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Le decisioni della nostra vita
Le decisioni della nostra vita
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E-book280 pagine4 ore

Le decisioni della nostra vita

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Info su questo ebook

Sarah e Mitch in comune hanno solo l’età, diciannove anni. Per il resto, sono una l’opposto dell’altro: Sarah, giudiziosa e responsabile, ha un chiaro progetto di vita, mentre il ribelle Mitch per il momento preferisce non pensare al futuro, divertendosi a suonare insieme alla sua rock band.
I loro destini si incrociano per caso.
Se all’inizio i due ragazzi provano una forte antipatia reciproca, col passare del tempo, allacciano, quasi inconsapevolmente, un profondo legame di complicità e amicizia, che porterà entrambi a scoprire la propria vera identità.
Una storia romantica e avvincente, che evidenzia il potere epifanico dell’amore e invita ad ascoltare se stessi prima di affrontare le scelte della vita.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2020
ISBN9788835826019
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    Anteprima del libro

    Le decisioni della nostra vita - Francies M. Morrone

    York.

    I

    Mitch

    Quattro mesi prima…

    Stava mettendo la sua chitarra all’interno della custodia, mentre con eccitazione, e un po’ di tensione, pensava alla serata che lo aspettava. Un modo che gli avrebbe permesso di racimolare abbastanza soldi per poi andarsi a divertire in qualche locale chic di New York.

    Si era trasferito in quello scalcinato appartamento da quattro mesi o giù di lì, insieme al suo migliore amico dai tempi del liceo, cantante nella sua stessa band e coinquilino, Brian O’Neil. Aveva preso questa decisione con la stessa leggerezza con cui aveva deciso che non avrebbe frequentato il college. Così, stanco di come i suoi genitori prendevano sempre decisioni al posto suo, e persuaso più che mai a non volerli rivedere più, aveva fatto le valigie e se ne era andato via di casa. I suoi vivevano a New York, in periferia. Suo padre faceva il veterinario e aveva aperto un proprio studio nella periferia della grande città. Si era laureato alla Medaille di New York, ed era sempre stato molto amico del rettore dell’università. Sua madre, invece, era una graziosa e gentile signora di mezza età, che aveva lasciato gli studi dopo aver conosciuto suo padre, e, rimasta incinta, aveva preferito occuparsi della famiglia. Era una donna molto educata e di buone maniere, che aveva sempre dato affetto e giusti valori sia a lui che a Rick. Suo fratello maggiore Rick, più grande di lui di circa quattro anni, era da sempre riuscito a metterlo in ombra, attirando perennemente su di sé tutte le attenzioni dei genitori. Finito il liceo, aveva deciso di trasferirsi a Cambridge per studiare legge; infatti lo fece, laureandosi a pieni voti. Quando conobbe Avery, la sua attuale fidanzata da due anni e compagna di corso ad Harvard, finiti gli studi, decise di andare a convivere. Si trasferirono poco tempo dopo a Manhattan, dove aprirono uno studio legale, nel quale tuttora lavoravano insieme.

    Mitch si tirò su e andò a cambiarsi la maglietta del lavoro, quella con la scritta Da Mannie, usato conveniente. Ne indossò una a caso, di colore nero, e si diresse verso il piccolo bagno dell’appartamento per lavarsi i denti. I muri del bagno erano di un colorito giallognolo, e lui si domandò cosa avrebbero pensato i suoi, se avessero preso la decisione di venirgli a fare visita. Siccome questo non sarebbe mai successo, però, non era un problema che lo riguardava, e inoltre, con quello schifo di lavoro al negozio dell’usato, e con i pochi soldi che riusciva a fare con la band, non sarebbe certo riuscito a permettersi un attico di quelli che si vedevano a Times Square o vicino al New York Times Building. Ma non se ne lamentava, avere un tetto sopra la testa era già qualcosa alla sua età. Per di più, godere di tutta la libertà che si poteva sognare era un gran passo da considerare. Non avrebbe sicuramente desiderato vivere lì per sempre, ma al momento gli andava bene così.

