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Forever. Solamente io e te
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E-book275 pagine4 ore

Forever. Solamente io e te

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Info su questo ebook

«Era dai tempi di Hunger Games che non leggevo un libro così coinvolgente.»
Sweety Reviews

Sono ancora viva. A malapena. Il mio nome è Ivy Westfall. Ho sedici anni e sono una traditrice. Tre mesi fa, sono stata costretta a sposare il figlio del Presidente, Bishop Lattimer – come è stabilito che facciano tutte le figlie del clan perdente nella guerra che sono cedute in matrimonio ai figli dei vincitori. Ma io ero diversa. Io avevo una missione segreta da portare a termine: uccidere Bishop. Invece, mi sono innamorata di lui. Ora sono una reietta, abbandonata al mio destino e devo sopravvivere nella ferocia brutale delle terre al di fuori della civiltà. Eppure, anche qui, c’è speranza. C’è vita oltre la recinzione. Ma non posso correre più veloce del mio passato. E ogni giorno il mio cuore si chiede se riuscirà mai a battere di nuovo come un tempo…

Emozionante come Hunger Games, adrenalinico come Divergent

Un’avventura ai confini di un mondo pericoloso
Un amore che aiuta a sopravvivere

I commenti dei lettori:

«Forever ha tutti gli ingredienti che cercate in un romanzo epico: personaggi da brivido, una trama appassionante, dialoghi estasianti… Consigliatissimo.»

«Profondo, struggente e sexy! Sono rimasta sveglia per finire di leggere e mi sono addormentata con il nome di Bishop sulle labbra…»

«Amy Engel ha scritto uno dei migliori romanzi distopici che io abbia mai letto. Impossibile staccarsene!»
Amy Engel
È nata in Kansas e dopo un’infanzia trascorsa tra Iran, Taiwan e diversi luoghi degli Stati Uniti si è fermata a Kansas City, nel Missouri, dove vive con il marito e due figli. Prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, è stata avvocato penalista. Il primo titolo della saga bestseller pubblicato da Newton Compton nel 2016 è Forever.
LinguaItaliano
Data di uscita24 gen 2017
ISBN9788822703392
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    Anteprima del libro

    Forever. Solamente io e te - Amy Engel

    Divina

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Epilogo

    Ringraziamenti

    1445

    Della stessa autrice

    Forever

    Questo romanzo è un’opera di finzione. I personaggi, gli accadimenti e i dialoghi descritti sono frutto della fantasia dell’autrice. Ogni somiglianza con eventi, luoghi o persone reali, vive o defunte, è puramente casuale.

    Titolo originale: The Revolution of Ivy

    © 2015 Amy Engel

    This translation published by arrangement with Entangled Publishing LLc through RightsMix LLc.

    All Rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Sara Rognoni

    Prima edizione ebook: febbraio 2017

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0339-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    www.newtoncompton.com

    Amy Engel

    FOREVER

    SOLAMENTE IO E TE

    The Ivy Series

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    A Holly, mia sorella a tutti gli effetti.

    Le lacrime mi rigano le guance, il sapore del sale brucia sulle mie labbra e io cedo, mi consento di piangere per tutto ciò che ho perso, per la paura di ciò che accadrà, mi angoscio pensando alla figlia che sono stata, alla moglie che non ho voluto essere, all’assassina che mi sono rifiutata di essere e alla traditrice che alla fine sono diventata.

    Non sono nulla di tutto questo ora. Alzo la testa e mi asciugo gli occhi; figlia, moglie, assassina, traditrice, sono tutte versioni di me ormai superate. Da qui in avanti sarò una sopravvissuta.

    Faccio un respiro profondo e lascio andare la rete.

    Capitolo 1

    Nessuno sopravvive oltre la recinzione: questo è ciò che mio padre mi ha sempre detto da bambina, ma non lo sono più ora, e tantomeno credo ancora alle parole di mio padre. Mi ha detto che i Lattimer erano crudeli e meritavano di morire. Mi ha detto che la mia unica possibilità era di uccidere il ragazzo che amavo. Aveva torto su così tante cose, sono quindi convinta che si sbagli anche sulla mia probabilità di sopravvivere.

