Sono Vincent e non ho paura
Di Enne Koens e Maartje Kuiper
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Info su questo ebook
Sopravvivere è la sua specialità.
Non ha molta scelta, perché ogni giorno, a scuola, sopravvivere è la sua missione, da quando Dilan e gli altri l’hanno preso di mira.
E adesso c’è pure il campo scuola: Vincent si aspetta il peggio e si prepara a ogni possibilità. Poi una nuova compagna si unisce alla sua classe, e questo cambia tutto…
Il commovente ritratto di un ragazzino solitario ma pieno di coraggio e di una ragazzina anticonformista che non ama le regole ed è determinata a compiere le proprie scelte.
Un romanzo che descrive alla perfezione i meccanismi psicologici del bullismo, senza far mancare la leggerezza e lo humour, grazie alla scrittura brillante di Enne Koens e all’originale veste grafica in verde e nero creata dall’illustratrice Maartje Kuiper.
“Bullismo, campo scuola, sopravvivenza, amici immaginari: ingredienti che spesso troviamo nella letteratura per ragazzi in varie combinazioni. Ma Enne Koens li trasforma in un romanzo frizzante e avvincente, con la sua empatia e il suo stile curato” (Trouw)
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Anteprima del libro
Sono Vincent e non ho paura - Enne Koens
È buio.
Così buio che non riesco nemmeno a vedermi. Sono da qualche parte in mezzo a un bosco, seduto per terra su delle pietre fredde.
Il bosco è pieno di rumori. Vicino a me sento scorrere dell’acqua. Un fruscio, dei rami che si spezzano. Il vento, che si avvicina da molto lontano, sopra le cime degli alberi. Sempre più vicino. Sempre più forte, e poi si abbatte su di me come un’onda che si rovescia nella mareggiata. Poco dopo sento un grido, forse di un uccello o di una volpe.
Ascolto tutti i rumori con le orecchie tese. Attendo vigile, pronto a saltare di nuovo su e ricominciare a correre. Anche se non ho idea di dove andare. Respiro come se fossi rimasto troppo a lungo sott’acqua e mi sembra di avere male da qualche parte. Contro ogni buon senso, do un’occhiata in giro. Se c’è gente nei dintorni, spero che ci vedano poco quanto me.
In lontananza sento di nuovo il vento che fa un respiro profondo, e un attimo dopo mi soffia addosso.
Durante la mia fuga fino a qui sono inciampato su dei rami e caduto in delle buche.
I miei vestiti si sono bagnati sfregando contro foglie e felci e ho le braccia coperte di graffi. Sono solo, e a essere sinceri: ho paura.
Così parlo a me stesso. Sussurro nel buio: «Sono Vincent. Ho undici anni. Ho un papà e una mamma. Abito a Rotterdam. Sono Vincent. Undici anni. Sono in quinta». Continuo a parlare a me stesso, perché aiuta. Fa bene sentire una voce, anche se è la mia. Per un attimo mi sento meno solo.
Mi stanno cercando? Sono vicini?
Ricomincio a sussurrare tra me e me. «Sono Vincent. Ho undici anni e ho letto un libro su come sopravvivere nella natura. Sono Vincent. Il mio animale preferito è lo scoiattolo. Ho undici anni. In camera mia è appeso un poster dell’Uomo Ragno. Sono Vincent e non ho paura, non ho paura, non ho paura».
Mi stendo a pancia in su e guardo in alto. Spalanco gli occhi più che posso, ma è ancora buio. Aspetto. Le pietre mi si conficcano nella schiena. Non avevo mai avuto un letto così bitorzoluto e freddo. A casa il mio letto è sofficissimo e dormo sotto un piumone dell’Uomo Ragno. A casa. Per un momento penso a mio padre e a mia madre e alla nostra casa in Avenue Concordia. Era proprio necessario fuggire?
Quando è buio è difficile immaginare che farà di nuovo giorno, proprio come spesso non riesci a immaginare che starai meglio quando sei steso sul divano con l’influenza.
