri. In circa sessant’anni si era praticamente ottuplicata.

    Il passaggio dalla monarchia alla repubblica

    Non si conoscono bene i passaggi che portarono alla fondazione della repubblica romana, anche perché per dirla con le parole della storica e divulgatrice Mary Beard «gli antichi storici romani erano maestri nel trasformare un magmatico caos storico in una narrazione coerente e compatta, ed erano sempre pronti a immaginare che le proprie istituzioni più peculiari fossero ben più antiche di quanto erano in realt໹², ma sembra che a rimpiazzare i re siano stati due consoli eletti annualmente e che furono degli appositi organi assembleari a nominare i funzionari governativi e a fare le leggi. Non mancarono le tensioni, ad esempio con un primo sciopero dei poveri plebei che rifiutandosi nel 494 a.C. di prendere le armi (senza la plebe l’esercito praticamente non esisteva) riuscirono a ottenere una propria assemblea legislativa, l’assemblea della plebe, per eleggere i propri tribuni della plebe in grado di fare in senato anche gli interessi di quella classe sociale. Fu grazie all’introduzione di questa innovazione politica se pian piano tutte le cariche, un tempo destinate ai soli patrizi, finirono per essere accessibili anche ai plebei.

    Il peso militare dei plebei aveva permesso loro di strappare ai patrizi la politica appannaggio, fino ad allora, dell’èlite dei ricchi. Ma le discriminazioni sociali continuarono a esistere. È curioso il significato e la genesi del termine nobile che tanta importanza avrà in seguito per le famiglie di cui parleremo nel corso di questo viaggio nella storia d’Italia. Nobilis, in latino, vuol dire noto e fu un termine usato dalle famiglie sia patrizie che plebee che annoveravano tra i loro appartenenti almeno un console. Presto, il termine nobilis si sostituì a patricius e divenne sinonimo di prestigio sociale. Ma per chi diveniva console e non apparteneva a una famiglia nobile la definizione più usata era homo novus e mai questa categoria di consoli fu in maggioranza, in qualsiasi periodo della storia di Roma i consoli di nobile schiatta furono sempre numericamente molto superiori. Ma l’episodio del 494 a.C. la dice lunga sull’importanza, almeno teorica, che il popolo doveva avere nelle decisioni che lo riguardavano da cui il concetto di res publica, faccenda del popolo. Anche perché era il popolo che combatteva e assicurava conquiste, terreni e ricchezza a chi si beava di fare il politico per sport.

    La storia continua

    I cartaginesi, con cui i romani avevano firmato un trattato nel 507 a.C., avevano messo le mani sulla Sicilia che non solo aveva un’invidiabile posizione strategica nel Mediterraneo, ma era anche uno dei massimi produttori di grano. Nel 264 a.C. i romani pensarono che forse era meglio disfarsi dell’incomodo cartaginese e diedero inizio alla prima guerra punica. La flotta navale permanente dei romani nuova di zecca, fondata proprio per l’occasione, riuscì a suonarle ai cartaginesi che nel 241 a.C. chiesero la pace. Ma grazie ai potenti Barca, Cartagine si risollevò spostando le sue mire sulla Spagna ricca di riserve minerali. Nel 218 a.C. Annibale Barca portò le sue truppe oltre i confini iberici romani e fu la seconda guerra punica.

    Mentre Roma inviava i suoi soldati in Spagna, Annibale oltrepassava le alpi e scendeva l’Italia per combattere i nemici. Grazie alla sua strategia, Annibale era a un passo dalla vittoria e i romani già si vedevano sotto il giogo cartaginese. Tuttavia molti dei popoli conquistati da Roma le rimasero fedeli e ciò impedì al nordafricano di conquistare i porti italiani cosa che diede all’esercito romano il tempo di riprendersi e di guadagnare nuovamente le posizioni perdute. In Spagna contemporaneamente la famiglia romana degli Scipioni (di cui parleremo più avanti quando affronteremo i Corneli) stava dando prova di grande coraggio e capacità militari riportando tutta una serie di vittorie. Annibale fu nuovamente sconfitto in Italia nel 207 a.C.

    Nel 203 a.C. Annibale rientrò a Cartagine e fu sconfitto ancora a Zama da uno degli Scipioni partito dalla Spagna alla volta del Nordafrica che prese per l’appunto il nome di Scipione l’Africano.