    Se voglio avere qualche possibilità, devo andarmene immediatamente dalla recinzione e spostarmi in direzione del fiume. Ma anche quando inizio a muovermi in quella direzione, le mie dita stringono la recinzione e la mollano, la riprendono, e la mollano ancora, come se stessero cercando di ambientarsi prima di liberarsi dalla familiarità che ormai sentono verso gli anelli della rete. So che la scorsa notte sono stata fortunata, considerando ciò che sarebbe potuto accadere dopo essere stata ferita e catapultata dal lato sbagliato della recinzione: un animale o una persona avrebbero potuto scovarmi. Non posso più affidarmi a quel genere di fortuna una seconda volta. Ho bisogno di raggiungere il fiume, placare la mia sete prima che il sole tramonti e trovare riparo per la notte che dovrò affrontare. Il fiume non può essere lontano, ma mi ci vogliono ancora ore per raggiungerlo. Perdo il conto di quante volte mi fermo per riposarmi, sono in affanno con il corpo a pezzi dal dolore. Ho la testa piena di pensieri pigri e mi sento frastornata, come se questa sensazione aleggiasse su di me in attesa di un mio momento di debolezza. Probabilmente ho un trauma causato dal colpo alla testa ma non ne sono sicura, ricordo però cosa ci sia da fare in questi casi e, di certo, la soluzione non è starsene con le mani in mano, farsi una borsa del ghiaccio o chiedere il consiglio di qualcuno. Trattengo una risata isterica, da pazza, serrando le labbra con forza.

    Tenere i pensieri a debita distanza da Westfall mi costa quasi quanto camminare, ma rifuggo i ricordi accantonandoli nella mente. In un luogo del genere, desiderare cose e situazioni che non mi appartengono più non farà altro che confondermi e danneggiarmi. Mi concentro invece sul semplice fatto di mettere un piede dopo l’altro e continuare a camminare, anche se una parte di me resterà sempre lì, dietro una recinzione che non potrò attraversare.

    Quando raggiungo il fiume, finalmente, non è quella distesa di acque placide che Bishop mi aveva mostrato all’interno dei confini di Westfall: qui è tutto molto più selvaggio e, sebbene le acque non siano esageratamente mosse, la corrente è forte. L’acqua è torbida nel pieno sole di mezzogiorno, il limo viene rimestato dalla furia della corrente ma, quando mi inginocchio accanto alla sponda del fiume per prenderne un po’ tra le mani a coppa, sembra più chiara e mi affretto a berla. Non mi ero resa conto di quanto fossi assetata fino a quando le prime gocce non mi colpiscono la lingua.

    Una volta placata l’immediata sensazione di sete, mi spruzzo un po’ d’acqua sul viso. Mi tolgo il maglione e lo appoggio sulla riva accanto a me, poi prendo delle belle manciate d’acqua e strofino con molta cautela viso e collo, facendo così la lista di tutte le mie ferite. Le guardie che mi hanno espulsa non hanno certo usato premure nei miei confronti. Sento il mio labbro inferiore gonfio e abraso, e ho la nuca così esposta che non ho nemmeno il coraggio di passarmi una mano tra i capelli senza immaginare il dolore: al solo pensiero stringo i denti. Ho le braccia tempestate da decine di graffi e ferite profonde. Immergo le mani nell’acqua fredda cercando di fregare per eliminare i residui di sangue e la sporcizia che ho sotto le unghie.

    Il sole sta cominciando a calare, e un sottile raggio di luce fende gli alberi depositandosi proprio sulla mia fede nuziale e facendola risplendere. Stringo la mano sinistra sott’acqua mentre guardo l’oro che riluce, ricordo il giorno in cui Bishop me la infilò al dito, il modo in cui la mia mano tremava, e quanto avrei voluto togliermela subito per quanto estranea e vincolante la percepivo a contatto con la mia pelle. Ora mi ci vuole un lungo minuto per sfilarmi l’anello dal dito. Mi lascia il segno venendo via, una piccola porzione di pelle liscia e circolare che ora sembra così nuda, ma non posso sopportare di indossarlo ora proprio perché mi ricorda tutto ciò che ho perso. Stringo l’anello morbidamente nel palmo, poi apro la mano e lascio che la corrente lo culli via da me.

