Virtual Experience: La realtà virtuale nel mondo dell’arte
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Virtual Experience - Carmelo Lombardo
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Villaggio Maori Edizioni
1
Interazione uomo-computer
L’introduzione di tecnologie informatiche in ogni area delle attività umane sta rendendo l’informatica sempre più una disciplina orientata a supportare la comunicazione con gli utenti. Negli ultimi vent’anni si è assistito ad una crescente necessità di capire come progettare l’interazione di sistemi informatici con gli utenti in modo da ottenere sistemi facili da usare.
L’interazione uomo-computer (Human Computer Interaction) è la disciplina che studia metodi e tecniche per la progettazione e lo sviluppo di sistemi interattivi che siano usabili, affidabili e che supportino e facilitino le attività umane. Essa si è sviluppata velocemente negli ultimi anni con la penetrazione crescente dei dispositivi informatici in ogni attività umana. Infatti, il sempre maggior uso di applicazioni informatiche richiede una progettazione che sappia tenere conto dei vari possibili contesti di uso, degli obiettivi degli utenti e delle nuove tecnologie di interazione. L’informatica diventa sempre più una disciplina interattiva e orientata alla comunicazione con utenti. Per esempio, il successo del Web è dovuto alla facilità con cui permette di comunicare informazioni al mondo intero. A questo scopo sono stati sviluppati metodi, modelli, tecniche, in grado di misurarsi con queste nuove problematiche. Dovendo trattare dell’interazione tra due sistemi molto diversi, quello umano e quello informatico, l’interazione uomo-computer è intrinsecamente interdisciplinare per poter cogliere i vari aspetti che possono essere rilevanti.
I primi calcolatori avevano poco di interattivo con gli utenti. Negli ultimi venti anni si è assistito a una crescente necessità di capire come progettare l’interazione di sistemi informatici con gli utenti in modo da ottenere sistemi facili da usare.
Molte delle tecniche di interazione grafica vengono introdotte negli anni ‘70 nel laboratorio di ricerca della Xerox Parc¹. Nel 1981 appare sul mercato il primo sistema commerciale con il supporto della manipolazione diretta: Xerox Star². Verrà seguito da Apple Lisa³ nel 1982 e dal Macintosh nel 1984. Gli schermi grafici portarono anche all’introduzione di dispositivi che facilitavano l’interazione con essi. Il più conosciuto è il mouse. Esso fu inventato nei primi anni ‘60 da Douglas Engelbart⁴. Altri dispositivi furono introdotti presto come la penna ottica, la tavola digitalizzatrice. Insieme a schermi e mouse fu ben presto chiara la necessità di avere a disposizione tecniche che consentissero di rendere più efficiente il lavoro degli utenti e, quindi, furono introdotti i sistemi a finestre che consentivano di interagire con varie applicazioni associate a diverse finestre contemporaneamente. I primi sistemi a finestre furono sviluppati alla Xerox PARC e furono lo Smalltalk e InterLisp a metà degli anni ‘70 e furono adottati dallo Xerox STAR e Apple Lisa. L’Apple Machintosh rese poi queste tecniche disponibili al grande pubblico nel 1984 con uno schermo a 9 pollici, bianco e nero, 512 per 342 pixel. In quel periodo, al MIT nasce X Window System⁵ che consente tramite la sua architettura client/server di avere un sistema a finestre, interattivo con una notevole flessibilità e portabilità in ambienti distribuiti. A consacrare il successo delle interfacce grafiche si ha, nel 1985, la prima versione di MS-Windows. Si affermano così le interfacce WIMP (Window Icon Menu Pointer) che diventano gli ambienti con cui, ancora oggi, si interagisce principalmente con i computer. Nel frattempo, alcuni ricercatori cercavano di identificare i concetti e i metodi più rilevanti per questa disciplina emergente: ad esempio, nel 1983, Card, Moran e Newell introducono il modello di processore umano che fornisce una rappresentazione semplificata di come l’essere umano percepisce ed elabora gli stimoli esterni e il metodo GOMS (Goals Operators Methods Selection rules) per predire la performance umana durante l’interazione con un computer.
Il principale obiettivo di questa disciplina è l’usabilità. Questo è un concetto complesso, a molte dimensioni (come, per esempio, rilevanza, efficienza, facilità di apprendimento, sicurezza, flessibilità ecc.), dove il peso di ciascuna dimensione dipende anche dal dominio applicativo che si considera. Infatti, se si prova a considerare applicazioni appartenenti a domini diversi si vede subito come cambia l’importanza di alcune sue componenti.
Un sistema informatico è accessibile se può essere usato da tutti. L’obiettivo dell’usabilità è di rendere l’esperienza degli utenti più efficiente e soddisfacente. Ovviamente, in questa prospettiva, un sistema non può essere usato se non è accessibile.
Per capire che cos’è lo human-computer interaction e l’usabilità è opportuno far riferimento al modello di Norman⁶ il cui scopo è identificare le fasi principali nell’interazione utente, fornendo così una indicazione utile e strutturata degli aspetti principali da considerare quando si progettano interfacce. Questo modello fornisce una valida struttura logica, anche se semplificata, per la progettazione e valutazione.
La progettazione di interfacce è orientata alla comunicazione con gli utenti finali. Essa ha alcune problematiche in comune con la progettazione di oggetti, manifesti o clip televisivi, edifici. In tutti questi casi, si tratta di progettare forme e spazi nel contesto di uno specifico compito o problema. A questo scopo, bisogna evitare di considerare solo aspetti funzionali interni, trovare soluzioni che abbiano un fondamento generale, evitando quindi di basarsi solo sull’intuizione del progettista e trovando un giusto equilibrio tra metodo e intuizione. Lo scopo è di selezionare gli elementi attentamente, definire soluzioni chiare, economiche, convincenti che si possano operare immediatamente, che possano essere più facilmente assimilate, comprese e ricordate, attirano immediatamente l’utente sugli aspetti importanti e consentono di raggiungere gli obiettivi rapidamente e senza errori. Tante volte le soluzioni semplici sono le più usabili.
