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Peccato mortale (eLit): eLit
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E-book349 pagine5 ore

Peccato mortale (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Nei suoi occhi c'è l'inferno o il paradiso?



Park Square: Quartiere off-limits, area designata alla prostituzione. Luogo dove si rifugia chi non sa dove andare e vuole lasciarsi la propria vita alle spalle. È qui che padre Clancy Donovan, prete anticonformista, aiuta le ragazze a togliersi dalla strada. Ed è proprio a lui che Sarah Connolly si rivolge per ritrovare la nipote adolescente, scappata di casa dopo una lite. La ricerca, però, innesca un meccanismo che travolge tutti come un'esplosione. Loschi traffici emergono, mentre le scelte di una vita vengono messe in discussione.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2017
ISBN9788858972076
Peccato mortale (eLit): eLit

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    Anteprima del libro

    Peccato mortale (eLit) - Laurie Breton

    successivo.

    Prologo

    Revere, Massachusetts

    Abitare nella casa più brutta di tutto l'isolato era così umiliante!

    Kit Connolly si sistemò meglio in spalla l'ingombrante zaino e s'incamminò svogliatamente verso l'orribile villino prefabbricato a due piani che il precedente proprietario, evidentemente fuori di testa, aveva dipinto di azzurro intenso. Mancavano solo le strisce bianche e poi sarebbe sembrato un tendone da circo.

    Il garage stava per crollare come un castello di carte, il tetto era stato rappezzato senza che nessuno si fosse preso la briga di cercare lo stesso colore e lo stesso materiale per renderlo uniforme, e i gradini dell'ingresso pendevano da un lato come un marinaio ubriaco.

    Zia Sarah, neanche a dirlo, adorava l'orrida casetta. Diceva sempre che era spartana ed essenziale, ma che non le mancava niente e sarebbe stata perfetta con una mano di vernice e un'aiuola fiorita nel giardinetto. Era ovvio che la zietta era suonata come il tizio che aveva dipinto la casa d'azzurro. L'unica soluzione per migliorare l'aspetto di quella bicocca sarebbe stata demolirla e ricostruirla da capo.

    Stava scendendo la sera e il cielo plumbeo era tipico di marzo. Era un tempo che faceva venire la depressione, pensò Kit entrando in casa dall'ingresso posteriore, che dava direttamente in cucina. Buttò il cappottino striminzito su una sedia e salì le scale con passo pesante.

    Entrata in camera, lasciò cadere lo zaino per terra vicino al letto, s'inginocchiò e tirò fuori da un cassetto laterale sotto il letto la pagella che stava per distruggerle la vita.

    Nel complesso non era poi tanto male. Due sette, tre sei e un quattro. Aveva avuto tutte sufficienze tranne che in francese, ma sapeva già che la zia sarebbe andata su tutte le furie quando l'avrebbe vista. Non poteva neanche nasconderla, perché Sarah ricordava perfettamente che quel giorno le avrebbero consegnato la pagella.

    Afflitta, si stese sul letto e contemplò il soffitto, seguendo tristemente con lo sguardo una crepa che lo percorreva da parte a parte. La sua vita era finita, rovinata. Sarebbe stata messa in punizione fino all'età della pensione. Sarah era già sul piede di guerra dopo la loro discussione di quella mattina, e tutto perché lei voleva farsi un piercing alla lingua. Che c'era da agitarsi tanto? Proprio non lo capiva. Un sacco di ragazzi della sua età erano sforacchiati come colabrodo. Ma la cara zietta, che alla veneranda età di trentatré anni era già un fossile buono solo per il museo di storia naturale, aveva idee antiquate e si era rifiutata decisamente di prendere in considerazione la sua richiesta.

    La predica aveva preso la solita piega, insistendo sul concetto tanto amato del senso di responsabilità. Responsabilità... Secondo zia Sarah, lei non aveva ancora compreso a fondo la necessità di prestare attenzione alle regole e rispettarle.

    Pulisciti i piedi prima di entrare in casa. Spegni la luce quando esci da una camera. Piega bene i vestiti che ti togli. Metti in ordine la tua stanza.

    Per quanto si sforzasse, Kit scordava sempre qualcosa e la zia rimarcava immediatamente ogni sua dimenticanza. Non le sfuggiva niente.

    La mamma non l'avrebbe trattata mai così male. Le avrebbe permesso di prendere la metro con gli amici per andare al centro di Boston dopo la scuola, come facevano tutti. Avrebbe capito quanto fosse importante andare alle feste e coltivare le amicizie, ma quelle giuste, per non finire a ingrossare le file degli sfigati. La mamma si sarebbe resa conto che non le serviva stare sotto la tutela di un adulto. Aveva sedici anni, non sei, ed era abbastanza grande da essere in grado di prendere le decisioni che la riguardavano in totale autonomia.