    Mi precipito verso l’argine contenta, per il momento, di sentire l’acqua scorrere contro le rocce e il calore del sole al tramonto sulla mia schiena. Cerco di non pensare alla notte che sta per sopraggiungere. In realtà cerco di non pensare ad altro che non sia un bisogno primario per me con la paura che, se dovessi fare diversamente, collasserei sotto il peso della paura e del dispiacere.

    Non c’è spazio per rivedere le decisioni che ho preso quando ero a Westfall, né per chiedersi come sarebbero andate le cose in tal caso. Non mi considero una vittima – sacrificare me stessa è stata una mia scelta precisa, dopotutto – ma, qui fuori, è un attimo diventarne una se non resto concentrata.

    Dietro di me c’è una piccola macchia di alberi, un posto come un altro per rifugiarsi quando farà buio. Ora che dissetarmi non rappresenta più una priorità, il mio pensiero principale è trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Mio padre, in tutte le sue infinite lezioni, non ha mai speso un solo minuto per spiegarci come sopravvivere al di là della recinzione. Non mi ha mai insegnato ad accendere il fuoco o a catturare piccole prede. Immagino che non abbia mai considerato la possibilità che tutti i suoi piani andassero in fumo, che potessimo essere catturati, che dovesse fornirmi qualche nozione supplementare e alternativa per cavarmela qualora qualcosa fosse andata storta. Ancora una volta mi ha bidonata.

    Un leggero movimento proveniente da destra cattura la mia attenzione: si tratta di una piccola lucertola che si arrampica su una roccia e si ferma sotto al sole. Trattengo il respiro, vorrei tanto essere più vicina, anche se ancora non so bene cosa me ne farei della bestiola se riuscissi a catturarla, ma il tormento del mio stomaco affamato mi costringe a fare un disperato tentativo. Sposto il mio peso in avanti sopra il mio braccio sinistro e avvicino la mia mano destra. All’ultimo momento la lucertola dev’essersi accorta delle mie intenzioni perché cerca di fuggire ma io sono più veloce, o forse solo più disperata, e le mie dita l’afferrano chiudendosi sulla sua schiena squamosa.

    La tengo stretta in pugno e lei mi guarda con occhi scuri e inespressivi. Raccolgo un piccolo sasso che uso per schiacciarla, ignorando la bile che cerca di farsi strada nella mia gola. Mangio in modo metodico, senza consentire a me stessa di pensare, cercando di non sentire quel sapore amaro in bocca. Mi ci vuole la massima concentrazione per inghiottirla, cerco di fissare un punto verso il fiume. Il mio stomaco desidera vomitare immediatamente la lucertola ma mi forzo a non farlo e respiro a lungo dal naso. Sono finiti i giorni in cui mangiavo gli hamburger e i sandwich al tacchino che mi preparava Bishop. Ora mi nutrirò di qualunque cosa mi occorra per sopravvivere.

    Quando sono certa che la lucertola resterà nel mio stomaco striscio in avanti e mi pulisco la bocca con l’acqua, sibilo e sputacchio fino a quando l’unico sapore che riesco a sentire è quello del fiume. Il sole è quasi del tutto tramontato: fasci di luce arancione e rosa si insinuano tra gli alberi come garze sottili. L’aria è ancora tiepida ma promette di rinfrescare a breve, il tempo non sarà dalla mia parte ancora per molto.

    Mi rimetto il maglione e ritorno verso la macchia di alberi. Mi rannicchio cercando di dare nell’occhio il meno possibile. Non ho ancora incontrato anima viva a parte i bambini alla recinzione e non ho la sensazione che qualcuno mi stia osservando. Tuttavia mi sento ancora esposta, e senza possibilità di difendermi se qualcuno si facesse avanti. Temo che mi ci vorrebbero ore per addormentarmi ma il mio corpo esausto ha altri programmi, così mi basta chiudere gli occhi per crollare e lasciarmi avvolgere dall’oscurità.