    Nel 183 a.C., mentre i soldati romani combattevano contro Antioco in Siria, si ritrovarono casualmente di fronte ad Annibale che, non contento delle batoste subite, stava complottando qualcosa in Bitinia contro Roma. Nel 146 a.C. l’esercito romano distrusse Corinto annettendo la Grecia come provincia e al termine della terza guerra punica fecero la stessa cosa col Nordafrica, cancellando Cartagine dalla faccia della Terra.

    Ma tutti questi conflitti portarono ricchezza e prosperità. Tanto per fare un esempio, il contatto ravvicinato con la civiltà greca portò a una rapida crescita dal punto di vista artistico e culturale. Ad arricchirsi, come c’era da aspettarsi, furono le classi senatoriali romane e le loro famiglie, le stesse da cui provenivano i grandi generali che avevano portato Roma al trionfo militare.

    Dopo la fine delle guerre puniche, tra il 146 e il 78 a.C., tre nomi si imposero sulla scena romana. Tiberio Gracco, Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla.

    Il primo, Tiberio Gracco, della famiglia degli Scipioni, fu tribuno della plebe nel 133 a.C. e riuscì a imporsi sul senato per far approvare una legge che impedisse ai ricchi proprietari terrieri di approfittare dell’assenza dei soldati, impegnati al fronte, per impadronirsi delle loro terre.

    Gaio Mario, invece, era un generale che pensò di avvalersi di un esercito privato di volontari pagato di tasca sua, un esercito fedele al suo comandante piuttosto che allo stato. Con quei soldati Gaio Mario sconfisse Giugurta in Africa nel 108 a.C. e nel 101 a.C. evitò l’invasione dei teutoni e dei cimbri. Tra il 104 e il 100 a.C. Gaio Mario fu ininterrottamente console, contro ogni regola, per sette mandati.

    Ma è a questo punto che spunta fuori Lucio Cornelio Silla, il terzo grande personaggio di quel periodo storico. Anche lui generale, aveva una visione diametralmente opposta a quella di Gaio Mario secondo la quale il senato doveva essere il centro dell’autorità politica di Roma. Così Silla, utilizzando l’esercito a fini personali diede il via a una guerra civile contro Gaio Mario che lo vide trionfare nell’82 a.C. Divenuto dittatore, Silla morì nel 78 a.C. dopo aver rafforzato il senato a discapito dei tribuni della plebe. Ma queste schermaglie stavano per causare il crollo della repubblica perché si era venuta a creare la possibilità per chiunque fosse appoggiato dai soldati e avesse ingenti possibilità economiche di prendere il potere. Per accaparrarsi la lealtà dell’esercito bastava che il generale fosse disposto a concedere ai suoi combattenti una terra da coltivare dopo il congedo.

    Silla, inoltre, aveva accontentato le popolazioni italiche che avevano combattuto al fianco dei romani dando loro gli stessi diritti politici, il che portò a una crescita vertiginosa dei cittadini romani che salirono dai trecentoventimila del 150 a.C. a novecentomila unità circa.

    La penisola iberica finì quasi completamente nelle mani dei romani nel 133 a.C. a opera di Scipione Emiliano altro grande esponente della sua gens. La Numidia fece la stessa fine nel 111 a.C. dopo la battaglia contro Giugurta e come abbiamo accennato Gaio Mario aveva evitato la discesa di alcune popolazioni provenienti dalla Germania. In Turchia il re del Ponto Mitridate decise di scacciare i romani dall’Asia ma fu messo a tacere da Silla inviato direttamente dal senato nell’88 a.C. Nel frattempo Gaio Mario aveva preso il potere a Roma, ma Silla nell’82 a.C. riuscì a vincerlo facendosi proclamare dittatore. Forte della sua carica, Silla confiscò i beni a tutti i suoi nemici; tra di essi vi fu anche uno dei nipoti di Gaio Mario che diverrà famosissimo. Era Giulio Cesare.