    Poteva badare a se stessa; non le serviva Sarah. Non aveva bisogno di nessuno. L'aveva dimostrato l'estate prima, dopotutto. Era stata in grado di provvedere a se stessa benissimo, finché la polizia di New Orleans non l'aveva trovata e gli agenti l'avevano costretta a tornare a casa, a vivere con Remy e Sarah.

    Non se ne parlava proprio, pensò in un moto di ribellione, aggrottando la fronte. Non ce l'avrebbe fatta a sopravvivere altri due anni in quella prigione, guardata a vista dal secondino Sarah Connolly, che sorvegliava ogni sua mossa e pretendeva di darle ordini. L'unica soluzione sarebbe stata scappare.

    Kit si alzò dal letto e si avvicinò allo specchio. Sollevò i capelli biondi sopra il capo e atteggiò le labbra a un broncio sexy come quello delle modelle nelle riviste per soli uomini che l'edicolante teneva su una rastrelliera nel retrobottega.

    Si girò da un lato e poi dall'altro per esaminare con occhio critico il proprio profilo. Quasi tutte le ragazzine della sua età avevano il viso deturpato dall'acne; lei invece aveva una bella pelle, liscia, chiara e vellutata, priva d'imperfezioni. Gli occhi erano la sua principale dote: grandi e azzurri, bordati da lunghe ciglia, potevano assumere un'espressione ingenua, da bambolina, oppure maliziosa e seducente.

    Ma i suoi pregi si fermavano lì, perché il resto non era un granché. Le labbra erano troppo sottili, il naso leggermente storto e i capelli ingovernabili. Il corpo, poi... meglio non parlarne. Non c'era una cosa, una sola, che andasse bene. Per quanto si sforzasse di stare a dieta, sembrava sempre grassa come un porcellino.

    Il suo fisico era uno dei punti su cui lei e Sarah non andavano d'accordo. Secondo la zia, Kit non era affatto grassa. Aveva solo la sua stessa costituzione. Quella che lei definiva ciccia, secondo Sarah erano solo curve procaci, che avevano tutte le donne della famiglia Connolly.

    Il problema era che Kit non voleva avere tettone e sederone. Il suo ideale estetico erano le donne flessuose ed eleganti come Gwyneth Paltrow o Nicole Kidman, con pancia piatta, gambe snelle, portamento signorile e un fisico che permettesse d'indossare qualsiasi cosa. A sedici anni, Kit era già alta un metro e settantasette e portava scarpe quaranta. Il peso, poi, non l'avrebbe detto neanche sotto tortura. Sono una sfigata di amazzone, accidenti, pensò. Un fenomeno da baraccone.

    Sotto certi aspetti, però, c'erano dei vantaggi a essere alta e formosa. Con i vestiti giusti, un po' di trucco e i capelli sistemati poteva passare senza difficoltà per diciottenne. Non avrebbe avuto problemi a trasferirsi in città, trovare casa e lavoro, magari nel campo dello spettacolo. Sarebbe stato bellissimo! In attesa di fare l'attrice le sarebbe bastato lavorare in un teatro, anche a pulire i bagni, fare la maschera o servire al bar. Non le importava, purché fosse a teatro. Chissà, magari un giorno sarebbe riuscita a fare un'audizione per una particina. Si cominciava sempre dal fondo e forse, con un po' di fortuna, qualcuno l'avrebbe scoperta.

    Stimolata dalle allettanti prospettive di libertà che aveva costruito nella sua testolina, vuotò lo zainetto sul letto, poi tirò fuori dall'armadio la scatola chiusa da un lucchetto che teneva nascosta sul fondo. Dentro c'erano i soldi che aveva risparmiato. Erano i soldi della colpa, la colpa dell'uomo che l'aveva messa al mondo. Suo padre si era sbarazzato di lei come di un gattino indesiderato e la sua maniera di mettere a tacere la voce della coscienza era mandarle un biglietto d'auguri e un assegno a ogni compleanno o ricorrenza. In un anno e mezzo le aveva telefonato solo una volta ma, purché continuasse a mandarle soldi, Kit gli avrebbe giurato che era un buon padre, che non le faceva mancare niente.

    Si mise i soldi in tasca, poi prese un piccolo astuccio in cui aveva infilato tre spinelli e lo nascose nello scomparto interno dello zainetto, che riempì con un po' di biancheria, qualche maglietta, un paio di jeans di ricambio, la minigonna di pelle nera che Sarah detestava tanto, il gel per capelli e l'astuccio dei trucchi.

