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Il riuso dei borghi abbandonati. Esperienze di comunità
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E-book333 pagine4 ore

Il riuso dei borghi abbandonati. Esperienze di comunità

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Info su questo ebook

Trattare del tema della riqualificazione dei borghi italiani è riprendere le coordinate geografiche della storia del nostro Paese. Protagonisti  delle attività presentate in questo libro sono persone e comunità che, quasi sempre da sole, le hanno ideate e svolte. Esse rappresentano la capacità dei cittadini di definire autonomamente il proprio presente e futuro anche al di fuori di comportamenti uniformati. Una sorta di mappa attraverso le esperienze concrete e funzionanti, spunto per chiunque volesse attuare processi di riuso e riqualificazione “dal basso”. Un viaggio nell’intera penisola con puntate in Europa, seguendo idee, progetti e azioni che permettono di  tradurre in realtà la bellezza e il fascino dell’utopia.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2019
ISBN9788868228422
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    Anteprima del libro

    Il riuso dei borghi abbandonati. Esperienze di comunità - Adriano Paolella

    Collana

    Natura e comunità

    Adriano Paolella

    IL RIUSO

    DEI BORGHI

    ABBANDONATI

    Esperienze di comunità

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Stampato in Italia nel mese di ottobre 2019

    per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Presentazione

    Cittadini che scelgono di attivarsi e si organizzano, direttamente e autonomamente, per prendersi cura dei beni comuni, tutelare i diritti, sostenere soggetti che possano trovarsi in situazioni di debolezza: questo per Cittadinanzattiva è l’antidoto alla rassegnazione e alla sfiducia nel miglioramento delle cose, o, in maniera uguale e contraria, alla rabbia e alla violenza delle contrapposizioni, che sembrano caratterizzare la realtà del nostro tempo. E in questo testo, che raccoglie varie esperienze, ognuna caratterizzata da una visione nuova e incisiva, l’attivismo dei cittadini è tratto comune e distintivo di tutte: a dimostrazione che alla deriva della rassegnazione o della protesta sterile tante iniziative civiche e comunitarie cercano di porre un freno, rafforzando la propria componente di impegno per la sostenibilità e conseguendo un rafforzamento dei legami solidali.

    L’attenzione di Cittadinanzattiva a censire, diffondere e valorizzare le pratiche che contribuiscono a un’esistenza più sostenibile e solidale per tutti i cittadini è maturata già da molti anni e si è delineata in varie attività. Basti pensare, per esempio, alla campagna contro gli sprechi Sprek.o., che intende la lotta agli sprechi come una questione trasversale, riferita al modo in cui vengono utilizzati i beni comuni, siano essi paesaggistici o economici o ambientali, e che definisce spreco ogni occasione nella quale dei beni comuni venga fatto un uso egoistico e inappropriato. La campagna raccoglie e mette in rete le iniziative virtuose messe in campo per contrastare lo spreco in modo efficace e permanente: e in tal senso, permette di considerare come sia importante l’impegno congiunto di tutti gli attori del panorama sociale, istituzioni, imprese, esperti, media, organizzazioni civiche e, ovviamente, singoli cittadini.

    Si inscrive in questa campagna il network Disponibile!, una rete di buone pratiche già attive sul territorio nazionale per il riutilizzo di beni e aree abbandonate. Nella categoria dei beni abbandonati c’è di tutto: dalle centrali elettriche ai teatri e ai cinema, dalle biblioteche agli alberghi, dalle ferrovie agli impianti sportivi, ed ancora parcheggi, ospedali, abitazioni, uffici, industrie, capannoni... E tutto in grandi quantità: milioni di ettari di terreni, decine di milioni di metri cubi che attendono una utilizzazione, un recupero, una nuova vita. Ed anche in questo caso, al fine di individuare soluzioni praticabili, è necessario un lavoro congiunto da parte di tutti gli attori: istituzionali, privati, sicuramente, ma, dal nostro punto di osservazione, soprattutto cittadini che si attivano, si organizzano e che rappresentano a tutt’oggi il vero motore di tante iniziative.