    Quando mi sveglio è difficile definire con esattezza quale momento del giorno sia, se sia mattino o pomeriggio, se abbia dormito dodici ore o venti. Il cielo è coperto, nuvole scure si avvicinano da ovest, il rombo del tuono promette pioggia. Ho la sensazione di aver dormito in uno stato di semi incoscienza, non mi sento affatto riposata. Il mio corpo è rigido e la mia visione appannata, come se guardassi il mondo da una lastra di vetro sporco. Mi metto seduta, lamentandomi per il forte picco di dolore che sento alla testa.

    Ho bisogno di trovare un riparo migliore dal temporale in arrivo; la giornata è tiepida ma tremo anche solo al pensiero di ciò che potrebbe accadere se i miei vestiti si inzuppassero e la temperatura scendesse. Odio allontanarmi dal fiume ma prometto a me stessa di non andare troppo in là: cerco semplicemente un riparo più adatto nelle vicinanze. Ho i crampi allo stomaco dalla fame quindi, prima di andarmene, sorseggio altre manciate d’acqua per placare un po’ il dolore. Cammino verso est rispetto al fiume, in cerca di qualunque cosa possa offrirmi riparo dalla pioggia. Inizialmente non vedo nulla, solo distese di terra. So che prima della guerra la sovrappopolazione rappresentava un vero problema, c’era l’idea che la Terra potesse esaurire lo spazio e le risorse dedicate ai suoi abitanti. È difficile immaginarsi tali paure ora, visto che sono l’unico essere umano che si possa scorgere, l’unica prova che ci sia ancora vita qui.

    Il rombo del tuono si avvicina sempre più, un vento implacabile mi getta i capelli in faccia. Supero una piccola salita e, nelle vicinanze, scorgo una vecchia auto arrugginita. Mi avvicino con cautela, ma sembra che siano passati decenni dall’ultima volta che qualcuno l’ha usata. Le gomme sono consumate e tagliuzzate, entrambe le portiere dalla parte del conducente sono state strappate via, il parabrezza è sfondato e dall’interno proviene un odore putrido e raccapricciante ma l’auto sembra ancora essere per me la scelta migliore in termini di riparo. Mi arrampico sul sedile posteriore, accomodandomi sulla pelle lacerata dello stesso. La tempesta sopraggiunge alcuni minuti più tardi, la pioggia scroscia lungo la macchina entrando di traverso, quindi, per proteggermi meglio, mi raggomitolo verso le estremità interne dell’automobile. Sono grata per questo riparo ma, stando ferma senza potermi distrarre in alcun modo, i miei pensieri tornano a Westfall, alla mia famiglia, a Bishop: il desiderio che provo per lui è così intenso che mi fa male il petto. Mi mordo l’interno della guancia per non piangere, mi copro gli occhi con le mani; non dovrebbe essere così difficile dimenticare qualcuno che conoscevo a malapena. Bishop era nella mia vita solo da pochi mesi ma, in qualche modo, ha lasciato un segno che non ha nulla a che vedere con la durata del tempo passato insieme.

    Abbasso le mani e apro gli occhi, osservo la pioggia che cade colpendo l’erba alta fuori dalla macchina, cerco di ripulire la mia mente dai pensieri. Forse è proprio così che riuscirò a sopravvivere ora, diventando come una pagina bianca, fingendo che la mia vita sia iniziata solo ieri e che nulla ci sia stato prima di allora. Le mie palpebre si fanno pesanti, il mio respiro sempre più profondo con il suono della pioggia. Mi lascio sprofondare, appoggio la testa contro il finestrino sporco. Mi balena per la testa il fatto che forse non sia una buona idea dormire così tanto, ma mi arrendo all’oblio, se non altro è una tregua dal dolore.

