Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Bocconi di vita
Bocconi di vita
Bocconi di vita
E-book420 pagine5 ore

Bocconi di vita

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Racconti autobiografici
LinguaItaliano
Data di uscita21 apr 2020
ISBN9788855129107
Bocconi di vita

Leggi altro di Umberto Manfredini

Correlato a Bocconi di vita

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Bocconi di vita

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Bocconi di vita - Umberto Manfredini

    Umberto Manfredini

    Bocconi di vita

    (racconti autobiografici)

    Copyright© 2020 Edizioni del Faro

    Gruppo Editoriale Tangram Srl

    Via dei Casai, 6 – 38123 Trento

    www.edizionidelfaro.it

    info@edizionidelfaro.it

    Prima edizione digitale: aprile 2020

    ISBN 978-88-6537-286-9 (Print)

    ISBN 978-88-5512-910-7 (ePub)

    ISBN 978-88-5512-911-4 (mobi)

    http://www.edizionidelfaro.it/

    https://www.facebook.com/edizionidelfaro

    https://twitter.com/EdizionidelFaro

    http://www.linkedin.com/company/edizioni-del-faro

    L’autore

    Umberto Manfredini è nato a Vienna nel 1936. Laureato in medicina a Pavia nel 1961 si è reso conto di essere diventato un vecchio quando l’Ordine dei Medici gli ha conferito la medaglia d’oro riservata a coloro che hanno compiuto i cinquant'anni di laurea. La cosa lo ha fatto incazzare e ha deciso di reagire scrivendo un breve romanzo, o se preferite racconto lungo, che vuole esprimere la speranza che i giovani ancora dotati di cervello si ribellino alla situazione in cui tanti disonesti li hanno posti facendo dell’economia un mostro e non un aiuto per l’uomo. Vi è molto di autobiografico, in quelle poche pagine, come sempre accade per qualunque cosa si scriva. A molti lettori sembreranno le parole di un sopravvissuto dinosauro, ma chi scrive spera che almeno due o tre lettori si trovino d’accordo con lui che si è reso conto di avere ancora il desiderio, e qualche residua energia, per fare, se necessario, una rivoluzione anche non del tutto pacifica per garantire un futuro ai suoi nipoti.

    Bocconi di vita

    (racconti autobiografici)

    Prefazione

    Fin da ragazzo ogni tanto avevo l’impulso di scrivere qualche poesia e molte sono ancora su alcuni quaderni che avranno oramai sessant’anni, ma erano degli sfoghi estemporanei, quasi delle esercitazioni di metrica stimolate dalla lettura, dalle scuole medie in poi e per tutto il Liceo Classico, dei poeti che andavo conoscendo: Leopardi, Foscolo, Dante, Petrarca.

    È stato invece verso l’età di settanta anni che ho sentito forte il desiderio di mettere sulla carta, sotto forma di racconti, piccoli episodi e pensieri della mia vita che emergevano con forza e improvvisamente alla mia coscienza come sprazzi di luce e di vitalità nel corso di una vecchiaia un poco malinconica ma ancora vivace. Man mano che questi ricordi affioravano mi segnavo sul primo pezzo di carta che mi capitava sottomano il titolo o un riferimento che mi permettesse di ripescarli più avanti, poi cominciavo a ripensarli, rivivendo tante sensazioni del passato, e su alcuni quaderni che tenevo un po’ dappertutto appena sentivo che non potevo farne a meno di getto le buttavo sulla carta in forma di scritto, poi nel tempo, rileggendo, aggiungevo pezzi mancanti a una prima stesura. Era come lanciare un’esca nel fiume della mente, pescarne fuori qualcosa con sorpresa, arricchirlo di piccoli particolari e rivivere pezzi di vita. Qualche volta, devo dire, più come spettatore della vita di colui che ero stato. Era come assistere a un vecchio filmato di famiglia, trovato in un antico armadio polveroso. Avendo una scrittura orribile da decifrare anche per me stesso, ho pensato, con iniziale forte resistenza alla novità, di iscrivermi a un corso di Computer per trasformare i miei sgorbi in materiale leggibile. Così mi sono reso conto, acquisita una certa rapidità, che potevo anche scrivere direttamente al Computer (malgrado alcune crisi di nervi che spesso esso mi procurava quando premevo qualche tasto sbagliato), evitando un massacrante lavoro di trascrizione. Poiché i ricordi fluivano senza alcun rispetto per una sequenza temporale i racconti stessi sono stati lasciati nello stesso ordine, o se preferite disordine, con il quale sono saliti alla coscienza. Essi sono quindi stati messi, in questo piccolo volumetto, senza un apparente senso logico, come fossero dei sogni slegati fra loro. In realtà l’unica cosa che li unisce è il fatto che sono ciascuno sufficiente e concluso in se stesso e che sono momenti di vita della stessa persona. Paragonandoli a un grappolo di uva, sono tutti chicchi legati allo stesso graspo ma ciascuno ha la sua buccia, il suo colore e il suo sapore. Ed è proprio pensando al sapore che mi è parso accettabile intitolarli Bocconi di Vita.