    Tra l’81 e il 44 a.C. saranno, invece, Pompeo e Cesare le grandi star. Pompeo iniziò la sua ascesa sfruttando l’esercito di suo padre al fianco di Silla contro Gaio Mario per cui si guadagnò il trionfo concessogli nell’81 a.C. e poi ancora nel 73 a.C. per aver messo a tacere l’esule Sertorio che in Spagna stava infastidendo Silla con la sua espressa ostilità. Ma Pompeo fu anche l’uomo che sconfisse Spartaco e il suo seguito, diventando molto popolare a Roma. Spartaco era un ex schiavo gladiatore addestrato a Capua che si ribellò al suo crudele padrone fuggendo con al seguito una settantina di compagni. Il gruppo pian piano salì di numero accogliendo altri schiavi e contadini. La rivolta si trasformò in una cosa seria per Roma quando l’esercito male assortito di Spartaco raggiunse un numero compreso tra i settantamila e i centoventimila uomini. Diretti a nord verso la Gallia i fuggiaschi decisero di fare dietrofront per darsi ai saccheggi e alle razzie fino a quando il generale Crasso nel 71 a.C. tese una trappola a Spartaco e compagni annientandoli. Si narra che i rivoltosi sopravvissuti alla battaglia e fatti prigionieri furono crocifissi lungo la via Appia. Peter Jones nel suo libro Breve storia di Roma fa un rapido calcolo giungendo alla conclusione che ogni trenta metri, per un tratto di strada lungo 185 chilometri, stava un uomo crocifisso. In totale i giustiziati furono circa seimila.

    Assieme a Crasso, Pompeo fu nominato console e dopo Spartaco, nel 67 a.C., fece piazza pulita dei pirati che solcavano il Mediterraneo. Infine affrontò Mitridate in Oriente riportando altre importantissime vittorie. Ma ai trionfi seguì l’inevitabile declino. Il senato cominciava a pensare che anche Pompeo volesse divenire dittatore. Nel frattempo il senatore Lucio Sergio Catilina tentò un colpo di stato militare, si scagliò contro di lui Cicerone con un celebre discorso, ma il colpo di mano fallì e il senatore e i suoi alleati furono giustiziati nel 63 a.C. giudicati senza processo.

    In quello stesso frangente storico Giulio Cesare, che aveva perso tutto a causa di Silla, si mise in luce come combattente in Asia Minore tornando a Roma per tentare anche la scalata sociale. Nel 60 a.C. il senato ancora arrancava per imporre la propria autorità e Crasso, Pompeo e Cesare iniziarono i loro giochi di potere coalizzandosi segretamente per dettar legge.

    Nel 59 a.C. Cesare divenne console e completò la conquista della Gallia giungendo anche in Britannia tra il 55 e il 54 a.C.; Pompeo nel frattempo divenne governatore di Spagna ma delegò ad altri il governo di quella provincia; a Crasso spettò il governo della Siria ma trovò la morte in una campagna in Persia nel 53 a.C.

    A Roma, dove Pompeo era rimasto, il vento cambiò direzione. Scrive lo storico Klaus Bringmann nel suo Storia Romana:

    Il Senato nel 52 a.C. incaricò Pompeo, come consul sine collega, di porre termine alla situazione di anarchia che si era verificata nell’apparente vuoto politico del 54 a.C. In questo modo Pompeo otteneva il riconoscimento, che aveva sempre desiderato, da parte degli ottimati; da parte loro questi colsero l’occasione per creare un clima di discordia fra i vecchi alleati. I successi militari di Cesare e l’influsso che ottenne a Roma con il patronato e la corruzione facevano temere a Pompeo che il collega avrebbe acquisito un ruolo di primo piano. Crasso, il terzo alleato, era caduto nel 53 a.C. nella guerra da lui stesso iniziata contro i parti; non vi era dunque più nessuno che potesse mediare tra i due rivali.¹³

    Il senato riuscì, dunque, a convincere Pompeo a passare dalla sua parte e quando nel 49 a.C. Cesare, giunto al termine del suo mandato in Gallia, chiese il consolato per non avere fastidi una volta giunto a Roma, non gli venne concesso. Così per far vedere che non era uno che si faceva mettere i piedi in testa, Giulio Cesare passò il Rubicone col suo esercito dando inizio a una nuova guerra civile. Pompeo, allora, abbandonò l’Italia per cercare di mettere assieme in Grecia un esercito in grado di competere con i veterani navigati di Cesare il quale, dopo averlo sconfitto a Farsalo nel 48 a.C., lo inseguì anche in Egitto. Pompeo ormai era braccato, gli egizi, fattisi due conti, decisero di dare man forte a Cesare e tagliarono la testa dello stesso Pompeo.