    All’inizio mi sembra di sognare il cane che mi ha morsicato, quello che mia sorella Callie ha strangolato con la sua stessa catena. Lo sento ringhiare, percepisco l’odore di pelo bagnato e fiato putrido. Mi muovo di continuo e le mie mani colpiscono l’aria, fino a sbattere contro qualcosa di duro e viscido. Spalanco gli occhi osservando l’interno della macchina, la mia mano è ferma sul sedile in pelle, il mio corpo sta già balzando all’indietro, registrando la minaccia ancor prima che la mia mente possa processarla. C’è un coyote che si affaccia dalla portiera aperta dell’auto, la saliva gli cola dal muso, il pelo marrone chiaro è arruffato e sporco di fango. Mi mostra le sue zanne giallognole e ringhia dal profondo della gola. Non avevo mai visto un vero coyote prima d’ora, ma mio padre mi ha parlato di interi branchi che si aggirano fuori dalla recinzione. Per ora ce n’è solo uno ma il branco potrebbe non essere lontano.

    «Vattene!», strillo, dando calci verso l’esterno. Il panico mi inonda le vene, una parte di me sa che dovrei restare calma, riflettere, ma il resto di me non vede l’ora di scappare. Il mio piede colpisce il coyote alla testa e lui si ritira, ma solo per un secondo e poi ritorna, questa volta appoggiando le sue zampe anteriori sul sedile posteriore dell’auto, guardandomi con occhi da predatore. Non so se è forte abbastanza da uccidermi ma, sicuramente, riuscirebbe a procurarmi seri danni. Tiro indietro il piede preparandomi a colpirlo nuovamente mentre il coyote balza in avanti, la sua mascella azzanna l’aria solo a pochi millimetri dalle mie dita dei piedi coperte da un telo. Urlo e annaspo all’indietro, i miei occhi perlustrano l’auto alla disperata ricerca di un’arma. Per un nanosecondo considero l’idea di lanciarmi oltre il coyote e catapultarmi fuori dalla macchina, ma so che una volta a terra avrebbe con maggior facilità la meglio su di me. I miei occhi irrequieti si posano sul parabrezza sfondato: una parte della cornice in metallo sporge all’interno e la parte finale, dov’è divelta, risulta appuntita e tagliente. Tengo lo sguardo fisso sul coyote mentre mi muovo in avanti, ho paura a tentare di dargli un altro calcio, se riuscisse ad acciuffarmi il piede lo farebbe a brandelli in pochi attimi. Respiro profondamente e balzo verso il sedile anteriore, urlando mentre il coyote si fionda nell’auto: ho il suo fiato caldo sul collo.

    L’animale ringhia e balza freneticamente sul sedile dietro di me, ma io non mi volto a guardare. Raggiungo il pezzo di metallo che sporge dal parabrezza e lo afferro, neanche lontanamente consapevole di essermi tagliata le dita, lo tiro e me ne impossesso. Mi volto di scatto gettandomi verso il coyote nello stesso momento in cui lui salta verso di me e gli conficco il metallo nell’occhio, urliamo all’unisono entrambi sgorgando sangue. Il coyote cade a terra sul sedile posteriore, scuote la testa e si agita selvaggiamente nel disperato tentativo di liberarsi dal metallo; gocce calde di sangue mi schizzano sulle braccia mentre si dimena. Mi getto fuori dall’auto e corro senza mai guardare indietro. Riesco a percepire il mio sangue che mi cola dalle dita e comprimo la mano contro al petto. Dopo solo un minuto di corsa sfrenata sento il bisogno di fermarmi. Mi gira la testa e il mio stomaco brontola. Mi sporgo in avanti e vomito acqua e bile, il sapore acido mi punge la gola. Ancora prima di aver finito di pulirmi la bocca con la mano sana, mi guardo indietro cercando con gli occhi, attraverso l’erba alta, ma tutto tace. Se il coyote è ancora vivo di certo non mi sta seguendo, almeno per il momento.

    Quando raggiungo il fiume, ho il sangue che mi scorre dall’avambraccio, colando dalla curva del gomito. Mi cedono completamente le ginocchia e crollo in prossimità dell’argine, per la prima volta guardo la mano da vicino: quattro dita della mano destra sono tutte tagliate lungo le falangette, il taglio più profondo è visibile sull’anulare, dove un pezzo di carne viva lacerata si è staccata e penzola, lasciando intravedere il bianco dell’osso scoperto. Sollevo il capo ed emetto un lungo respiro, nell’attesa che il mio stomaco si stabilizzi.