    Spero che alcuni di loro possano risvegliare in chi li leggerà degli stati d’animo che lo facciano entrare in sintonia con chi scrive. In fondo è proprio per questo che sono stati scritti, per dare a me la possibilità di poter entrare in rapporto con altri e rivivere in loro. Inevitabilmente ogni racconto mi ha permesso di esprimere qualche giudizio di valore sui fatti vissuti, basato sulla mia cultura e formazione. Essendo profondamente Laico non ho creduto di nasconderlo mai e spero che nessuno si senta offeso se alcune frasi e concetti non coincidono con la sua sensibilità ed educazione religiosa. Avendo sempre accettato coloro che la pensano diversamente da me, spero di ottenere la stessa tolleranza. Molte altre cose forse emergeranno ancora alla mia mente nei prossimi anni ma, considerata l’età, ho desiderato, prima che la senilità mi offuschi la mente, di cominciare a pubblicare queste.

    La memoria comincia a far cilecca, e noi freghiamola finché siamo in tempo, mettendo nero su bianco, su un foglio di carta, la nostra mente o, se preferite chiamarla diversamente, la nostra anima.

    Ho inserito alcune foto di riferimento per presentare alcune persone e luoghi menzionati nel testo.

    Il tabacco

    Quando il giovane pastore, che aveva fatto spostare le sue vacche perché io potessi transitare col mio piccolo fuoristrada verso la Baita, si avvicinò e con fare gentile mi chiese dandomi del Tu: non hai mica una sigaretta da darmi?

    Istintivamente gli diedi il pacchetto intero che ancora ne conteneva più della metà. Il suo volto si illuminò di un grazie più esplicito di qualunque parola e io, ripresa la guida su per la pista sterrata, mi chiesi come mai spontaneamente gli avessi consegnato molto di più di quanto mi avesse chiesto. Poi, di colpo seppi il perché. In questa verde vallata delle Orobie Valtellinesi, come in tante altre, da sempre sono saliti i Pastori con le mandrie della mucca bruno alpina. Nei secoli passati hanno ricavato pascolo disboscando parzialmente e togliendo con fatica i sassi delle antiche frane. A testimonianza di ciò ancora adesso si possono vedere vasti prati punteggiati qua e là di ammassi e muretti di pietre. Un tempo erano i contadini locali, che avevano sulle Prealpi le Baite, a salirvi da fine maggio a Settembre con le loro vacche, oggi gli alpeggi vengono affittati ai pochi che ancora vivono della produzione di formaggio possedendo almeno una quarantina di animali, quantità che consente un ragionevole profitto. Ai tempi della mia gioventù più di 200 mucche potevano trovare sufficiente cibo in valle perché i prati venivano coltivati nel vero senso della parola e cioè concimati, falciati con relativa produzione di fieno, sorretti con protezioni perché non scivolassero in fondovalle e assorbissero al meglio la pioggia. Tutto era perfettamente organizzato. La valle era suddivisa in alcuni alpeggi: Piana destra, Piana sinistra, Grasselli, Sasso chiaro e Piscenversa che potevano nutrire un certo numero di animali e che erano ciascuno dotato delle semplici costruzioni in sasso per ricoverare i pastori, fare il formaggio e mantenerlo ben protetto a stagionare amorevolmente seguito dal Casaro. La popolazione dell’alpeggio era composta in ordine ascendente da varie figure, ognuna delle quali aveva compiti precisi. I ragazzi di otto-dieci anni eseguivano le mansioni più semplici, come paga ricevevano solo il cibo e venivano per questo chiamati mangiapolenta, i giovani intorno ai quattordici anni curavano assieme a un cane, quando c’era, le vacche al pascolo, ricevevano una modestissima paga ed erano detti cascìn, alcuni adulti erano i pastori veri e propri che mungevano a mano gli animali diretti da un Capomalga che gestiva Baita e cucinava, il casaro, ultimo anello ma primo per importanza di questa società, era dedito alla cosa più importante: fare del buon formaggio, dello squisito burro e della ricotta che era, con l’onnipresente polenta, il cibo fresco principale per la piccola comunità. Spesso le due ultime figure erano riunite in una persona sola, se l’alpeggio era piccolo. In questo ordine sociale perfetto era possibile trovare fino a tre generazioni della stessa famiglia, nonno, padre, nipoti.