1.1 3D, tridimensionalità e stereoscopia:terminologia ed evoluzione
Il cinema tridimensionale (noto anche come cinema 3-D o cinema stereoscopico) è un tipo di proiezione cinematografica, che grazie ad alcune specifiche tecniche di ripresa, fornisce una visione stereoscopica delle immagini. Per la corretta fruizione sono necessari accorgimenti tecnici sia per la proiezione (sono necessari appositi dispositivi quali proiettori e talvolta schermi dedicati), che per la visione (occhiali).
I primi film 3D, a partire dagli anni venti, sfruttano il sistema dell’anaglifo. Dagli anni cinquanta, durante i quali il cinema tridimensionale ha la sua prima ampia diffusione, il sistema più diffuso sfrutta la tecnica della luce polarizzata. Attualmente le due tecniche utilizzate sono quelle della luce polarizzata, alla quale appartiene ad esempio il sistema RealD, e quella degli otturatori alternati o shutter glasses, alla quale appartengono gli occhiali elettronici a cristalli liquidi.
Attualmente la proiezione stereoscopica viene applicata in prevalenza a film d’animazione, film d’azione o dove è più grande la necessità dell’effetto speciale
per il coinvolgimento sensoriale del pubblico.
L’idea di stereoscopia è molto antica. Fu Euclide nel 208 a.c. a comprendere i principi della visione tridimensionale: ciascuno dei nostri occhi percepisce un’immagine leggermente differente dall’altro ed è la combinazione delle due immagini a fornirci della percezione della terza dimensione. Nel 1584 Leonardo da Vinci studiò la percezione della profondità. Giovanni Battista della Porta (1538-1615) produsse il primo disegno artificiale tridimensionale e Jacopo Chimenti da Empoli (1554-1640) realizzò disegni affiancati che chiaramente dimostrano la comprensione della visione binoculare. Nel 1613 il gesuita Francois d’Aguillion (1567-1617) coniò in un suo trattato il termine "stéréoscopique. Nel 1833 il Professor Sir Charles Wheatstone dimostrò che, ponendo due disegni leggermente diversi l’uno accanto all’altro e osservandoli attraverso un sistema di specchi e prismi è possibile produrre articificialmente l’effetto della visione tridimensionale e nel giugno 1838, illustrando la visione binoculare alla Royal Scottish Society of Arts, propose di denominare l’apparato
stereoscope, al fine di indicare le sue proprietà di rappresentare figure solide" (la parola è composta dai due termini greci stereos, solido, e scopos, che guarda). Nel 1844, Sir David Brewster (che nel 1816 aveva brevettato il caleidoscopio, dal greco kalos, bello, eidos, forma, e scopos, che guarda) apportò miglioramenti allo stereoscopio.
Fu l’interesse della Regina Vittoria, dimostrato a partire dalla Grande Esposizione del 1851 a Londra, che rese molto popolare la stereoscopia: nel 1856, secondo Brewster, erano stati venduti già mezzo milione dei suoi stereoscopi, malgrado il costo fosse molto elevato. Un americano, Oliver Wendell Holmes, realizzò una versione meno cara dell’apparato, in alluminio, consentendo la diffusione di grandi quantità di immagini stereo, montate su cartoncino. La moda di raccogliere immagini stereo continuò fino alla prima guerra mondiale, che infatti fu documentata da diversi gruppi di fotografi dotati di apparati fotografici stereo. Furono molti i produttori di macchine fotografiche stereo a partire dalla seconda metà del ‘800. Un certo numero di società si specializzò nella produzione di immagini stereo e di visualizzatori, la più nota di queste fu l’americana View-Master, fondata alla fine degli anni ‘30.
Un anaglifo (dal greco anáglyphos, composta da aná, sopra, e glýphein, incidere,) è un’immagine ottenuta sovrapponendo i due fotogrammi di uno stereogramma colorati con due differenti colori, ad esempio il rosso per l’immagine destra e il verde per l’immagine sinistra. In questo modo osservando l’immagine tramite lenti di colori analoghi (rosso per l’occhio destro e verde per l’occhio sinistro), si ottiene che l’occhio destro veda la sola immagine destra e l’occhio sinistro la sola immagine sinistra. Con questa tecnica le due immagini possono essere sullo stesso fotogramma, ovvero, nel caso televisivo, è sufficiente un solo canale per inviare le informazioni. Nel tempo sono state utilizzate diverse coppie di colori. La coppia rosso-verde funziona abbastanza bene con le immagini stampate, anche se l’immagine percepita attraverso gli occhiali tende ad apparire gialla. In campo cinematografico, i primi esperimenti furono fatti con la coppia giallo-blu, ma in questo caso, oltre ad una variazione del colore, risulta difficile avere immagini prive di effetto ghost. La coppia rosso-ciano combina tutti e tre i primari: l’immagine destinata all’occhio sinistro viene filtrata in modo da contenere solo i contributi verde e blu, mentre quella destinata all’occhio destro viene filtrata per contenere i soli contributi relativi al rosso. La combinazione dell’immagine destra e sinistra viene visualizzata sullo schermo e le lenti colorate degli occhiali operano come filtri, consentendo a ciascun occhio di percepire solo l’immagine ad essa destinata e impedendo la percezione dell’immagine destinata all’altro occhio. La coppia rosso-ciano consente di avere una discreta rappresentazione del colore e una