    Morto il suo rivale, Cesare si imbarcò in una relazione politico sentimentale con la sovrana egizia di stirpe tolemaica Cleopatra. Nel 47 a.C. finalmente il vincitore romano poté rientrare a Roma non prima di aver lasciato a Cleopatra un ricordino nel ventre. Nel 44 a.C. Cesare si autonominò dictator perpetuus dandosi alla politica vera e propria e soprattutto legiferando nella speranza di risolvere gli eterni problemi dell’Urbe. Ma l’ambizione sfrenata del nuovo dittatore non era vista di buon occhio dai repubblicani che in quello stesso anno decisero di toglierlo di mezzo e di chiudere con la storia dei dittatori. Tra i congiurati vi furono anche Cassio e Bruto. Una curiosità: quasi tutti abbiamo sentito la storia di Marco Giunio Bruto che sferra la coltellata mortale (la ventitreesima) a Cesare mentre questi si rivolge a lui dicendo le sue ultime parole «Tu quoque, Brute, fili mi» e che di conseguenza Bruto non fosse solo il suo assassino ma anche il figlio (illegittimo) di Giulio Cesare. In realtà l’espressione utilizzata dal dittatore sarebbe una sorta di formula augurale comunemente utilizzata, come a dire ti auguro la stessa sorte, figliolo!¹⁴.

    Le basi per l’impero

    La repubblica ormai era andata a farsi benedire. Inoltre Cesare godeva di un ampio consenso, tanto che già durante i suoi funerali scoppiarono alcuni disordini, che spinsero il senato a ratificare tutte le leggi emanate da Giulio Cesare prima della morte. Da tutta la baraonda che l’assassinio del dittatore romano scatenò emersero tre uomini: il comandante Emilio Lepido, il console Marco Antonio e Ottaviano, il giovane pronipote di Cesare. Nel 43 a.C. un secondo triumvirato, dopo quello di Pompeo, Cesare e Crasso, vide l’alleanza tra Lepido, Antonio e Ottaviano. Questi fecero fuori quanti li osteggiavano (una delle illustri vittime fu Cicerone che aveva provato a reagire). Cassio e Bruto, che si erano sbarazzati di Cesare sperando nella restaurazione della repubblica e che erano andati in esilio nelle province, furono sconfitti in Grecia.

    Come nel primo triumvirato, anche durante il secondo rimasero due alleati-contendenti, quando Lepido fu costretto a ritirarsi nel 36 a.C. In un primo tempo Antonio e Ottaviano decisero di dividersi Oriente e Occidente. Nel 41 a.C., inoltre, Antonio aveva iniziato la sua relazione con la regina Cleopatra.

    Per la seconda volta si finì ai ferri corti e scoppiò una guerra civile vinta da Ottaviano con la definitiva sconfitta della flotta di Antonio e Cleopatra ad Azio. Rientrati in Egitto, come Giulietta e Romeo, il console romano e la regina tolemaica si tolsero la vita.

    Rientrato a Roma, Ottaviano, che tutti appelleranno da quel momento in poi Augusto, convinse tutti che si stava adoperando per restaurare la repubblica e fondò un esercito permanente al servizio dello stato chiudendo una volta per tutte la questione degli eserciti privati e delle inutili e bieche guerre civili combattute per il potere. Ottaviano Augusto riformò la politica, abbellì Roma restaurando e costruendo nuovi edifici di culto, si proclamò pontefice massimo e promulgò numerosissime leggi. Insomma, lui era certamente al centro del cuore pulsante di Roma e regalò ai romani una pace duratura con l’illusione di vivere ancora in una res publica.

    Tuttavia, anche Ottaviano Augusto era un calcolatore e non voleva rischiare che la stabilità che aveva creato per i romani finisse nelle mani del primo arrivato. Così – e ne riparleremo quando lo incontreremo nuovamente parlando della dinastia Giulio Claudia – Augusto si mise a cercare un erede. La scelta obbligata, perché tutti gli altri candidati erano morti, cadde su Tiberio figlio di sua moglie Livia, uno a cui non fregava assolutamente nulla di fare l’imperatore.

    Si era ormai in una nuova fase della storia romana, quella imperiale, ma quasi nessuno se ne era accorto.