    Mentre girovagava per casa, in cerca dei suoi braccialetti, non poté fare a meno di pensare alle ultime parole di suo padre, poco prima che lui se ne andasse di casa. «Che cosa farai in futuro? Vivrai per sempre con quegli incompetenti con cui suoni?» gli aveva detto. «Alla fine dovrai pensarci, Mitch. La vita degli adulti è più dura di quel che immagini».

    Certamente lo avrebbe fatto, ma perché preoccuparsene ora? Era un ragazzo di diciannove anni a cui non era mai piaciuta la storia o la matematica, eppure non era per niente stupido e solo quando voleva impegnarsi in qualcosa, lo faceva, ottenendo sempre il massimo sia a scuola sia nella vita. Questo, suo padre doveva averlo capito, perciò continuava a fargli notare quanto stesse sprecando le sue doti, non come suo fratello Rick.

    Al diavolo Rick! Lui non era Rick e non lo sarebbe stato mai, e ne era felice, pensò in quel momento, mentre s’infilava i braccialetti ai polsi, gli stessi che aveva comprato un paio di giorni prima nel solito negozio di cianfrusaglie. Non voleva male al fratello, ovviamente, ma non sopportava quella pressione che da sempre aveva sentito da parte dei suoi genitori, come se lui non fosse mai abbastanza per loro.

    Eppure, lui aveva una grande dote, che tutti, nel piccolo paese fuori città, avevano notato; compresi suo padre e suo fratello. Aveva da sempre avuto un amore innato per gli animali, e riusciva a essere molto più empatico nei loro confronti che verso le persone stesse. Era stato suo padre a trasmettergli quest’amore, e secondo Rick era un talento che gli era stato tramandato proprio da lui. Difatti, da quando era molto piccolo, aveva trascorso un sacco di tempo con suo padre proprio per via di questa loro passione che li accomunava. Lo aveva portato spesso allo studio veterinario, per far sì che lui lo assistesse e imparasse sempre di più sugli animali. Ciò finché non ebbe compiuto quattordici anni. Sorrise ricordando quei bei momenti.

    Ma quando crebbe, i suoi interessi mutarono, e lui iniziò a suonare il basso, per poi formare insieme a Brian una band, con la quale provavano almeno tre volte a settimana. Dopodiché, iniziò a bere le prime birre, a fumare i primi spinelli e a frequentare le ragazze. Da quel momento in poi, il rapporto con il padre non fu più lo stesso, e lui si allontanò molto, passando più tempo fuori di casa insieme a Brian che con la sua famiglia.

    Quando finì il liceo, prese l’importante decisione di trasferirsi in centro città, per iniziare una vita nuova, completamente diversa, e fino ad allora Mitch non riusciva a trovare qualcosa per cui lamentarsi riguardo a questa sua nuova vita. In fondo, faceva quello che voleva quando lo desiderava, senza suo padre o sua madre che gli dicessero come comportarsi o come agire, o addirittura come pensare.

    Aveva messo su un nuovo gruppo, e insieme si divertivano alla grande. Era stato proprio Brian, il quale lavorava insieme a Maison e a Francis ai Grandi Magazzini Lord & Taylor, sulla 5th Avenue, a ingaggiare i due ragazzi.

    Maison era il chitarrista, un ragazzo frizzante, pieno di passione per la musica, con capelli lunghi e biondi, un paio di occhi verdi e un gusto nel vestire piuttosto ambiguo, che riportava alla memoria i giovani skater nei video musicali degli anni Novanta. Francis, invece, suonava la batteria e aveva dei capelli corti di colore castano e occhi della stessa tonalità dei capelli. Aveva un carattere mite e riservato, un po’ come Mitchell, d’altronde. Brian, al contrario, somigliava più a Maison ed entrambi avevano un carattere più esuberante rispetto a Mitchell e a Francis.