    Mi levo il maglione, il davanti è tutto inzuppato di sangue, e lo scaglio di fianco a me. Usando sia le mani che i denti riesco finalmente a strappare una striscia di cotone dalla mia canottiera, premo forte la stoffa contro le mie dita, con l’intenzione di arrestare il flusso di sangue.

    Basta un giorno fuori dalla recinzione per farmi già perdere la battaglia. Una parte di me è sorpresa del fatto che io non stia piangendo o tremando di paura, ma in realtà dentro di me so che questa è probabilmente solo una delle tante ferite e prove che mi troverò ad affrontare, non posso dunque permettermi di scoraggiarmi e crollare ogni volta.

    Quando finalmente il flusso di sangue rallenta, la benda è già completamente intrisa, usando ancora una volta i denti riesco a intrecciare il pezzo di benda fradicio attorno alle dita; non so a quanto servirà ma, quanto meno, manterrà un po’ di pressione sulle ferite. Sono così provata che riesco a muovermi a malapena, voglio solo dormire, anche se non è poi da molto che sono sveglia.

    Mi spruzzo un po’ di acqua sul viso con la mano sana, poi ne bevo un sorso. Ora che ha smesso di piovere, il sole ha fatto capolino da dietro le nuvole, appena in tempo per tramontare. Riesco a scorgere a malapena il mio riflesso nell’acqua, il che probabilmente è una benedizione: vedo solo il contorno del mio collo e del viso e le file di alberi dietro di me… e l’ombra di un uomo alle mie spalle.

    Cerco di nasondermi sull’argine del fiume, accovacciandomi per non farmi vedere. Muovo un braccio in avanti per non sbilanciarmi e finire dritta nell’acqua. Le mie dita ferite si infilano nel terreno sanguinando di nuovo, ma poco importa, ho il respiro che mi gratta la gola nelle prime tenebre della sera che giunge.

    All’inizio non comprendo di chi si tratti, è solo un uomo, il suo viso è confuso dal crepuscolo ma, mentre si avvicina, vedo quegli occhi azzurri, occhi che riconoscerei ovunque.

    «Ehi, ciao bellezza!», dice Mark Laird sorridendomi.

    Capitolo 2

    Per un interminabile attimo ci guardiamo negli occhi in silenzio, l’istinto mi dice di non fargli capire che ho paura, né quanto il mio stomaco si stia contorcendo per l’ansia. Non lo vedo dal giorno in cui ho seguito Bishop fino alla recinzione, dopo che Mark è stato espulso, ma mi rendo conto che una parte di me ha sempre immaginato che questo momento sarebbe arrivato.

    «Ciao Mark!», sento la mia voce pronunciare queste parole con un tono inaspettatamente calmo.

    Inclina la testa verso di me, il suo sorriso scompare da quelle guance da cherubino. Anche ora che so tutte quelle cose sul suo conto, ha un aspetto così ingannevolmente innocente, con quel viso tondo e quegli occhi blu luccicanti. Fa un passo in avanti e io comincio ad alzarmi. Ho un vantaggio di poche decine di centimetri di distanza da lui; preferirei decisamente essere in piedi anziché prona. Tuttavia, prima che io riesca ad alzarmi, Mark alza un piede e me lo piazza proprio sulla caviglia; non così forte da rompermela, ma abbastanza per creare tra noi un clima minaccioso.

    «Non dovresti rialzarti», mi dice, e aggiunge: «Sembri molto provata». Lentamente, come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo, si accovaccia accanto a me, sostituendo il suo piede con la mano, sempre tenendo la mia caviglia.

    «Sto bene», rispondo, e ora la mia voce comincia ad avere un certo tremolio. Non mi sfugge di certo il modo in cui gli occhi di Mark si intorbidiscono immediatamente cambiando del tutto espressione nell’udire quelle mie parole. Il mio istinto non si sbagliava, ama nutrirsi della paura degli altri. Mi dico di non pensare a quella povera ragazzina di nove anni a cui ha fatto del male, come le

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