    Nei mesi invernali a Caiolo si riunivano i capifamiglia proprietari di vacche per eleggere fra di loro, per ogni alpeggio, il Casaro che veniva in sostanza fatto, a rotazione, da un capofamiglia proprietario di vacche; costui, era poi per l’anno successivo responsabile di tutto quanto gravitava intorno alla produzione del formaggio. Essere eletto era un implicito riconoscimento di capacità, ma la responsabilità era enorme perché una annata di formaggio non ben riuscito significava un disastro economico per una intera Comunità. A fine Maggio le mandrie salivano lentamente la valle del Livrio per raggiungere l’alpeggio della Costa a1400m, qui gli animali consumavano il fieno accumulato l’anno precedente nelle Baite dove per lo più cucina, camera e fienile erano in un locale unico al piano rialzato mentre la stalla occupava il seminterrato. Finito il fieno iniziava la seconda Transumanza verso i pascoli alti fin sotto le cime dei monti dove nel frattempo l’erba era giunta a maturazione. Era una vera processione scandita dal suono dei campanacci delle mucche; alcuni asini o muli trasportavano i viveri e le grosse caldaie di rame. In alcune avrebbe riposato il latte perché ne affiorasse la panna ed erano basse e larghe, nelle altre più profonde sarebbe stato preparato il formaggio e a quel punto interveniva la capacità del Casaro. Intanto nell’alpeggio della Costa rimanevano le donne, che a fine luglio falciavano e poi riempivano di fieno profumato il fienile, i bambini più piccoli e quei pochi vecchi che, circondati di rispetto ma non più nel pieno del loro vigore, svolgevano ancora una funzione anche educativa: facevano i Nonni. Una o due vacche rimanevano al Villaggio per dare latte, burro e ricotta ai rimasti. I pasti consistevano in minestre di riso e verdure selvatiche raccolte nei prati, polenta, patate, uova fresche prodotte dalle galline le quali, oltre che con un poco di avanzi dei pasti umani, si cibavano a spese degli abbondanti insetti dei prati. I pastori più in alto venivano riforniti ogni due settimane da un carico di mulo e vivevano prevalentemente di polenta e latticini qualche fetta di salame casereccio che da noi viene preparato miscelando con quella del maiale il 30% di carne di vacca e, credetemi, è molto saporito. Dura la vita del Pastore perché la mandria va gestita in condizioni ambientali spesso proibitive. Non è raro che qualche animale si rompa un arto e allora l’unica soluzione era quella di sacrificarlo il che avveniva spesso con un forte colpo di mazza sulla fronte e per le pecore, le capre e i maiali per dissanguamento, cui ho assistito e che non potrò mai dimenticare, è identica alla macellazione rituale islamica. Molti erano i sacrifici imposti ai Pastori ma, tra questi, il problema del tabacco era sentito da tutti. Ognuno portava con sé il suo pacchetto di Trinciato Forte, che era un tabacco scuro, poco raffinato, poco costoso e di odore acre ma non spiacevole, e le cartine in cui avvolgendone piccole dosi veniva confezionata la sigaretta. I fiammiferi di legno erano protetti con cura dall’umidità, i più fortunati avevano un accendino a pietra focaia con stoppino alimentato a petrolio lo stesso usato per le lampade. Nell’interno delle rudimentali Baite sotto le cime la luce era prodotta dal fuoco del camino, da candele e, soprattutto, dalle classiche lampade a petrolio. Dalla nostra Baita della Costa mio Padre e io in Agosto spesso andavamo a fare escursioni verso le cime o ai limiti dei lariceti per cercare di fare una specie di censimento della selvaggina: cotornici, galli forcelli, pernici bianche. I Pastori erano una preziosa fonte di informazioni perché essendo sui monti tutti i giorni finivano per vedere tutti i selvatici e ne conoscevano anche le abitudini. A quel tempo proprio per la presenza delle vacche vi era abbondanza di vermi e insetti il che favoriva l’avifauna mentre la competizione alimentare con le vacche frenava lo sviluppo degli ungulati. Perciò una visita ai Pastori era utilissima e mio Padre, gran cacciatore piumista si metteva sempre nello zaino una buona quantità di profumati sigari. Si chiamavano mezzi toscani.