    Alcune di queste soluzioni sono state presentate in occasione della terza edizione del ‘Festival della partecipazione’, che Cittadinanzattiva organizza con cadenza annuale all’Aquila, unitamente ad Action Aid e Slow Food: il Festival, infatti, vuole essere proprio l’occasione per fare un punto sulla partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica, e in particolare della cura dei beni comuni, attraverso il confronto di esperienze e buone pratiche e il trasferimento di informazioni, competenze e strumenti utili per l’azione civica. Esso è un catalizzatore di risorse materiali e immateriali connesse alla partecipazione, di cui sono portatori i cittadini, ma anche i loro interlocutori e partner; un osservatorio per definire la partecipazione e valutarne criticamente lo stato di salute; un emporio in cui esperienze, conoscenze, successi e insuccessi, opportunità e rischi, nuove e vecchie sfide possano essere scambiate, apprese e trasmesse nello spazio e nel tempo.

    In questo contesto, così pertinente rispetto al tema dell’attivazione dei cittadini nel riuso dei beni, ci si è soffermati sul grande lavoro che si sta portando avanti nelle piccole realtà dei borghi del nostro Paese, in particolare in quelli collocati nelle cosiddette aree interne: aree caratterizzate sì dallo spopolamento e dalla dismissione dei servizi, ma anche, e soprattutto, da un enorme patrimonio di bellezza ambientale e culturale, da significative potenzialità di rilancio, da solide aspettative collettive. Nei borghi d’Italia si respira aria nuova. Giovani, donne, uomini danno vita insieme ad iniziative peculiari: siano esse di natura progettuale, culturale o specificamente imprenditoriale, tutti insieme producono un valore ‘aggiunto’ orientato alla costruzione di un futuro solidale e sostenibile. Ed è proprio di questo valore, difficilmente quantificabile per quanto è denso, tratta questo libro per la cui realizzazione Cittadinanzattiva rinnova all’autore il suo ringraziamento.

    Anna Lisa Mandorino

    vicesegretario Vicario Cittadinanzattiva

    Dal basso

    Il tema dell’abbandono di vasti territori e della contemporanea concentrazione della popolazione in aree urbane merita un’attenzione profonda e colta.

    Come mostrano i fiacchi esiti delle politiche praticate dal dopoguerra non è una mera questione di sostegno economico; operare e vivere all’interno di piccoli paesi è una scelta che si propone di percorrere con creatività e consapevolezza soluzioni alternative all’urbanizzazione planetaria.

    Quindi se si vuole ricercare un nuovo equilibrio per le comunità dei piccoli insediamenti, rendendo possibile la loro permanenza e migliorandone le condizioni di vita, bisogna osservare quanto in esse autonomamente si sviluppa e sostenerlo. Non è stato questo il caso di Riace dove l’interesse da parte delle istituzioni nei confronti dell’esperimento è stato, se non malevolo, molto formale.

    È sicuramente possibile sperimentare all’interno dell’apparato normativo esistente ma è altrettanto possibile che l’innovazione ecceda. In ciò è la politica: la capacità di capire il senso dell’azione attuata, le sue finalità, di valutarne l’efficacia, di considerare la buona fede dell’operatore applicando così un giudizio culturale e sociale; politico appunto.

    La mancanza di volontà ad interpretare e l’aperta ostilità che troppo spesso caratterizza l’intervento pubblico nei confronti di azioni autonome dal basso, mostra come non si voglia dare spazio alla creatività delle comunità e come l’attivazione di queste, alcune volte anche densa di imprecisioni ed errori, non sia vista come un’energia positiva in grado di risolvere problemi e proporre soluzioni ma come un nemico da limitare. Ad esempio quando a fronte di un gigantesco patrimonio immobiliare, pubblico e privato, inutilizzato e di una domanda di suo uso si procede, dopo una stagione di disinteresse, allo sgombero degli utilizzatori, formali e informali, in ragione di una valorizzazione economica degli immobili, ed è questo il caso di Roma, si comprende come non si afferri, quanto le attività svolte in questi luoghi possano essere di servizio e di aggregazione sociale.