    Aveva conosciuto i due ragazzi dopo aver ottenuto un lavoro all’interno dei Grandi Magazzini, e da subito aveva familiarizzato, riconoscendo in loro la stessa passione verso la musica che avevano lui e Brian. Entrambi erano molto bravi, tanto che Brian aveva proposto loro di mettere su una band. Mitch era sempre stato attratto verso qualsiasi strumento musicale, ma spiccava nella chitarra e nel basso, così, avendo già un chitarrista molto talentuoso all’interno della band, aveva deciso, al tempo, di dedicarsi solo al basso.

    Quella sera, avevano un ingaggio in un piccolo locale del centro, Il Nirvana. Un locale piuttosto trash, che metteva musica grunge anni Novanta, nel quale si esibivano band dal vivo.

    Una volta uscito di casa, chiuse la porta dell’appartamento e si diresse giù per le scale, dopodiché s’incamminò sul marciapiede affollato, in direzione del posto nel quale avrebbe incontrato Brian e gli altri. Impiegò circa quindici minuti a raggiungere Il Nirvana a piedi e, una volta lì, vide la fila di persone di fronte all’ingresso, dove un buttafuori vestito in giacca e cravatta, con un auricolare all’orecchio, stava facendo entrare le persone dopo aver controllato i documenti. Lui passò dal retro, attraverso un vicolo stretto e buio, che portava alla porta posteriore del locale. Bussò, e un altro buttafuori, con lunghi capelli mori legati dietro e occhi azzurri, lo fece entrare, dopo aver controllato il suo badge e appurato che lui faceva parte della band. Si sentì decisamente privilegiato in quel momento, come se fosse stata davvero una di quelle rockstar che si vedono ai grandi concerti, per esempio degli Audioslave o dei Clash. Entrò nel piccolo camerino riservato alle band e alla preparazione del trucco e degli strumenti, e vide che erano già tutti lì. Francis era sdraiato su una sudicia poltrona in pelle rossa, tendente al bordeaux, con il cellulare in mano. Invece Maison stava intonando uno dei loro pezzi con la chitarra. Non appena lo vide, Brian gli si avvicinò, e i due, per salutarsi, si strinsero la mano come due veri rockers.

    «Ce l’hai fatta, amico» disse Brian.

    Gli altri due ragazzi gli fecero un cenno di saluto con la testa e lui ricambiò.

    Ebbe giusto il tempo di appoggiare la custodia del basso e di tirarlo fuori dalla sua custodia rigida, rivestita di pelle nera, che il proprietario del locale li chiamò. Era ora: tutti e quattro i ragazzi si diressero fuori dal camerino verso il piccolo palco.

    Circa un’ora e mezza dopo, erano di nuovo nello stanzino e stavano mettendo via i loro strumenti, dentro le apposite custodie. Era andata decentemente e avevano ricevuto una notevole quantità di applausi. Mentre lui era occupato a chiudere la zip della sua custodia, Brian si rivolse a tutti loro:

    «Ragazzi, ho appena saputo che hanno aperto un nuovo locale in centro» annunciò il ragazzo, entusiasta. «Si chiama il Blue Angel».

    Gli altri ragazzi, compreso Mitch, non sembrarono molto convinti.

    «Uhm…» rispose Maison. «Che musica c’è?».

    «Dov’è che si trova?» chiese, invece, Francis.

    «A un paio di minuti a piedi da qui. Dicono che sia carino» disse Brian, eccitato.

    Tutti quanti loro sembrarono ancora poco convinti.

    «Andiamo, tanto domani nessuno di noi lavora, e per te invece» disse, rivolgendosi a Mitch. «È l’ultimo giorno di lavoro in quello schifo di negozietto dell’usato. Sarebbe un promettente inizio per dare il via alle vacanze estive!» insistette Brian.