    Era come un Rito: venivamo accolti con cordialità e deferenza verso mio Padre Ufficiale degli Alpini, di cui non era raro che alcuni fossero stati soldati, ci veniva offerta una ciotola di panna fresca segno di generosità e considerazione e, se era l’ora del pasto, eravamo invitati a condividerlo. In cambio a un certo punto il Papà estraeva il pacco di sigari e li distribuiva. Tutto avveniva da ambo le parti con grande dignità. Ricordo un Pastore che una volta disse che di quei sigari nulla andava perso, quando erano troppo corti venivano o messi nella pipa o masticati e certi denti neri lo testimoniavano. Conducevano, quegli uomini una vita dura e primitiva ma producevano formaggi squisiti. Oggi le leggi costringono a fare formaggio solo in locali piastrellati e dotati di acqua corrente ma pare a me di non notare alcun miglioramento nel profumo e sapore del prodotto anche perché la lontananza nel tempo abbellisce ogni tipo di ricordo. Le strade sterrate oramai consentono di portare le vacche in camion quasi a destinazione e i fuoristrada vanno e vengono dai supermercati della pianura in tempi brevissimi, moderne mungitrici a motore rendono possibile a pochi di mungere rapidamente molte vacche. Eppure un giovane pastore era senza sigarette e, chiedendomene timidamente, mi ha fatto rivivere momenti indimenticati del passato, io istintivamente mi sono comportato come mio Padre ed è stato come se il mio Vecchio fosse presente e vivo e mi approvasse.

    Il Colonello Alessi

    Ogni volta che vado a ritirare i documenti per l’esercizio della caccia in valle Livrio mi reco all’ufficio del Comprensorio Alpino Caccia di Sondrio in Via Alessi Eroe della Resistenza.

    Per molti ormai è un nome senza significato ma non per me.

    Quando mio Padre dal campo di concentramento in Germania decise che era ora di rientrare in famiglia fece la prescritta opzione per la repubblica di Salò fondata da Mussolini e una volta a casa decise che aveva fatto il Soldato fin troppo.

    Il Maresciallo Graziani lo promosse Generale per affidargli il comando della Divisione Monterosa che veniva formata da giovani reclute e da coloro che avevano deciso di combattere a fianco dei Tedeschi. Mio Padre che non voleva riconoscere il nuovo esercito fascista rifiutò la nomina e il comando ed essendo affetto da una forma recidivante di malaria chiese e ottenne di essere posto in aspettativa dopo una epica litigata con Graziani stesso.