    All’attivazione dal basso non bisogna reagire colpevolizzando e imponendo, ma interpretando i segnali, sostenendo quanto di positivo è presente, senza formalizzare troppo, lasciando spazio alla creatività individuale e collettiva quand’essa non danneggi gli altri individui e l’ambiente.

    Oggetto della presente pubblicazione è confrontare diverse modalità di approccio al riuso dei piccoli insediamenti valutando positivamente quelle che favoriscono la conservazione e l’innovazione delle culture locali e privilegiando le esperienze di attivazione dal basso.

    Vi è la fondata ipotesi che, se quanto esistente non può rimanere immutato, le comunità possano trovare nuove modalità di vita favorevoli, eque, coerenti con la qualità dei luoghi, in equilibrio con l’ambiente, capaci di mantenere la loro identità collettiva e individuale.

    Nel testo si tratta di insediamenti di piccole dimensioni costituiti per gran parte da edifici prebellici, comuni o frazioni di comuni, quasi tutti collocati in aree interne e in contesti paesaggistici e ambientali qualificati, oggetto di cali demografici e invecchiamento della popolazione, con parte dell’edificato inutilizzato, connotati da un patrimonio storico architettonico e da una cultura materiale e immateriale, seppur residuale, identitaria.

    L’attenzione che si richiede non è quella dei finanziamenti a pioggia ma quella del potenziamento del software, del sostegno all’attivazione di nuove attività produttive sostenibili, autonome, durature. Piccoli progetti mirati, specifici, locali, che sostengono coloro i quali si sono già attivati o sono in procinto di farlo con azioni concrete, con obiettivi identificabili e finalizzati al bene comune.

    L’attenzione che si richiede non è quella volta all’impostazione di un modello unico da applicare ovunque, ma a fornire strumentazioni senza sostituirsi a coloro i quali già stanno operando. Un’attenzione consapevole dell’impossibilità della conservazione cristallizzata e dell’inevitabilità della formazione di nuove comunità esito della miscellanea di persone diverse che condividono luoghi e criteri di intervento.

    I piccoli insediamenti abbandonati e semi abbandonati oggi rappresentano un vero e proprio laboratorio sociale dove individui e comunità sperimentano modalità insediative diverse da quella sostenute da una cultura monolitica fondata su una iniqua economia di denaro.

    La marginalità di questi territori, l’essere dimenticati, diviene un punto di forza per comporre nuove relazioni, per integrare diverse culture, per sperimentare scelte di vita tese al benessere individuale e collettivo; la loro inacessibilità e la loro bellezza, facilitano la composizione di nuove forme insediative fondate sulla conservazione dei beni comuni e sulla sostenibilità.

    Alcuni sostengono che i ragazzi che rimangono nei piccoli paesi non lo fanno per scelta ma perché non sono capaci di andarsene. Questa interpretazione è drammatica e svuota le comunità residenti della capacità di progettare il proprio futuro concedendogli solo di subirlo. Però la mancanza di tale capacità denota una diversità rispetto ad un mondo uniformato; la sua sola assenza è l’attestazione di un diritto, quello di cercare il benessere secondo propri percorsi, che è un’incrinatura nella globalizzazione. E ciò da solo è motivo d’interesse.

    Quello che si richiede alle istituzioni è una azione intelligente, non autoritaria, non sostitutiva, sensibile, tecnicamente consapevole, ma più di tutto benevola.

    AP

    Adriano Paolella

    Abitare i paesi. Come il riuso di piccoli insediamenti può contribuire alla realizzazione di nuovi modelli sociali.

    Città, metropoli, megalopoli, …

    Poco più della metà della popolazione mondiale, il 54%, vive nelle città. Negli ultimi anni la crescita demografica delle aree urbane ha avuto un notevole incremento e quasi tutte le aree urbane hanno accresciuto le loro dimensioni. A seguito di questi processi si contano 28 megacittà (tra cui Tokyo con 38 ml di abitanti -si pensi nel 1960 ne aveva circa 10 ml-, Nuova Delhi 25 ml, Shangai e Città del Messico 23 ml), molte città sono divenute metropoli (solo in Cina vi sono 18 città con più di 5 ml di abitanti), molti grandi paesi città e così via.