    Mentre frugava nel cassetto della biancheria, le cadde lo sguardo sulla foto incorniciata di sua madre, che teneva sul piano del cassettone. Si fermò e la prese, soffermandosi a fissarla. Lei era piccola quando sua madre era morta, troppo piccola per capire perché la mamma fosse scomparsa da un giorno all'altro. Suo padre le aveva spiegato confusamente che era andata da Gesù, ma per lei quella spiegazione non aveva senso, perché nella sua mente di bimba di quattro anni era impressa la granitica convinzione che la madre non se ne sarebbe mai e poi mai dovuta andare abbandonandola, neanche per sedere in trono accanto a Gesù nell'alto dei cieli. Era sicura che il padre si fosse sbagliato e che un bel giorno si sarebbe svegliata e avrebbe trovato la mamma in cucina, intenta a preparare la colazione canticchiando.

    Ma suo padre aveva ragione e la mamma non era più tornata. Ormai era scomparsa da così tanto tempo che Kit non la ricordava quasi più. Di lei rammentava solo i morbidi capelli biondi e la voce limpida e dolce che le cantava la ninnananna tutte le notti.

    Nessuno le aveva più cantato la ninnananna per farla addormentare.

    D'impulso Kit infilò nello zaino la fotografia, mettendola tra le magliette in modo che non si rompesse il vetro. Poi fu il turno di Freddy, un gorilla di peluche, tanto vecchio che aveva perso un occhio ed era tutto spelacchiato. Aveva anche una cucitura allentata su un fianco, che Kit dimenticava sempre di rammendare e da cui ogni tanto spuntava fuori l'imbottitura di gommapiuma.

    Ne aveva viste tante, quel povero gorilla. Durante gli anni trascorsi al seguito del padre, l'aveva trascinato da Montgomery a Richmond, da Richmond a Tupelo e da Tupelo a Beaumont. Ogni volta che avevano fatto i bagagli e si erano trasferiti, Freddy era stato l'unico punto fermo della sua esistenza mentre veniva sballottata qua e là, l'unica cosa familiare in posti sempre estranei. Era il suo migliore amico e ora non avrebbe potuto abbandonarlo.

    Chiuso lo zainetto, si guardò intorno nella camera per vedere se aveva dimenticato qualcosa, poi prese il giaccone imbottito, pensando che le sarebbe potuto essere utile per il freddo. Uscita di casa, si fermò sul marciapiede per lanciare un'ultima occhiata all'orrenda facciata azzurra.

    Arrivederci, sayonara, adieu, goodbye... e vaffanculo, pensò con odio. Avrebbe sentito la mancanza del villino come un cane sente la mancanza delle pulci che lo affliggono.

    La metro era quasi vuota. A quell'ora le persone erano dirette per lo più dalla parte opposta e tornavano in periferia, svuotando i negozi, le banche e gli uffici del centro.

    Mentre il vagone ondeggiava, Kit posò distrattamente lo sguardo sui volti anonimi degli altri passeggeri. Avevano quasi tutti l'espressione annoiata e stanca. Nessuno mostrava una goccia d'entusiasmo e lei li compatì, perché nessuno era diretto verso un'avventura elettrizzante, una nuova vita, come lei.

    Scese a State Street e, quando emerse dalla stazione al livello della strada, fu colpita dal vento freddo della sera e dall'odore di noccioline tostate. Posato a terra lo zainetto, si fermò dal venditore ambulante e ne comprò un sacchetto. Urtata e spintonata dai pendolari frettolosi, rimase ferma sul marciapiede a guardarsi intorno e a respirare l'atmosfera della città.

    Ora sì che riconosceva l'ambiente. Sentiva il cuore pulsante della metropoli. Era lì che accadevano le cose che contavano. Lì era destinata a vivere, proiettata verso un luminoso futuro.

    Elettrizzata, fece una piroetta ed elargì un sorriso smagliante al giovane venditore di noccioline, che ricambiò, e Kit capì, senz'ombra di dubbio, che quello era il momento più felice della sua pidocchiosa vita.

    Con il sacchetto stretto in mano, si rimise lo zaino in spalla, si allontanò e, senza guardarsi indietro, si confuse tra la folla.

    1

    Boston, Massachusetts

    La ragazza portava dei sandali neri con i lacci alla schiava e i tacchi a spillo. Fu la prima cosa che notò.

    Indugiava nell'ombra sotto un androne in Essex Street, al limitare di Chinatown, tra un ristorante cinese e un negozio di tessuti con una profusione di broccati esotici nella vetrina coperta da una grata di protezione.

    Non portava le calze e il vestitino corto di seta azzurro elettrico aveva uno spacco che superava i limiti della decenza. Sopra indossava un giubbottino di finta pelliccia bianca che la proteggeva ben poco dal freddo. Il trucco carico era il segno evidente del suo tentativo fallito di assumere un'aria sofisticata, perché la faceva sembrare ancora più giovane, come una bambina che s'impiastriccia il viso per giocare alle signore. Aveva l'aria stanca e infreddolita, oltre che rassegnata.