    8 Guido Clemente, Guida alla storia romana, Mondadori, Milano 2018, pp. 8-9.

    9 Peter Jones, Breve storia di Roma, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 18.

    10 Ivi, p. 45.

    11 Ivi, p. 43.

    12 Mary Beard, spqr. Storia dell’antica Roma, Mondadori, Milano 2016, p. 115.

    13 Klaus Bringmann, Storia romana, il Mulino, Bologna 2018, p. 51.

    14 Peter Jones, op. cit., p. 147.

    2. Gens Fabia

    Le origini dei Fabi si perdono nella leggenda, e non potrebbe essere altrimenti dal momento che ci troviamo di fronte a una gens tra le più antiche di tutta la storia romana. Secondo una delle tante storie che circolavano, il fondatore di questa famiglia sarebbe un tizio chiamato appunto Fabio, nato dall’unione tra Ercole e una mortale, o una ninfa, incontrata dall’eroe sulle rive del Tevere. Fabio sarebbe stato concepito in una fossa scavata nel terreno, un metodo un tempo utilizzato per catturare gli animali feroci, e dal momento che per indicare la buca si usava il termine fovi, questo avrebbe dato il nome a tutta la gens che forse in origine si dedicava a questo tipo di caccia. Plinio il Vecchio non era d’accordo con questa versione, per lui il nome dei Fabi deriva dalla fava, il frutto della morte per via del culto praticato da questa gens.

    Quale che sia la vera natura del nome con cui questa stirpe è stata ricordata dalla storia, che siano di origine sabina o etrusca, sembra certa la presenza dei suoi membri quando avviene la fondazione dell’Urbe. La gens Fabia era così antica che già ai tempi delle guerre puniche iniziò a estinguersi, tanto che nel 181 a.C. l’ultimo appartenente alla famiglia dei Fabi Massimi, il pretore Quinto Fabio Massimo, si vide costretto, per darle continuità, a ricorrere alla pratica dell’adozione.

    La leggenda dei 300

    Leggendo il titolo di questo paragrafo, a qualcuno di voi verrà certamente in mente il sacrificio dei trecento dello spartano Leonida contro i persiani di re Serse alle Termopili, evento che si colloca solo tre anni prima della nostra storia. Non si sa quanto, in effetti, questo episodio abbia inciso sulla distorsione dei fatti, ma la storia dei trecento Fabi è altrettanto interessante.

    Vi erano tre Fabi sulla scena, tre fratelli per la precisione, che ressero il consolato tra il 485 e il 479 a.C. chiamati rispettivamente Quinto Fabio Vibulano, Cesone Fabio Vibulano e Marco Fabio Vibulano. Durante i loro consolati vi furono diversi scontri con le popolazioni confinanti, i volsci, gli equi e gli etruschi, ma vi furono anche malumori intestini derivanti dall’atteggiamento sempre più autocratico dei Fabi nei confronti della plebe e per delle azioni dei primi non proprio popolari.

    Nel 480 Quinto Fabio Vibulano muore in battaglia contro gli etruschi di Veio, una città a nord di Roma, mentre suo fratello Marco è il console in carica. L’anno seguente è Cesone a tornare console. Ed è proprio sua l’idea che rischia di spazzare via l’intera gens Fabia.

    Per cercare di porre un freno agli scontri tra patrizi e plebei, e avere tutto il tempo per concentrarsi sui nemici esterni, il nuovo console propose di distribuire le terre conquistate ai soldati ma il senato si oppose, così Cesone ebbe un’altra illuminazione: i Fabi l’avrebbero fatta vedere a Veio una volta per tutte, in una guerra privata finanziata da loro stessi. Come specifica lo scrittore Andrea Frediani nel suo L’incredibile storia di Roma antica, «è bene precisare che il concetto di famiglia va qui preso in termini estensivi, considerando anche clienti e aderenti»¹⁵. In effetti, da Roma partirono 306 uomini tra le urla e le acclamazioni del popolo che assisteva alla scena. Il senato accettò la stramba proposta perché non costava nulla e avrebbe potuto rappresentare la soluzione definitiva ad anni di conflitto senza grandi risultati.