    Le previsioni delle Nazioni Unite indicano che tale processo non è per nulla completato e che nel 2050 i nove miliardi di abitanti del pianeta vivranno per il 66% in aree urbane.

    A fronte dell’incremento della popolazione urbana si riscontra un calo demografico nelle aree montane e collinari che meno si prestano, per la morfologia, il ridotto numero di residenti, la scarsa accessibilità, la limitata ricchezza, all’attuazione della modalità insediativa/produttiva sostenuta dall’attuale economia.

    Il mercato globale, infatti, concentra ricchezze e attività nelle aree urbane, svuota con l’industrializzazione dell’agricoltura (e quindi la riduzione degli attivi) i territori extraurbani, promuove una cultura che trova nella vita urbana la sua qualificante realizzazione mettendo così a repentaglio l’assetto territoriale caratterizzato da piccoli insediamenti strettamente connessi alle risorse locali, economicamente quasi autonomi, con una spiccata identità culturale.

    In Italia i comuni sotto i 5.000 abitanti sono 5.591, abitati da circa dieci milioni di individui (16,6 % della popolazione totale) e occupano il 54,2% della superficie totale del Paese. Questi piccoli comuni sono presenti in tutte le regioni con una incidenza diversa rispetto al totale dei comuni (in particolare per Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino, Abruzzo, Molise, Sardegna e Calabria superano il 80%) e quasi la metà di essi ha una popolazione compresa tra i 1.000 e i 3.000 abitanti.

    Le grandi migrazioni, prima e dopo l’ultima guerra, verso altri paesi e verso le città industriali ne hanno drasticamente ridotto la popolazione e il processo continua accompagnato da un crescente disagio per i residenti derivante dalla carenza dei servizi (sanitari, culturali, mobilità, etc.), dall’invecchiamento della popolazione, dalla mancanza di lavoro.

    Esito di questi fenomeni è che il numero degli insediamenti di piccole dimensioni parzialmente abitati o del tutto abbandonati è in continuo aumento. All’interno di questa moltitudine ognuno di essi ha una condizione particolare, per localizzazione geografica, per presenza di elementi di attrazione, per storia e cultura, per reattività degli abitanti, particolarità che non emergono dalle statistiche. Ad esempio i paesi di Vernazza (La Spezia) e di Arsita (Teramo) hanno ambedue circa 800 abitanti, avevano negli anni ’50 circa 2.300 abitanti, tra il 1998 e il 2016 hanno perso un ulteriore 6,5 % della popolazione, sono tutti e due localizzati in Parchi nazionali ma, al di là di tali fattori comuni, il primo si trova in un’area con grandi flussi turistici (Cinque Terre) mentre il secondo è collocato in un area interna con flussi turistici molto minori e questa differente condizione li rende profondamente dissimili.

    Dato comune è che l’abbandono ha implicato l’allontanamento di intere popolazioni dalla gestione diretta delle risorse agroalimentari e, al contempo, ha ridotto la manutenzione del territorio e ciò, in quei territori delicati ove l’azione dell’uomo ha svolto un ruolo regolatore, ha generato un diffuso degrado (dissesti idrogeologici, incendi, etc.) solo parzialmente bilanciato dall’aumento della naturalità. Al contempo la condizione di marginalità, di relativo isolamento ha consentito che proprio in questi piccoli paesi si sia conservato un grande patrimonio culturale materiale e immateriale in una autonomia che, seppure non scevra dalla contemporaneità, rappresenta un oggetto di grande interesse non solo in termini di conservazione della memoria ma anche di potenzialità per comporre modelli sociali e insediativi di qualità.

    L’interesse per i piccoli insediamenti

    È difficile individuare il momento esatto in cui è nato l’interesse nei confronti dei piccoli insediamenti.