«Sono Vincent, ho undici anni e sono bravissimo a sopravvivere» sussurro. Lo ripeto più di cento volte. Finalmente diventa giorno. Sembra che qualcuno stia scostando le tende, molto lentamente. Vedo comparire le sagome degli alberi. Le foglie sono nere. Dietro, il cielo diventa sempre più chiaro. E poi gli uccelli aprono il becco per il concerto di cinguettii più acuto che abbia mai sentito. Dovunque si sentono fruscii e rovistio tra i cespugli. Grilli, farfalle, cervi e cinghiali – tutti gli esseri che hanno dormito in una buca, in una tana o sottoterra, si svegliano. Vedo un ruscello. L’acqua è avvolta nella nebbia. Una spiaggetta di ciottoli. Mi alzo con cautela e con le mani raccolgo dell’acqua dal ruscello per bere.
Che ore saranno? Le sei?
Il bosco odora di foglie marce e pietre umide.
C’è verde dappertutto.
Dove devo andare? Ci vorranno giorni per raggiungere a piedi il limite del bosco.
Se vado nella direzione giusta, e in linea retta.
Se, appunto. Se non muoio di fame e sete strada facendo. Se non mi slogo o rompo niente e poi non riesco più a proseguire. Se non mangio per errore la bacca sbagliata e muoio nel mio stesso vomito. Se non mi trovano.
UNA S ETTIMANA PRIMA
MENO 7 GIORNI AL CAMPO SCUOLA
Il problema di solito non è l’assenza di acqua, ma come trasportarla…
Non hai acqua a portata di mano? Allora dovrai sopravvivere con dell’acqua piovana o di condensa. Scava una buca poco profonda e stendici sopra un sacchetto di plastica che avrai tagliato in modo da allargarlo. L’acqua che finisce sulla plastica scorre verso il centro, dove la buca è più profonda. Puoi anche stillare
acqua dagli alberi. Appendi un sacchetto di plastica attorno a un ramo con molte foglie. Siccome l’acqua nelle foglie evapora, dopo un po’ ci sarà una piccola quantità di acqua nel sacchetto.
Preparativi
È un giorno normalissimo. Perfino la maestra Marlies si annoia a morte, secondo me. Mancano ancora sette giorni al campo scuola e noi ci stiamo occupando dei preparativi. Cantiamo canzoncine sulle colline e le valli e sull’usignolo e sull’uomo nero che viene a prenderti.
Pensiamo a come ci vestiremo per la caccia al tesoro mascherata. Con noi
intendo la mia classe. Io faccio solo finta.
Durante l’intervallo riesco a rimanere dentro. Dico che mi sono rotto l’alluce. Vado zoppicando dalla maestra Marlies e le racconto cosa è successo ieri pomeriggio. Che la mia baby-sitter mi ha fatto cadere una pentola sull’alluce, e che siamo andati al pronto soccorso. È tutto inventato, ovvio. Stamattina, mentre i miei genitori dormivano ancora, mi sono bendato il dito e sembra proprio vero, perché sono molto bravo a fare le fasciature.
Nel frattempo, i miei compagni si precipitano fuori dall’aula. Si mettono la giacca. Le loro grida e risate si smorzano quando arrivano alle scale. La maestra osserva il mio dito del piede e dalla sua faccia capisco che ci crede.
Mi domanda se posso dare acqua alle piantine e se ne va nella stanza del caffè. Io guardo fuori dalla finestra e vedo gli altri giocare.
Si rincorrono sulle mattonelle quadrate. Innaffio le piante e osservo dalle finestre alte. Riesco a vedere lontano. Vedo le nuvole scivolare via al di sopra delle case. Il cielo cambia colore da bianco a grigio; sta per piovere. Quando sono a scuola, ho sempre la sensazione che dappertutto sia più bello che qui. Che preferirei essere in qualsiasi altro posto al mondo invece che qui.
E poi comincio a sognare. Non so se anche tu ci riesci, ma io so sognare con gli occhi aperti.
Nel mio sogno cammino a piedi nudi sull’erba bagnata. Il vento mi soffia tra i capelli e il sole mi splende sulla faccia. Vedo uno scoiattolo che salta di albero in albero, un cavallino trotta sulle lunghe zampe, un grosso verme spunta fuori con la testa da un buco nella terra e su un sottile filo d’erba brilla un coleottero. Nel mio sogno posso parlare con gli animali, capisco tutto quello che dicono. Il piccolo coleottero brontola per le pietre che gli sbarrano la strada.
«Sono solo dei sassolini» dico ridendo.