    Di comune accordo, avevano deciso di lasciare tutti e quattro i loro rispettivi lavori, per concentrarsi solo sulle serate nei locali, e sull’università, anche se, a dire il vero, solo Maison e Francis avevano deciso di frequentarla. Tuttavia, gli introiti con la band andavano bene, e per merito di Brian, che si era rivelato un ottimo manager, anche se non lo era per niente, ora riuscivano a suonare quasi tutta la settimana, in altre parole quattro giorni su sette, il che faceva guadagnare un bel po’ di soldi a testa. Abbastanza, almeno, da potersi permettere uno scalcinato appartamento in centro a New York. Maison e Francis, invece, vivevano ancora con i loro genitori e non avevano di questi problemi.

    Domani sarebbe stato l’ultimo giorno di lavoro per tutti loro, prima di decidere dove andare per passare le vacanze estive, e lui non avrebbe più rivisto quel negozietto dell’usato in cui aveva dovuto lavorare da tre mesi a questa parte. Fra le serate nei locali e il suo lavoro, era riuscito a mettersi via soldi a sufficienza da potersi permettere tranquillamente una vacanza. Per di più, ora, lui e gli altri suonavano con molta più frequenza, quindi il denaro, almeno per il momento, non era un problema.

    Alla fine, Brian convinse tutti loro ad andare in questo nuovo locale, il Blue Angel. Così, i quattro amici si avviarono per le strade piene di turisti e di gente, com’era solito che fosse nella Grande Mela.

    Arrivarono pochi minuti più tardi, ed essendo un locale in apertura, i quattro ragazzi videro una lunghissima fila di persone lungo l’entrata. Loro fecero lo stesso e si misero in fila, ma l’attenzione di Mitch fu catturata da un gruppo di giovani ragazze che sembrava avere la loro stessa età. A dire il vero, una ragazza in particolare lo sorprese. Aveva lunghi capelli biondi e indossava un vestito blu scuro, in tinta con i tacchi e la borsetta. Stava ridendo insieme alle sue amiche, e lui fu come colpito da quella sua risata, sincera e spontanea. Passarono venti minuti buoni prima che lui, Brian e gli altri arrivassero di fronte all’ingresso, ma proprio mentre il gruppo di ragazzi era ansioso di entrare, la guardia fece dei problemi, poiché la ragazza dal vestito blu non aveva con sé il documento.

    «Andiamo, Mister!» fece Brian verso la guardia. «Qui vogliamo entrare».

    Il buttafuori, in tutta risposta, alzò una mano, come a dire di stare calmi, mentre, invece, sempre più agitata, la ragazza tentava di trovare il documento all’interno della piccola borsetta, continuando a frugare al suo interno. Lui ricordò di quando gli era successo un episodio simile, di tutta la strada che aveva fatto dall’appartamento fino a un locale fuori mano, per poi scoprire che con sé non aveva la patente di guida. Soprattutto, ricordò la delusione di dover tornare a casa dopo aver percorso tutta quella strada per nulla. Così si fece avanti e si rivolse al buttafuori.

    «Queste ragazze sono con noi. Lei è mia sorella…» fece lui, indicando la ragazza con il vestito blu. «Garantisco io per lei» disse poi, tirando fuori la sua patente e mostrandola alla guardia.

    L’uomo la esaminò con scetticismo, e guardò sia lui sia la ragazza in quel momento, non riuscendo a cogliere alcuna somiglianza fra loro a livello esteriore. Intanto, la ragazza era rimasta lì, senza parole, non sapendo se essere felice per via del suo atteggiamento oppure esserne inquietata. Di certo, quello sguardo rispecchiava ambiguità, esattamente come tutta quella situazione assurda.

    Brian e gli altri, compreso il gruppo di ragazze, non dissero nulla, in modo da non generare più sospetti di quelli che la guardia già doveva avere in quel momento. Dopo un paio di minuti, l’uomo sembrò convincersi, e li lasciò finalmente entrare. Una volta dentro il locale, la musica era piuttosto forte, mentre un ragazzo, pressappoco della loro età, era di fronte a una console musicale, in cima a una specie di palco.