    Quando l’industrializzazione e il movimento moderno iniziarono a ipotizzare modelli insediativi e architettonici lontani dalle forme e dalla strutture tradizionali, William Morris evidenziava la qualità del costruire caratteristica degli insediamenti tradizionali, riconoscendone, nel 1870, capacità tecniche e forme (Morris W., Paure e speranze sul futuro dell’arte. Le prospettive dell’architettura nella civiltà, Parma, 2012). Ma, solo per tratteggiare l’ambito della riflessione, già John Ruskin (Poesia dell’architettura, Milano 1909) nel 1837 indicava come la casa rurale italiana assume con la sua semplicità, l’air noble delle costruzioni di un ordine superiore.

    In tempi più recenti, e più strettamente connessi alle successive valutazioni, Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel, nel 1936 all’interno della Mostra dell’architettura rurale, riconobbero un valore architettonico agli edifici rurali: questo studio rappresenta il risultato di una indagine sulla casa rurale italiana intrapresa con lo scopo di dimostrare il valore estetico della sua funzionalità (Pagano G., Daniel G., Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Milano, 1936).

    Nel dopoguerra due filoni di ragionamento, l’uno relativo al riconoscimento della qualità dell’architettura tradizionale e l’altro all’importanza della conservazione dei tessuti insediativi e non dei singoli monumenti portano alla consapevolezza della qualità del paesaggio italiano, e quindi dei piccoli insediamenti che così fortemente lo caratterizzano, e della necessità di una sua conservazione. In questa azione furono attivi intellettuali e associazioni, prima tra tutte Italia Nostra.

    Nel 1951, in un crescendo di approfondimenti, la Mostra Rassegna di Architettura Spontanea curata da Giancarlo De Carlo con Ezio Cerruti e Giuseppe Samonà nella IX Triennale di Milano, continua a indicare il valore dell’architettura e delle modalità aggregative degli insediamenti tradizionali spontanei.

    Nel 1964 Bernard Rudofsky organizzò la mostra al MoMA (New York) Architetture senza architetti (Architecture Without Architect) e scrisse l’omonima pubblicazione nella quale propose architetture non datate, senza autore, in luoghi esotici (Rudovfsky B., Architecture Without Architect. A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture, Albuquerque, 1989). "Come Goethe e Schinkel prima di lui, che nei loro viaggi in Italia hanno inaugurato una nuova stagione sostituendo alle tradizionali mete del Grand Tour le architetture vernacolari, paesane e rurali, anche Rudofsky visita, negli anni della formazione, le architetture sconosciute. Come un archeologo è alla scoperta delle radici, ignorate dagli storici e dagli apparati dell’accademia, ricerca ciò che è architettura ma non è riconosciuta come tale" (Rossi U., Bernard Rudofsky. Architetto, Napoli, 2016).

    Nel 1979 Norman F. Carver Jr. pubblicò il volume Italian Hilltowns (riedito a cura di Matacena G. e Scaramella M., Borghi collinari italiani, Napoli, 2017) in cui segnalava la misura d’uomo degli insediamenti ed il rischio di perdita di un enorme patrimonio composto dai piccoli borghi italiani (primo di una serie di volumi su altri paesi) in cui raccolse delle meravigliose fotografie. Gli italiani hanno costruito alcune delle città tra le più a misura d’uomo del mondo. Gli archetipi di queste città sono i villaggi e i borghi in cui, libera da influenze concettuali e stilistiche, si è sviluppata la mirabile armonia tra la vita e il paesaggio italiani. L’obiettivo di questo libro è documentare questi villaggi e queste città, in parte perché sono intrinsecamente belli, in parte perché la loro unicità rischia di scomparire, e in parte perché le soluzioni che essi hanno dato a problemi universali meritano da tanti punti di vista di essere emulate (ib.).