    Per circa due anni, i trecento Fabi si occuparono di razziare il territorio dei nemici per poi asserragliarsi nuovamente nell’accampamento fortificato che avevano eretto nei pressi del Cremera, un affluente del Tevere a pochi chilometri dall’Urbe. Un giorno però le cose si misero davvero male. Il 18 luglio del 477 si venne a sapere che un gregge di pecore pascolava indifeso in una zona lontana dall’accampamento e i romani decisero di impossessarsene. Mossa sbagliata, perché si trattava di una trappola. Gli etruschi trucidarono i Fabi che furono costretti a riparare su una collinetta, poi vennero attaccati e massacrati anche gli uomini inviati in loro soccorso direttamente dal campo e infine furono sterminati anche i sopravvissuti fuggiti sull’altura. Qualcuno rimase a difendere il fortino, ma i nemici lo scoprirono e puntarono verso l’accampamento. La leggenda vuole che i pochi Fabi rimasti decisero di uscire dal campo per morire combattendo fino all’ultimo uomo. Non si sa quanto ci sia di vero in tutta questa storia, fatto sta che nelle liste dei consoli romani degli anni che seguirono al massacro non figurano Fabi. Tutti i membri della gens, Marco e Cesone compresi, erano morti. Forse solo un ragazzino si salvò per poi portare avanti la stirpe.

    Le stesse domande che vi state facendo voi ora se le fecero anche gli antichi: è mai possibile che tutti e trecento i Fabi non avessero mogli e figli ad aspettarli a casa? Chiaramente no. È Dionigi che ci informa che a Roma dopo una certa età toccava prender moglie e generar prole per decreto legislativo, insomma era obbligatorio.

    Il prosecutore della dinastia sarebbe, secondo i calcoli degli storici, Quinto Fabio Vibulano, il figlio del console Marco, che sarà anch’egli console e poi decemviro.

    Ricomincia la storia dei Fabi

    Avevamo lasciato Quinto Fabio Vibulano a piangere i suoi parenti, ma dieci anni dopo la tragedia dei 300 viene eletto console per la prima volta e tenta di distribuire alla plebe le terre di Anzio appena conquistata, ma i romani gli rispondono quasi tutti picche perché si sentono cacciati dalla propria città. Quinto dovette fare anche i conti con gli equi, con i quali Roma era ancora in guerra, intavolando un accordo di pace di cui non si sa bene l’esito. Comunque sia, nel 465, anno del suo secondo mandato, Quinto si trovò ad affrontare le loro nuove scorribande e nel 459, suo terzo consolato, agli equi si aggiunsero i volsci e le battaglie si moltiplicarono. Divenuto decemviro nel 450 a.C., in un momento in cui il popolo non guardava a questi magistrati con tanta simpatia, Quinto ebbe una sorta di crisi di identità facendosi influenzare da Appio Claudio, collega decemviro anche lui, che si occupava dei malumori popolari. Sfortunatamente per Quinto, le guerre venivano combattute reclutando i soldati direttamente tra il popolo e questi, pur di danneggiare i decemviri e i patrizi in generale, preferirono perdere appositamente le loro battaglie.

    Nel 457 e nel 456 a.C. sarebbe stato in carica come console un certo Marco Fabio Vibulano di cui si sa poco e che fu forse figlio di Quinto. A ogni modo, è certo che Quinto ebbe tre figli che furono consoli anch’essi: Marco che lo divenne nel 422 a.C., Quinto che fu console nel 423 e nel 412 a.C. divenendo poi anche tribuno consolare e Numerio console nel 421 e tribuno consolare nel 415 e 407 a.C.

    Se l’impresa dei trecento Fabi era stata un disastro, quella dei tre tribuni consolari Numerio Fabio Ambusto, Cesone Fabio Ambusto e Quinto Fabio Ambusto fu anche peggiore. I tre si trovarono nel 391 a.C. inviati dal senato a trattare con i galli in favore dei chiusini che erano stati attaccati e chiedevano aiuto a Roma. I galli accettarono di ritirarsi chiedendo in cambio una parte delle terre dei chiusini ma i romani rimasero fermi nel negare loro lo scambio. Come era prevedibile, le trattative si interruppero e i galli presero le armi contro gli etruschi. I tre ambasciatori godevano dell’immunità e non potevano esser coinvolti nella baruffa, ma non avrebbero nemmeno dovuto intervenire in difesa di una delle parti. Invece Numerio, Cesone e Quinto si misero a disposizione degli etruschi. Preso da un senso di euforia Quinto cavalcò alla testa dei suoi uomini finendo per uccidere il capo nemico. I galli, allora, si ritirarono dalla battaglia e protestarono con Roma chiedendo che i tre fratelli fossero consegnati loro per essere giudicati. Nonostante le ragioni dei galli, i romani si rifiutarono di cedere alle pressioni e un anno dopo se ne pentirono amaramente in quanto dopo aver sconfitto le truppe dell’Urbe ad Allia, i galli con a capo Brenno marciarono su Roma incendiandola e saccheggiandola. Quinto Fabio fu citato in giudizio per il suo comportamento, ma morì prima del processo.