    Viveva, il Babbo, tra la casa di Sondrio e la Baita della Costa curando l’orto sia qua che là e andando in Autunno a caccia. Ricordo nel Luglio del 1944 tre giovanotti di una formazione partigiana, facente parte di un raggruppamento comandato nella zona da un certo Nicola noto per la sua ferocia, che a fucili spianati entrarono in Baita chiedendo bruscamente al Papà cosa facesse un ufficiale nelle valli da loro frequentate. Temevano probabilmente di essere spiati ma per fortuna credettero alle spiegazioni fornite loro e dopo essere stati rifocillati tornarono ai loro rifugi. Sapemmo poi che un capo partigiano di Caiolo, tale Farina, che conosceva e stimava mio Padre, diede ordine di non minacciare più il colonnello Manfredini e così accadde.

    Già dal 1942 veniva spesso a casa nostra con la moglie, alla sera dopo cena, il colonnello Alessi, comandante del nucleo dei Carabinieri di Sondrio, che era un convinto antifascista e avendo capito che poteva fidarsi sfogava con mia Madre, e con mio Padre quando questi era a Sondrio in licenza, il malumore che a Lui cattolico, monarchico e antifascista procurava la progressiva fascistizzazione dell’Italia. Io ricordo, ad esempio, che durante il funerale di un miliziano della Repubblica di Salò, cui assistevo, uno di quei violenti uscì dal plotone che seguiva il feretro e urlando come un ossesso percosse un uomo molto anziano che si era dimenticato di togliersi il cappello, questo accadde proprio davanti a Palazzo Sassi. Ho saputo poi, perché Lei non lo ammise mai, che la Mamma era andata una notte con una tal signora Remotti, che per qualche tempo frequentò la nostra casa, a tenere il secchiello della vernice con cui quella si dedicava a scrivere frasi antifasciste e contro i borsaneristi sui muri della casa INCIS vicino all’ospedale e sulle serrande di alcuni negozianti, come reazione a episodi di quel genere e agli arricchimenti di alcuni profittatori. La Mamma era addetta solo al trasporto della vernice perché, non essendo allora ancora perfetto il suo italiano parlato e scritto, c’era il rischio che commettesse errori di ortografia che la avrebbero fatta facilmente identificare. Il bello era che Alessi era al corrente di queste azioni ma le copriva nei limiti del possibile. Questo me lo raccontò il Papà, poco tempo prima di morire, per spiegarmi, in una certa situazione famigliare, che tipo di incosciente Ella fosse, ma sotto sotto ne ammirava il coraggio anche se nella sua mentalità le donne non avrebbero dovuto occuparsi di politica ma dei Figli e men che meno fare le rivoluzionarie.

    La fiducia tra Alessi e i miei genitori era totale e ricordo una sera dell’autunno 1943 in cui Alessi si chiuse in sala, con la Mamma e parlarono a lungo. Seppi anni dopo da mia Madre che era venuto a farla partecipe della decisione di passare nella resistenza armata e a chiedere di nascondere in casa nostra alcune cassette di documenti ed effetti famigliari cui era legato e che non poteva portare con sé. Quella incosciente e rivoluzionaria della Mamma acconsentì e anche quella volta ebbe fortuna. Una notte arrivò a casa una camionetta e alcuni uomini di fiducia di Alessi le sistemarono, dopo un lungo lavoro di badile, sotto il grosso mucchio di carbone con cui alimentavamo la caldaia del riscaldamento. Venne, mesi dopo, una ispezione della milizia che frugò tutta la casa ma fu superficiale, o forse non vollero sporcarsi le divise, ebbero rispetto per il grado del Papà, che nel frattempo era rientrato ed era presente in casa, e così tutto andò liscio. Poche settimane dopo l’8 Settembre 1943 Alessi e alcuni carabinieri a lui fedeli si resero irreperibili passando in Svizzera e poi in Valmalenco coi Partigiani. È storicamente noto che nelle file partigiane militavano persone di varia estrazione e appartenenza: cattolici, comunisti, liberali, banchieri, operai, industriali, preti, e qualche testa calda senza idee politiche, gente che doveva vendicarsi di qualche violenza patita, opportunisti in cerca di vantaggi economici futuri e molti idealisti che volevano la liberazione dalla dittatura e dall’occupazione nazista. In breve tempo le varie fazioni, ciascheduna per le sue ragioni, vennero in attrito; Alessi, militare di carriera, faceva parte dei moderati che volevano, una volta ottenuta la resa del nemico, che l’ordine venisse ripreso in mano dall’arma dei carabinieri, che i Partigiani deponessero le armi e i vinti fossero processati secondo le loro colpe e non giustiziati sommariamente come poi accadde a molti. Gli estremisti erano contrari a questa soluzione e, soprattutto, lo erano i capi della fazione comunista della Resistenza, che ricevevano ordini da Mosca.

