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Architettura PostDecostruttivista Vol. 2: La maniera biomimetica
Architettura PostDecostruttivista Vol. 2: La maniera biomimetica
Architettura PostDecostruttivista Vol. 2: La maniera biomimetica
E-book171 pagine2 ore

Architettura PostDecostruttivista Vol. 2: La maniera biomimetica

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Esiste un progresso in architettura? Qual è la relazione tra sviluppo tecnico e progetto? Capire fin dove è fertile e innovatrice la naturalizzazione dell'architettura post-decostruttivista e da che punto in poi questa diviene un feticcio biomimetico, manierismo tecnocratico ostile e introverso, è uno dei temi cruciali dell'architettura del nuovo millennio, nata per ricomporre e rigenerare le metropoli e, nell'ultimo decennio, divenuta oggetto sempre più chiuso e separato dalla città. La maniera biomimetica prosegue la lettura iniziata in La linea della complessità attraverso la medesima prospettiva critica e concentra l'attenzione sulle ricerche che oggi sfruttano al massimo le tecnologie della progettazione (computational, parametric, algorithmic, morphogenetic design) in nome del progresso scientifico e di una nuova tabula rasa culturale, per comprendere se queste pratiche costituiscano, oltre che una indubbia novità sul piano tecnico e formale, anche uno sviluppo positivo dal punto di vista urbano ed ecologico.
LinguaItaliano
EditoreD Editore
Data di uscita5 set 2017
ISBN9788894830026
Architettura PostDecostruttivista Vol. 2: La maniera biomimetica

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    Anteprima del libro

    Architettura PostDecostruttivista Vol. 2 - Mario Coppola

    Ringraziamenti

    Prefazione

    Una conversazione con Gianluca Bocchi

    Mario Coppola: A tuo parere, è possibile legittimare la trasformazione dell'architettura nel tempo semplicemente con lo sviluppo della tecnologia? Se la tecnologia permette qualcosa, questa è valida automaticamente?

    Gianluca Bocchi: Per rispondere a questa domanda è necessario tornare ai fondamenti, prima di affrontare dibattiti più specifici. Con la tecnologia si possono aprire innumerevoli scenari. Spesso non sappiamo nemmeno utilizzare le tecnologie per quello che consentirebbero astrattamente. Viceversa, spesso utilizziamo le tecnologie male, in forma inutile o persino distruttiva. Il fatto è che il ventaglio delle possibilità tecnologiche è così ampio che non ci dice nulla sull’utilità, l’inutilità o la dannosità delle sue singole utilizzazioni, dato che dipendono in forma critica da obiettivi, visioni e personalità degli utilizzatori. È chiaro che ci sono esempi clamorosi che ci dicono che gli sviluppi tecnologici possono sfociare in forme molto nocive, quale è il caso della bomba atomica. Ma anche prescindendo da casi del genere è chiaro che non tutto ciò che è astrattamente possibile sul piano tecnologico può essere concretamente realizzato. Il fatto è che il mondo continua ad essere a risorse estremamente limitate, e per risorse limitate non intendiamo solo le risorse economiche ma anche un'altra risorsa inevitabilmente scarsa, e cioè il tempo a disposizione. Questo vale sul piano collettivo, e vale anche e soprattutto sul piano individuale. Ogni individuo e ogni collettività devono fare per forza delle scelte di priorità per concretizzare ciò che appare astrattamente disponibile, e questo sulla base di un calcolo delle risorse effettivamente in gioco che non può essere che soggettivo, cioè condizionato da obiettivi sociali, culturali, utilitari, opportunistici.

    È chiaro che ogni tecnologia, senza un utilizzatore consapevole, sia esso individuale e collettivo, è cieca e di corto raggio. E invece gli utilizzatori spesso decidono di nascondersi dietro affermazioni retoriche, e onestamente datate, sull’inarrestabilità del progresso tecnologico. Peggio ancora, quando non decidono di nascondersi credono di armonizzarsi con il ritmo di questo presunto progresso, senza accorgersi che così facendo si deresponsabilizzano e perdono ogni capacità di governo degli sviluppi tecnologici, trascurando così anche opportunità molto positive. Problemi di questo genere sono in realtà riscontrabili in tutte le singole pieghe del vivere quotidiano. La navigazione di Internet, in effetti, presenta gli stessi problemi della navigazione nello stretto di Messina. Metaforicamente, si rischia di essere scaraventati sia su Scilla sia su Cariddi, dove Scilla significa trarre in maniera quasi automatica le sole informazioni pertinenti a un proprio obiettivo ristretto (senza cercare quindi minimamente di utilizzare le potenzialità del mezzo-strumento informatico) e Cariddi significa perdersi letteralmente nella navigazione, mettendo sullo stesso piano ciò che è rilevante e ciò che è superfluo, e talvolta anche rinunciando a ogni spirito critico nei confronti del valore di verità delle informazioni veicolate dal mezzo tecnologico.