    Se Quinto si è portato nella tomba l’infamia del sacco di Roma, Gaio Fabio Dorsuo viene ricordato dalle cronache in modo molto diverso. Durante l’assedio gallo della città Dorsuo fece un atto di coraggio attraversando le linee nemiche per giungere al Quirinale e officiare un sacrificio, forse in onore di Vesta. Anche di questa storia esistono versioni contrastanti.

    A ogni modo, ancora nove anni dopo, il prestigio dei Fabi appare immutato. Marco Fabio Ambusto, il figlio di Cesone, viene eletto tribuno consolare e collabora alla stesura di nuove leggi più favorevoli alla plebe, tra cui l’accesso di questa al consolato.

    Il grande Rulliano

    Marco Fabio Ambusto, cugino di quello sopracitato, fu console per tre volte e anche dittatore e magister equitum. Sconfisse gli ernici durante il suo primo consolato nel 360 e falisci e tarquinesi nel secondo mandato, 356 a.C. Questi ultimi cercarono di confondere il suo esercito spaventandolo con torce infuocate, corse a zig zag, urla e serpenti. Ce li possiamo immaginare mentre con furia terrorizzano i semplici soldati romani che se la danno a gambe. Tuttavia dopo una sana ramanzina, questi tornarono indietro per rovesciare le sorti della battaglia, facendo molto felice il nostro Marco. Ma la tranquillità non durò molto perché l’intero popolo etrusco si sollevò contro Roma e fu necessario eleggere un dittatore.

    Nel terzo mandato, Marco si scontrò contro i tiburtini e i sanniti, e contro questi ultimi riportò la sua vittoria definitiva nel 322 a.C., quando era magister equitum, massacrandoli inaspettatamente mentre erano intenti a saccheggiare il campo dei romani.

    Il figlio di Marco si chiamava, tanto per cambiare, Quinto e fece una carriera a dir poco stellare. Il suo nome completo era Quinto Fabio Massimo Rulliano.

    Quinto fu magister equitum nel 325 a.C., mentre si svolgeva la guerra coi sanniti, e si trovava vicino a Subiaco con l’esercito quando il dittatore del momento Lucio Papirio Cursore fu richiamato nell’Urbe per essere messo a parte che gli auspici era sfavorevoli. Quinto, che nel frattempo fremeva dalla voglia di combattere, venne a sapere che le misure di sicurezza adottate dai nemici erano assai blande e decise di agire. Cursore fu informato dell’iniziativa di Quinto e fu ancora più adirato quando questi conseguì la sua vittoria. Insomma, Cursore il dittatore era stato scavalcato dal suo sottoposto. Così, un po’ per preservare la rigida disciplina militare, un po’ per vendetta, fece fustigare lo spavaldo Quinto Fabio Rulliano. Questo episodio non fermò l’ascesa di Quinto che già nel 322 a.C. veniva eletto console, lo stesso anno in cui suo padre Marco ricoprì la carica di magister equitum.

    Nel 315, Quinto conquistò Saticula dopo essere stato eletto dittatore e si trovò a dover gestire un magister equitum indisciplinato come era stato lui, solo che questa volta finì male e il povero Quinto Aulo Cerretano, così si chiamava, fu fatto fuori dall’esercito sannita.

    Il 310 a.C. è per Rulliano l’anno della vittoria nella selva poiché, console per la seconda volta, dovette accorrere a Sutri, dove si trovava un avamposto romano, per contrastare l’assedio etrusco. Durante lo scontro, parte dell’esercito nemico si nascose tra le fitte piante che attorniavano il monte Cimino. Ottenuto l’appoggio delle popolazioni locali, Quinto si addentrò nella selva e fece a pezzi gli etruschi, tanto che molte città dell’Etruria, terrorizzate dall’impresa Fabia, chiesero di allearsi con Roma. Sempre nel 310, Quinto accettò di coadiuvare le manovre contro i sanniti, dove le cose stavano andando maluccio, e accettò di essere guidato, pensate un po’, da quello stesso Lucio Papirio Cursore che lo aveva fatto percuotere dopo l’insubordinazione del 325 a.C. Anche il 308 fu un anno di successi, perché Quinto, divenuto console per la terza volta, sconfisse i sanniti e indusse gli umbri ad arrendersi al solo sentire il suo nome. Una frangia umbra, a dirla tutta, preferì battersi contro il suo esercito, ma senza successo.