    Non si è mai saputo con certezza, ricerche storiche lo negherebbero, ma corse voce, e mio Padre era convinto di ciò, che proprio qualcuno di costoro, per togliere di mezzo Alessi e il suo programma, facesse sapere dove avrebbe trascorso una certa notte nei dintorni di Sondrio, proprio tra il 25 e il 26 Aprile 1945. Quale che sia la verità, il fatto è che il luogo venne circondato da armati e vano fu il tentativo di Alessi e di un suo collaboratore di difendersi e di sottrarsi alla cattura. Cosi il colonnello Alessi ha avuto almeno una via e una caserma a ricordare il suo sacrificio. Mi chiedo quanti sappiano chi era quando passano di là. Io personalmente di Lui ho un bel ricordo perché era brillante e allegro a casa nostra con la nostra chitarra in mano quando suonava canzoni popolari piemontesi in sala con tutti noi bambini intorno, mi pare suonasse bene anche il pianoforte.

    La moglie poi era così bella e dolce che, ricordo, ne ero rapito. Fu anche ospite alcuni giorni nella nostra Baita in montagna, nell’estate del 1943 e al mattino avevamo la consuetudine, con rabbia di mia sorella che ne era gelosa, che io mi rifugiassi nel suo letto per farmi raccontare una storia; ricordo una voce dolce con cadenza diversa da quella lombarda cui ero abituato e, se la memoria non mi inganna, aveva chiari i capelli. Lei, che non aveva figli, mi coccolava e mi abbracciava con tenerezza e io ne ero profondamente emozionato nei miei sette anni.

    Così quando vado a rinnovare il permesso di caccia li ricordo tutti e due con commozione.

    Don Gustavo

    Non sono un gran credente né un praticante ma per varie circostanze ho avuto modo di conoscere alcuni preti con cui si è instaurata una certa confidenza.

    Uno di questi è stato Don Gustavo e così le cose si svolsero.

    Nell’Agosto del 1954 si era saliti in Baita per festeggiare appunto il Ferragosto. Eravamo una piccola tribù di ragazzi gestiti e diretti dalla signora F. madre di due splendide fanciulle P. e A. e una loro graziosa amica T. milanese. I maschietti, se ben ricordo, eravamo Aldo e io allora diciottenni, il Bill e il Belezza.

    Dei maschi solo io avevo la cameretta che era stata di mio padre e quindi avevo un letto, gli altri tre dormivano a turni su un vecchio divano in cucina.

    La Signora gestiva la cucina, le ragazze le camere, noi giovinotti eravamo responsabili dell’approvvigionamento della legna per la cucina economica e il camino, tutti inoltre andavamo per funghi, mirtilli, lamponi e fragoline di bosco oltre che per verdure selvatiche, particolarmente gli spinaci detti in dialetto locale parù, che generosamente le praterie alpine fornivano. Aldo, adorante, seguiva appena poteva, spasimante senza speranza, la bella T, che lo stuzzicava ma lo lasciava a secco.

    Le provviste erano state calcolate con larghezza e con fatica trasportate a spalla ma ahimè il vino, pesante nelle bottiglie, scarseggiava fin dall’inizio tanto che verso il 12 Agosto tirammo il collo all’ultimo fiasco e fummo costretti da allora a mettere al centro della tavola, orribile vista, il secchio dell’acqua con relativo mestolo per la distribuzione del beveraggio.