«Per me sono montagne, sai!»
E il cavallino chiede:
«Come si chiama un coleottero senza le zampette?»
Io alzo le spalle. Il verme fa lo stesso, ma lo vedi solo se lo guardi da molto vicino.
«Non ne ho idea» dico.
«Non importa come lo chiami, tanto non viene!» nitrisce trionfante il cavallino. Lo scoiattolo scoppia in una risata.
«Ahah, molto divertente» dico al cavallino, anche se mi sembra una barzelletta un po’ insulsa.
E poi sento che i miei compagni sono di ritorno nel corridoio. Troppo presto, per i miei gusti.
Le femmine si affollano attorno a una bambina più piccola con le codine e le dicono che è troppo carina!
I maschi si strattonano e si spingono nel corridoio mentre appendono le giacche. Poco dopo siamo di nuovo tutti seduti dietro i nostri banchi e ci annoiamo da morire. Faccio gli esercizi più lentamente che posso.
Devo convertire delle misure di lunghezza e risolvo un’operazione su un contadino che ha quindici mucche. Tre sono incinte e sette sono pronte per il macello, quante mucche avrà quest’estate il contadino?
E poi arrivano le tre del pomeriggio. A dire il vero non ho ancora fatto quasi niente, ma mi alzo di scatto, prendo lo zaino dall’appendiabiti e mi precipito fuori per primo. Nella fretta mi dimentico di far finta di zoppicare.
Ci sono tre percorsi possibili. Io cambio sempre, ma i ragazzi sono velocissimi. Certe volte riesco a venire via in tempo, ma di solito no. Ho svoltato appena due angoli quando mi raggiungono. Sento i loro passi avvicinarsi sempre di più. Mi afferrano per le braccia.
Mi prendono lo zaino. Ridono. Oggi sono in quattro. Si tirano il mio contenitore per il pranzo. Io mi alzo in piedi, come ogni giorno, e salto in alto per riprendere il contenitore al volo, proprio come tutti gli altri giorni della settimana, tranne il sabato e la domenica.
Loro però sono molto più veloci e forti di me. Non ha senso, lo so già. Prego per avere i poteri e i muscoli dell’Uomo Ragno, ma finora quel desiderio non si è mai avverato, e anche oggi sono solo me stesso.
Più io ce la metto tutta e più loro si divertono. A volte penso che per loro sia solo un gioco, come rincorrersi sul cortile: divertente, lanciarsi il contenitore per il pranzo di Vincent.
«Forza, su!» grida il cavallino. «Non è poi tanto difficile!»
«Salta più in alto!» grida lo scoiattolo.
«Non ci riesco» sussurro.
Buttano il mio contenitore nel cestino della spazzatura. Qualcuno mi spinge, facendomi cadere in avanti, e poi se ne vanno.
«Alzati» mormora il coleottero.
«Non sei abbastanza veloce» constata il cavallino.
«Lo so» borbotto. Anche io sono deluso da me stesso.
«Devi allenarti!» esclama lo scoiattolo.
Faccio segno di sì, infatti sono settimane che mi alleno.
Mi tiro su con prudenza e mi tasto le ginocchia. Sono tutte sbucciate. Spazzo via in fretta lo sporco dai vestiti, poi mi arrotolo una manica e ficco la mano nel cestino. Con le punte delle dita cerco a tentoni tra sacchetti di plastica vuoti, resti di patatine fritte con la maionese e mele rosicchiate, finché trovo il mio contenitore.
Lo rimetto nello zaino e mi incammino piano verso casa. Gli animali mi seguono fedeli.
Le catastrofi arrivano sempre all’improvviso
Quando arrivo a casa, Charlotte è già lì. Charlotte è la mia baby-sitter. Certo, sono decisamente troppo grande per una baby-sitter, ma ai miei genitori fa tristezza lasciarmi da solo. E così c’è Charlotte. È seduta sul divano a scrivere messaggini sul telefono e mi lascia tranquillo.
«Ciaooo» dice.
È una specie di sorella maggiore, solo che la pagano.
«Com’è andata?» chiede.
«Bene» dico.
«Vieni qui un secondo». Mi guarda dalla testa ai piedi e i suoi occhi si soffermano sulle mie ginocchia.
«Potrebbe essere peggio» decide, e mi accarezza