    Oggi l’ambivalenza della tecnologia è esperita da tutti nelle pieghe recondite della loro vita quotidiana. Per sfruttare al meglio le risorse che possono provenirci da Internet è indispensabile avere una testa ben fatta, come si esprime Edgar Morin: si deve possedere un proprio percorso professionale, culturale, e anche di vita che sviluppi progetti propositivi rispetto alla realtà, ma che poi da questa realtà si facciano riplasmare e trasformare. La tecnologia ci offre quello che noi le forniamo, più o meno inconsapevolmente: è una sorta di specchio, che amplifica i nostri pregi e i nostri difetti. Certamente, non è uno specchio passivo: è un partner non biologico, e quindi fortemente limitato per molti aspetti, che può darci risposte imprevedibili e illuminanti, ma solo se conosciamo i suoi limiti e non la consideriamo un oracolo onnipotente, perché rimane pur sempre dipendente dalle nostre scelte.

    Solo se siamo consapevoli di queste problematiche possiamo interrogarci costruttivamente su che cosa possano veramente significare le simbiosi fra gli umani e le tecnologie, e le possibilità aperte davanti ad esse. Al proposito, naturalmente, l’architettura si trova oggi in una collocazione molto influente, ma purtroppo la sua volontà di pensare la tecnologia e le relazioni fra gli umani e la tecnologia è ancora molto carente. Il risultato è che all’architettura, come del resto a tanti altri ambiti delle attività umane, oggi sfuggono le pratiche che vengono messe in atto e che rimangono per così dire senza governo. Il grave rischio è soprattutto che gli architetti – come tanti altri protagonisti delle attività umane – compiano una sorta di razionalizzazione a posteriori, e credano di avere sotto controllo le proprie scelte proprio nel momento in cui le hanno maggiormente subite.

    MC: Per continuare, osservando gli sviluppi nel campo dell'architettura dell’ultimo decennio, vi è una parte precisa che in questo momento sta spingendo di più e sfruttando di più gli sviluppi tecnologici – soprattutto gli sviluppi informatici di tipo computazionale-algoritmico. Se ci soffermiamo a indagare l’architettura di questo genere, ne possiamo individuare due fasi di sviluppo. In una prima fase, l’innesto nel campo architettonico di una serie di saperi che fino a una trentina di anni fa ne erano del tutto separati – come la biologia, la neuroestetica, l'ecologia e la sociologia – ha certamente delineato un momento di fertilità e di arricchimento, in cui l'architettura ha goduto di uno sviluppo laterale, ha fatto uno scarto rispetto a un passato anche recente e ha affrontato in maniera creativa i temi della complessità, della connessione e della continuità tra mente e corpo, tra uomo e biosfera, tra natura e cultura… Negli ultimi dieci anni, però, qualcosa è cambiato, come se si volesse legittimare esasperatamente – diremmo quasi fondare – la crescente e palese introversione dell'edificio attraverso l'uso di queste tecnologie. Si dice: io faccio una struttura biomimetica perché sono sicuro che sarà sicuramente più funzionale – da tutti i punti di vista: strutturale, psicosomatico, organizzativo/programmatico, e così via – rispetto a una struttura tradizionale. Si arriva a fare progetti di edifici che sembrano corpi viventi, che mimano una forma vivente fin nella sua doppia curvatura superficiale. Ma più si va avanti verso questa biomimesi più si perde il contatto con la realtà, con l'ambiente circostante. Mi viene in mente il racconto di Babele, come se inseguendo la biomimesi tecnologica si perdesse il contatto con la città, con l’alterità, con l’umanità stessa. In tal senso l'architettura diventa un sistema autoreferenziale, chiuso in se stesso. Dobbiamo chiederci allora se la biomimesi debba necessariamente sfociare nell’oblio dei contesti urbani e ambientali in genere. Il risultato è inevitabilmente una nuova segregazione?

    GB: Anche qui i conflitti e gli sviluppi in ambito architettonico sono i riflessi e lo sviluppo di un problema ben più grande. Che cosa significa l'autoreferenzialità a cui assistiamo? È inevitabile? È utile? Perché si valorizzano esageratamente le operazioni progettuali e culturali che staccano un universo di discorso rigidamente delimitato dalla interazione coi contesti di cui continua evidentemente a far parte? Sono operazioni estremamente ambivalenti. Da un lato, infatti, non tutte le operazioni che tracciano confini e isolano un particolare sistema dai suoi contesti più ampi sono necessariamente regressive. Talvolta, anzi, sono una tappa fondamentale delle nostre conoscenze e delle nostre azioni perché vogliamo focalizzarci sui nessi interni al sistema, per approfondirli e per evitare perturbazioni intempestive che rischierebbero di confondere il nostro approccio. Naturalmente nelle matematiche i sistemi assiomatici sono qualcosa di questo genere, ma lo sono anche talune simulazioni al computer che vogliono valutare il comportamento del sistema solo da un punto di vista concettuale o, se vogliamo, anche molte realizzazioni dell’arte concettuale che vogliono innescare discorsi sull’arte fino ad allora inediti. Tutte queste operazioni sono legittime e di grande valore conoscitivo, e se le cose stessero in questo modo lo sarebbero anche in architettura.