    In due giorni eravamo con la bava alla bocca; immaginatevi di mangiare una bella pastasciutta o una polenta taragna annaffiandola con fredda acqua di sorgente, è situazione da suicidio. La sofferenza ci aveva ormai ridotti a progettare 6 ore di cammino per procurarci l’agognato vino quando mi ricordai che a una sola ora da noi, nell’alpeggio di San Salvatore, il 16 Agosto, giorno dedicato a San Rocco, si svolgeva da tanti anni una festa all’aperto con relativa funzione religiosa nell’antica chiesa ma quel che più mi interessava era che, finito di nutrire l’anima, veniva gratuitamente nutrito anche il corpo con distribuzione di pane, vino e minestrone di trippa. Eravamo per breve tempo salvi.

    Oltretutto il pasto, per antica usanza, era offerto da un mio parente acquisito a me molto caro che chiamavo zio e che aveva una grande casa vicino alla Chiesa dove quel giorno avrebbe pranzato in sala con le persone più importanti tra cui vi era sempre il Parroco di Albosaggia. Decidemmo quindi di partecipare ai festeggiamenti in onore del Santo e ci avviammo alle 10 del giorno stabilito verso San Salvatore in fila lungo lo stretto sentiero ma, essendoci fermati nei boschi alla ricerca di funghi porcini e gallinacci, di cui la zona era ricca, arrivammo a destinazione a messa finita quando i fedeli erano ormai sciamati nel bel prato antistante la Chiesa in attesa della refezione.

    Lo zio Ugo era in casa e si apprestava a fare onore al cibo coi maggiorenti suoi ospiti quando Aldo e io entrammo nella sala da pranzo per porgere i nostri saluti e trovammo tutti in attesa di un aperitivo. Stavamo salutando velocemente quando vidi Aldo fermarsi di colpo e fissare intensamente il giovane prete che evidentemente sostituiva in quella occasione il Parroco, poi sbottò in una esclamazione: Gustavo vecchio porco cosa fai qui vestito da prete?

    A sua parziale discolpa è giusto dire che era questo il modo affettuoso in cui usavamo apostrofarci tra noi. Il fatto è che di fronte a tanta irriverenza scese un silenzio in cui il volo di una mosca sarebbe sembrato il frastuono di un elicottero.

    Il suddetto Gustavo salvò la situazione dicendo, con la voce un po’ cantilenante che molti sacerdoti acquisiscono in seminario: Ma tu sei Aldo, quel monellaccio che veniva ai campi estivi dell’oratorio in Valchiavenna.

    Il gelo si sciolse in qualche imbarazzata risatina e noi uscimmo in fretta con sollievo di tutti mentre il molto reverendo riprendeva il suo ruolo che era stato messo a rischio. Il buon Aldo però non si riprese così in fretta e borbottava a mezza voce: ma guarda un po’ si è proprio fatto prete.

    Il povero Gustavo aveva commesso una grossa imprudenza di cui poi ebbe a pentirsi, perché mentre uscivamo con voce giocosa aveva imprudentemente detto, come a far capire che in fondo eravamo bravi ragazzi: Venite a trovarmi.

    Sapendo dove esercitava la sua missione decidemmo subito che senza dubbio saremmo andati a trovarlo per scroccare qualche merenda. La parrocchia di Albosaggia era ricca e vasta, come tutti sapevano, e a quel tempo i fedeli usavano ancora omaggiare i loro ministri col dono di prodotti della pastorizia e della vigna. Così alla prima esplorazione capimmo subito due cose; il reverendo era ben fornito di generi di conforto, e il reverendo temeva il suo superiore, prete all’antica che forse non era poi stato così felice di aver dovuto, per la premura del suo Vescovo, prendersi un viceparroco giovane, dinamico, pieno di zelo e ben presto amato dal popolo dei fedeli ma che veniva così a ricevere lui pure i benefici.

    Le prime volte andammo a trovarlo previa accordo telefonico ma poi prendemmo la mala abitudine di capitargli fra i piedi senza preavviso e poiché di giorno era assai occupato e difficilmente reperibile ci andavamo uscendo dalla balera della Moia dopo aver ballato fino alle 11 e30 del sabato sera.

    La prima volta, affacciatosi alla finestra per vedere chi suonasse il campanello, ci fece entrare a malincuore pregandoci che non facessimo rumore per non svegliare il cerbero che dormiva al piano di sopra, ma la volta successiva ci ingiunse sibilando da dietro la persiana di andarcene via.