    Carver nello stesso testo individua anche i caratteri che determinano la qualità degli edifici: Le seguenti caratteristiche possono in ogni caso esser considerati come principi progettuali per l’uomo, un modo per rendere i luoghi belli e buoni. Le forme vernacolari annoverano molte di tutte queste peculiarità: 1. Ragioni funzionali della forma, fisiche e psicologiche […]. 2. Specifico adattamento al clima. […]. 3. Uso del sito e sue variazioni. […]. 4. Stretta relazione con l’ambiente e minimo impatto su di esso. […]. 5. Ripercussione del processo costruttivo e dipendenza da tecnologie locali, saperi e materiali. […]. 6. Un’intera comunità coinvolta nella costruzione, come da tradizione comune. […]. 7. Variazione nei dettagli, non nei tipi. […]. 8. Ornamento ricavato dalla fruizione. […]. 9. Trascendenza dello schema generale delle unità costruttive singole, ripetitive ed elementari. […]. 10. Crescita avvenuta nelle prime fasi con un composizione aperta. […]. 11. Dimensioni contenute e scala umana costante. […]. 12. Nitida forma complessiva. […] (ib.).

    L’aumento della consapevolezza della qualità dei piccoli insediamenti, di cui si sono citati alcuni momenti, ha portato a consolidare e diffondere una cultura che riconosce ad essi un valore storico culturale ignorato anche in un recente passato. Si pensi ad esempio agli abbandoni coatti di paesi interessati da fenomeni franosi (ad esempio Pentedattilo o Roghudi) e per terremoto (Conza o Gibellina) a favore di nuovi paesi a cui si dava, inopinatamente, il medesimo valore degli antichi.

    Oggi vi è un comune e diffuso riconoscimento del valore storico culturale dei borghi e del piacere che si ricava nel viverli. Non è un caso che Badolato, un pae-se collocato sulle colline della costa jonica calabrese, abbandonato nei decenni passati a favore di Marina di Badolato situata sul mare, negli ultimi anni si sia lentamente ripopolato, con prime e seconde abitazioni e con attività di ristorazione e di alloggio, fino ad essere, nelle sere d’estate, preferito alla marina da una moltitudine di persone (abitanti e turisti): stare in quegli spazi da più piacere che stare sul lungomare, con le auto, le strade asfaltate, le luci, i rumori, etc.

    Non è questa la prima volta che si assiste ad un diffuso abbandono degli insediamenti: diverse modalità di muoversi, lavorare, comunicare hanno comportato nel tempo modalità abitative diverse. Recentemente una indagine archeologica svolta nel territorio della Sardegna sulla base di censimenti sistematici avviati negli anni settanta e di altri più recenti ha fatto ipotizzare che nelle campagne sarde si trovino i resti sepolti di villaggi medievali e post-medievali in numero superiore alle 500 unità, con stime massime che superano gli 800 siti, evidentemente con livelli di conservazione e interesse molto diversi (Milanese M., I villaggi abbandonati della Sardegna, in Cocco F., Fenu N., Lecis Cocco-Ortu M., SPOP. Istantanea dello spopolamento in Sardegna, Siracusa, 2016). Questa evoluzione delle modalità insediative con abbandono di centri abitati si riscontra anche oggi: "nel caso delle città della cosiddetta Rust Belt negli Stati Uniti – Detroit, Cleveland, Flint e Youngtown fra le altre – non si è prodotto alcuno choc violento e improvviso. Ma solo una lunga agonia capace tuttavia di produrre un vertiginoso ammontare di macerie" così come raccontato da Alessandro Coppola (Coppola A., Apocalypse Town. Cronache della fine della civiltà urbana, Bari, 2012).

    Si tratta di capire come queste evoluzioni possano divenire occasioni di conservazione di cultura materiale e immateriale ma anche di come ciò che non è più utile possa essere trasformato. Attraverso il riuso si potrebbe favorire le comunità permettendo loro di non sprecare un patrimonio edilizio la cui utilizzazione può ridurre quegli effetti negativi nell’ambiente connessi con nuove costruzioni: "le sue città (quelle della Rust Belt ndr) in crisi irreversibile diventano i luoghi perfetti per sperimentare … La riorganizzazione delle produzioni e dei consumi su base locale e la riconciliazione fra habitat umani

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