    In quel momento, la ragazza senza il documento si rivolse a lui.

    «Grazie».

    Lo disse in maniera piuttosto timida e a voce così bassa che lui fece fatica a sentirla, ma riuscì a leggerne il labiale.

    Lui fece un cenno, come a dire che non importava.

    «Allora, diamo inizio a questa festa?» fece Brian, rivolto a loro.

    Lo disse però a tono così alto che anche il gruppo di ragazze lo sentì, e lui sospettò che quello fosse proprio l’intento dell’amico. In qualche modo, Brian ci aveva da sempre saputo fare più di lui con le ragazze, e più anche di Maison e Francis. Fin dai tempi del liceo, era stato un campione nello sport e con le ragazze, accaparrandosi sempre le più carine, malgrado lui non fosse mai riuscito a spiegarsi quale fosse il suo segreto. «Tutta questione di saper parlare» gli aveva detto una volta l’amico. Questo non significava che lui non sapeva parlare con loro, ma avrebbe solo voluto capire come facesse l’amico a essere così aperto e socievole in ogni occasione. Un po’ gli ricordava Rick, suo fratello, ed era un’ottima cosa. Lui, invece, era sempre stato un tipo introverso e riservato, cui non piaceva parlare a vanvera o dire qualcosa tanto per dirla. Gli piaceva riflettere prima di parlare, ma evidentemente alle ragazze questo genere di carattere non attraeva per nulla. Non che non fosse mai riuscito ad avere una ragazza, ma sicuramente Brian lo batteva.

    Proprio in quel momento, Brian si fece avanti con le ragazze, che in quel momento si stavano guardando intorno un po’ spaesate.

    «Ehi, ragazze» fece Brian. «Il locale è pieno, quindi che ne direste di prendere un tavolo insieme? Non credo che vi faccia piacere stare in piedi per tutta la serata».

    Il suo carattere era fermo e sicuro di sé, e forse proprio per questo loro accettarono la sua proposta. Così, il gruppo di ragazzi si avviò verso un tavolo libero e si sedette sulle comode poltroncine. L’unica a sembrare a disagio fu la ragazza dal vestito blu, quella che lui aveva fatto entrare di straforo. Forse, non era neppure il suo genere preferito di locale. Provò ad avvicinarsi a lei, ma lei si irrigidì all’istante, neppure le avesse pestato un piede.

    «Non ti piace il posto?» provò a dire lui.

    «Non proprio» affermò lei, con un sorriso.

    Rivolse lo sguardo verso la pista da ballo, dove un sacco di persone erano totalmente catturate da una canzone che un ragazzo stava suonando con la sua console.

    «Ti capisco, di solito neanche noi veniamo in locali del genere, ma Brian ha insistito tanto» rispose lui.

    «Mi chiamo Mitchell, comunque» provò a dire, tendendo la mano verso di lei. «Per gli amici Mitch».

    Lei la strinse.

    «Sarah».

    I loro sguardi si incontrarono per un istante e lui riuscì immediatamente a notare, nonostante le poche luci del locale, il colore azzurro dei suoi occhi. Lo colpirono in maniera tale che in quel momento un pensiero gli trafisse la mente: non credeva di aver mai visto degli occhi così magnifici. Ma il momento passò, proprio quando Sarah distolse lo sguardo, appena in imbarazzo. Era davvero bellissima, su questo non c’era alcun dubbio.

    Sarah sorseggiò un po’ della bevanda che il cameriere aveva portato a lei e al resto del gruppo. Brian era impegnato nel suo solito show e a quanto pareva aveva successo, perché sia le amiche di Sarah, sia Maison che Francis sembravano divertirsi. In seguito a una battuta di Brian, scoppiarono tutti in una gran risata, ma lui non riuscì a sentirla per via del forte baccano che faceva la musica all’interno del locale. L’unica che sembrava non apprezzare l’ambiente era proprio Sarah.