    C’era un solo modo per stanarlo ed era la sua paura del superiore. Mi vergogno ancora adesso ma per piegarlo ci sedemmo sui gradini dell’entrata principale della Chiesa, che era dirimpetto alla casa parrocchiale, e intonammo a mezza voce la parte cantata della messa degli angeli con pesanti variazioni nel testo. Dopo pochi secondi il poveruomo era sulla porta e quasi in lacrime ci fece entrare e ci rifocillò, ma tanta fu la pena che sentimmo per questa violenza che da allora andammo a trovarlo solo dopo la messa di mezzanotte del Natale e così ci facemmo perdonare la malvagità.

    Anni dopo ho saputo che è diventato Parroco di una importante sede nella valle di cui era nativo; pochi mesi fa ho avuto notizia della sua morte. Nel suo paradiso gente come noi non la lasciano entrare ma forse a lui un poco, secondo me, dispiace.

    Un parto difficile

    Nei miei primi anni di lavoro ospedaliero magro era lo stipendio essendo io un giovane assistente, ovvero bassa manovalanza.

    Così, per arrotondare, usavo il mio mese di ferie per fare il supplente di qualche medico condotto che andava in vacanza e in quel breve periodo portavo a casa la stessa cifra che l’ospedale mi corrispondeva per sei mesi di lavoro. Per questa ragione le condotte mediche erano assai ambite, ma io volevo arrivare in alto nella pratica chirurgica per cui non mi feci allettare, mi iscrissi alla scuola di specializzazione in Oculistica, e rimpinguavo le mie finanze con supplenze di condotta rinunciando alle vacanze e così feci anche nel Settembre 1963 a Delebio.

    In verità la vita del Condotto era molto formativa perché era l’avamposto della pratica medica; bisognava fare di tutto senza supporto esterno e solo nei casi difficili si ricorreva al ricovero in Ospedale.

    Non avendo ancora potuto acquistare una automobile facevo il medico di campagna in Vespa con la mia valigetta tenuta ferma tra le gambe.

    Ne vidi di tutti i colori, come si suol dire, ma l’angoscia più grande me la provocò un parto difficile.

    Dunque così si svolsero i fatti. È bene premettere che allora il condotto, per le situazioni urgenti, non aveva, come oggi, orario di lavoro ma doveva essere disponibile giorno e notte, festivi compresi, e poteva solo farsi sostituire o lasciare un recapito telefonico.

    Una domenica decisi di andare a casa a Sondrio per cambiare la biancheria e cucinarmi una buona pastasciutta; era bel tempo e dopopranzo mi stesi sul terrazzo a sentire il mio amato Mozart. Avevo lasciato il mio numero telefonico al mio Locandiere che si prestava a farmi da centralino, e improvvisamente il telefono squillò. La voce concitata del mio bravo centralinista mi avvisava, dal suo Bar, di raggiungerlo al più presto che mi avrebbe accompagnato dove la mia opera era richiesta con urgenza.

    Con la mia Vespa in 20 minuti sono da lui che mi accompagna in un casolare isolato posto là dove iniziano a elevarsi le Prealpi Orobie.

    Sono atteso da un gruppetto silenzioso di persone; un uomo mi introduce in casa e aperta parzialmente una porta dice: È arrivato il dottore.

    Entro e mi trovo in una stanza con le pareti coperte di candide lenzuola, su un lettone vi sono numerosi materassi e sull’ultimo, ripiegato in due, vi è una giovane donna in posizione ginecologica stesa a sua volta sul biancore di un lenzuolo. Davanti alla partoriente, che si lamenta debolmente, una levatrice di mezza età mi porge un forcipe invitandomi a estrarre il bambino, di cui si intravedono i capelli, dalla vagina materna. Non avendo mai applicato un forcipe neppure basso, come si dice in termine medico quando l’apice della testa è visibile, rimprovero la donna che ha lasciato arrivare il parto a quel punto senza convocarmi prima. Mi risponde contrita che ormai non vi è tempo da perdere perché la madre è sfinita, l’utero si contrae poco e

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1