    I problemi (e, a mio parere, sono grossi problemi) però sorgono quando capita che il nostro universo di discorso è chiuso e autoreferenziale perché siamo stati noi a decidere di considerarlo chiuso e autoreferenziale. Nella realtà, oltre il confine di ogni sistema metodologicamente chiuso vi sono non uno ma mille contesti ed evidentemente possiamo e dobbiamo anche decidere di indagare le relazioni fra il sistema sul quale siamo focalizzati e questi molteplici contesti, soprattutto perché il nostro sistema il più delle volte si accoppia con questi contesti e genera altrettanti sovrasistemi. Avendo chiare queste dinamiche, si deve spogliare l’edificio biomimetico da quell’aurea di inevitabilità che spesso gli viene attribuita dai suoi produttori. La validità di un edificio biomimetico – come di qualunque edificio possa venir generato da qualunque scelta alternativa – non ha alcuna oggettività fondata su una presunta idea di progetto lineare, e dipende evidentemente sia dai nostri presupposti cognitivi sia dai nostri obiettivi a breve e a lungo termine. Inoltre, ripetiamolo, buona parte della sua validità sta proprio nella sua tendenziosità, cioè nella sua capacità di mettere in primo piano talune operazioni fondanti di un intero campo di ricerca, che provvisoriamente vengono isolate per essere meglio condivise anche da vari pubblici, di specialisti e di non specialisti. Ma, ripetiamolo, si tratta pur sempre di un isolamento provvisorio e condizionato. Proprio perché la relazione tra il progettista e il computer genera infiniti mondi possibili, è chiaro che qualunque risultato otteniamo comporta infinite scelte di tipo tecnologico, informatico quantitativo. Variando uno qualunque dei parametri iniziali posso generare percorsi alternativi, più o meno diversificati. La conseguenza è che il percorso di progettazione di un edificio rimanda sempre a una vasta gamma, diremmo a un fascio, di percorsi paralleli: di ciò che non è stato, ma che poteva senz’altro essere. Diremmo che l’architetto contemporaneo dovrebbe prendere consapevolezza che l’oggetto della sua ricerca non è solo il reale ma anche (e forse soprattutto) il possibile, cioè una famiglia di mondi possibili nella quale di volta in volta vengono attualizzati dei particolari sottoinsiemi, a seconda delle scelte e degli obiettivi a breve e a lungo termine. Del resto in molti altri ambiti delle scienze contemporanee si è fatta strada una tale consapevolezza epistemologica, anche se non sempre è enunciata in maniera chiara.

    Stando così le cose, la metafora del biomimetico espressa a proposito delle correnti architettoniche oggetto della tua trattazione ha davvero grossi limiti, a dire il vero quasi insuperabili. Il bios è fondamentalmente integrazione nella biosfera a tutti i livelli: nessun organismo è separato dal resto della biosfera da confini rigidi. Piuttosto, tutti i confini biologici sono porosi, filtrano e lasciano passare in uno stesso tempo, come nel caso paradigmatico delle membrane cellulari. Se vogliamo definire i nostri edifici come biomimetici non possiamo evitare di affrontare il problema dei flussi, dall’interno verso l’esterno e dall’esterno verso l’interno. E, quindi, architettonicamente, dobbiamo affrontara il problema dei contesti, urbani o non urbani che siano, in cui gli edifici vivono e si evolvono, che è sempre centrale e radicale. Ripetiamolo: certi cortocircuiti volti a mettere in evidenza le logiche interne del progetto non sono solo legittimi ma anche talvolta benvenuti. Così una sperimentazione riuscita è talvolta una sperimentazione in cui si estremizzano certi parametri a scapito di altri. Ma evidentemente se si abbandona l’idea della sperimentazione e si contrabbanda il proprio risultato come un punto di arrivo quando invece è un semplice punto di partenza, allora si va addirittura in controtendenza con quanto di significativo aveva fatto l’architettura in questi ultimi decenni che si era ibridata con successo con molti altri ambiti del sapere umano (penso al MAXXI, per esempio, ma anche al Guggenheim di New York e alle architetture ispirate alla piega di Deleuze). Tra

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