    Nel 304 a.C. Quinto divenne censore e ancora console nel 297. Col suo collega Publio Decio Mure, Quinto condusse diverse operazioni militari contro i sanniti e gli etruschi, sconfiggendo il nemico a Tiferno e una coalizione di etruschi, galli, sanniti e umbri a Sentino. Decio Mure, che con il nostro Quinto Rulliano era stato console anche nel 295 a.C., morì massacrato dai galli, in un momento di confusione del suo esercito. Quello di Mure fu un vero e proprio sacrificio stile kamikaze che ebbe il risultato sperato di ridare forza e coraggio ai soldati che alla fine vinsero la partita. Il gesto di Decio, che era stato già messo in atto da suo padre, è conosciuto storicamente come devotio, ovvero l’accettazione del proprio tragico destino da parte del condottiero.

    Rulliano non si stancò mai di combattere e lo si ritrova al fianco di suo figlio Quinto Massimo Gurgite sia nelle campagne militari del 297 sia in quelle del 292 a.C.

    Gurgite porta questo buffo nome a quanto pare per il suo amore giovanile per il cibo (il suo nome significa infatti ghiotto). Fu console per tre volte e nel 295 fece pagare una multa ad alcune matrone accusate di adulterio e condannate, appunto, al finanziamento del tempio di Venere di lì a poco costruito accanto al Circo Massimo. Scrive Filippo de’ Rossi nel suo Descrizione di Roma antica del 1727:

    Eravi parimente il Tempio di Venere, edificato da Q. Fabio Gurgite, con li danari esatti per via di pena, da alcune Matrone, le quali furono convinte di adulterio, così scrivendo Livio nel 10. della prima Deca: Quintus Fabius Gurges ex Matronarum multaticio aere, Veneris aedem quae prope Circum est, faciendam curavit; havendo egli parimente aperto una strada, che dal Foro Boario all’accennato Tempio conduceva.¹⁶

    Nel 292 a.C. Gurgite, al suo primo consolato subisce anche una bruciante sconfitta da parte dei sanniti, ma l’intervento di suo padre Rulliano salva capra e cavoli, ovvero la carica del figlio e la guerra. E non doveva essere particolarmente brillante Gurgite se, pur ricoprendo altre due volte il ruolo di console, viene ricordato dalla storia solo per esser stato ambasciatore in Egitto presso il re Tolomeo Filadelfo.

    L’uomo con la verruca in faccia

    Non è che Quinto Fabio Massimo Verrucoso detto Cunctator sia ricordato nei libri di storia solo per quella verruca sul labbro, da cui uno dei suoi cognomina (l’altro era a mio avviso anche peggio: pecorella), anzi. Le sue gesta contro Annibale furono defraudate della gloria che gli spettava solo per l’entrata in gioco di Scipione l’Africano e il signum Cunctator – che significa Temporeggiatore – se lo guadagnò sul campo di battaglia durante la seconda guerra punica. Ma partiamo dall’inizio.

    I primi trionfi militari giunsero a Verrucoso durante il suo primo consolato del 233 a.C., quando sconfisse il popolo dei liguri. Dopo un secondo mandato nel 228, il nostro si trovò ad affrontare il cartaginese Annibale, secondo lo storico Theodor Mommsen, il più grande generale dell’antichità. Quinto Verrucoso, che nel frattempo nel 217 a.C. era stato nominato dittatore, si era reso conto che i cartaginesi erano, e di molto, superiori negli scontri in campo aperto, così avvisati i suoi soldati di non ingaggiare con l’esercito nemico quel tipo di combattimenti, preferì inviare rinforzi agli alleati affinché non perdessero le città, nella speranza che i cartaginesi si stancassero da soli.

    Per i romani, che fremevano dalla voglia di rifarsi delle sconfitte subite sul Ticino, sul Trebbia e sul Trasimeno, fu una scelta strategica non molto apprezzata. In più, fu inviso un accordo che Quinto stipulò con Annibale che prevedeva lo scambio dei prigionieri delle due parti. Se ne avanzava qualcuno, la

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