    In parte Mitch riuscì a capire cosa provava e neanche lui, in tutta la sua vita, era mai stato quel genere di ragazzo solare, aperto e socievole. Non era mai stato antipatico a nessuno e solitamente era gentile e ben educato, ma questo non cambiava il fatto che era da sempre stato un tipo introverso e riservato. Non riuscì a capire perché quei pensieri gli fossero venuti in mente proprio adesso, ma non riuscì a fare a meno di pensare che quella bellissima ragazza dai capelli dorati, seduta di fianco a lui, rispecchiava in parte un po’ della sua personalità e d’un tratto si sentì molto più solidale nei suoi confronti piuttosto che verso Maison o Francis, o addirittura Brian.

    Erano in quel locale da poco più di quaranta minuti e la serata sembrava andare bene, almeno per Brian, Maison, Francis e il resto delle ragazze. D’altra parte, lui si stava annoiando terribilmente e non era solo per via della musica, o delle persone che occasionalmente gli erano venute addosso nelle quattro volte che si era alzato dai divanetti, due per andare a prendere da bere al bancone del bar e le altre due per dirigersi verso il bagno. Era stanco e irritato, ma forse solo perché dopo una lunga e intensa giornata di lavoro, l’ultima cosa che avrebbe voluto fare era chiudersi in un locale senza finestre con una musica assordante che suonava persistente attraverso le grosse casse in mogano di ultima generazione.

    A quel punto, si era quasi dimenticato di Sarah, la quale, in effetti, era seduta a non più di mezzo metro di distanza da lui, su quei divanetti di un colore rosso spento, e adesso lo guardava con un mezzo sorriso sul volto. Ebbe un piccolo sussulto al cuore.

    Quindi, Sarah si rivolse a lui:

    «Non sembra ti stia divertendo molto» fece una breve pausa. «Sbaglio?».

    «Non è nulla. Sono semplicemente stanco» disse lui, senza approfondire l’argomento.

    Lei annuì appena e, dopo qualche secondo di silenzio, parlò di nuovo.

    «Come mai sei venuto, se non ne avevi voglia?» domandò lei, d’un tratto.

    «Mi dispiaceva per Brian» rispose lui. «Sapevo che ci sarebbe rimasto male, se non fossi venuto».

    «Ti capisco» fece subito Sarah, cogliendolo di sorpresa. «Lauren mi convince sempre a fare cose che non ho voglia di fare. Oppure, così stupide che a me sembrano illogiche, ma per lei invece sono idee ottime».

    Lui non riuscì a trattenere un sorriso e non poté ignorare la piacevole sensazione che gli stava dando parlare con Sarah. Nonostante non si conoscessero per nulla, stabilì fin da subito che gli sarebbe stata simpatica. Sembrava divertente, spiritosa, ma soprattutto gli pareva che non si facesse remore nel dire ciò che pensava. A Mitch erano sempre piaciute le persone come quella Sarah. E lei sembrava essere proprio così, anche se ovviamente non ne poteva avere la certezza, per via del poco tempo che avevano trascorso insieme. Magari era totalmente diversa da ciò che appariva, ma a Mitch piaceva seguire il suo istinto quando si trattava di capire com’erano fatte le persone e finora non si era mai sbagliato.

    A quel punto gli venne un’idea.

    «Vivi lontano da qui?» domandò lui, rivolgendosi a Sarah.

    «No, abito appena dopo la parte opposta del ponte, verso Brooklyn» una breve pausa. «Perché?».

    Lui viveva praticamente dalla parte opposta, sopra un piccolo ristorante taiwanese, dove gli odori si sentivano fin sopra il suo appartamento se apriva le finestre che si affacciavano sulla strada e sugli alti palazzi opposti.

    «Ti va se ti riaccompagno, così riusciamo ad andare via senza che la tua amica Lauren né Brian ci rinfaccino di essercene andati per una

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