    Da un'ora buona Clancy girava in macchina nella zona dove battevano le prostitute minorenni: Park Square e Bay Village, Mass Avenue e Kenmore Square. La temperatura era rigida e c'era ben poco da guadagnare. I clienti scarseggiavano ed era ormai tardi per sperare di farsi rimorchiare da qualche pollo danaroso. Quasi tutte le ragazze avevano smesso di battere per rifugiarsi in un letto, dove capitava, purché fosse caldo. Le poche che rimanevano imperterrite sui marciapiedi lo conoscevano di vista, sapevano cosa l'avesse spinto lì, ma non erano interessate a quello che aveva da offrire.

    In ogni caso Clancy non cercava loro, le ragazze dall'espressione cinica e disincantata, la voce sguaiata, spesso anche le braccia segnate dall'ago. Lui era a caccia delle più giovani, quelle vulnerabili che conservavano ancora qualche traccia di umanità, qualche brandello d'innocenza, non ancora indurite dalla crudezza della vita e dalla legge del marciapiede. A volte per loro c'era ancora speranza e l'intervento di Clancy poteva essere efficace e risolutivo.

    Sempre che riuscisse ad arrivare prima dei predatori.

    Padre Clancy Donovan era convinto che nulla avvenisse per caso. C'era sempre una ragione per tutto ed era sicuro che Dio avesse messo quella ragazza proprio in quel luogo e in quella notte espressamente per fargliela trovare.

    Parcheggiò in doppia fila e lasciò il motore acceso. Quando aprì lo sportello e uscì dalla macchina, la ragazza si ritrasse nell'ombra. L'aveva spaventata.

    Non era prassi comune che fosse il cliente ad avvicinare la prostituta. Raramente i clienti lasciavano la sicurezza e l'anonimato della loro auto. Nel codice del marciapiede, questo poteva significare solo due cose: o rappresentava la legge oppure era un malintenzionato, uno di quei maniaci di cui si legge sui giornali dopo che hanno ammazzato la ragazza del lampione accanto. E potevi solo pensare che l'avevi scampata bella ma che, magari, la prossima vittima saresti stata tu.

    Clancy si avvicinò lentamente al portone, con indifferenza studiata. «Fa freddo stanotte, eh?» commentò strofinandosi le mani.

    Silenzio.

    Si chiese se fosse straniera. Il suo cantonese era arrugginito, ma l'aveva imparato abbastanza da riuscire a cavarsela, durante gli anni trascorsi in Estremo Oriente.

    «Posso aiutarti» le disse con una pronuncia stentata. «Ti aiuto a smettere di fare la vita. La mia macchina è calda. Entra e parliamo.»

    Più di così non poteva esprimersi. Tacque e attese, mentre il silenzio si protraeva.

    Alla fine la ragazza si staccò dal muro contro cui si era appiattita e azzardò un passo incerto verso di lui. Quando fu sotto la luce del lampione, Clancy vide che era graziosa, con un bel visetto tondo dai lineamenti orientali, e grandi occhi neri a mandorla. Sparatemi qui se ha più di quindici anni, pensò. Probabilmente, come da copione, abitava con altre quattro o cinque ragazzine asiatiche in un monolocale infestato da pidocchi e scarafaggi, dove i funzionari dell'Immigrazione non si sarebbero mai curati di cercarla.

    «Tu poliziotto?» gli chiese con un pesante accento orientale.

    «No, sono un sacerdote. Un prete, mi capisci?» Lui lasciò perdere il goffo tentativo di comunicare in cinese. «Se hai intenzione di smettere di lavorare sul marciapiede, posso portarti in un posto sicuro e aiutarti.»

    Lei lo scrutò da capo a piedi e notò il berretto di lana, il cappotto, i jeans e gli anfibi. «No sembri prete» commentò, nella sua lingua stentata.

    «Forse no» ammise lui. «Però ti assicuro che è quello che sono. Allora, vieni? Fa freddo qui fuori.»

    Lei esitò. «No fotti fotti?»

    Clancy sentì crescere la pietà e la rabbia. La prima perché quella ragazzina credeva che l'unica cosa di valore che possedeva fosse tra le gambe, la seconda perché erano stati gli uomini a indurla a convincersene.

    «No» disse lui con calma, scuotendo lentamente la testa. «Niente fotti fotti.»

    Fu a quel punto che vide negli occhi di quella bambina nascosta dietro il trucco da prostituta la scintilla che aspettava: un lampo di speranza. Forse la ragazzina cominciava ad augurarsi che nella vita ci fosse qualcosa di più di quello che aveva trovato fino ad allora.

    Lei lanciò un'occhiata furtiva a destra e una a sinistra, poi fece un altro passo avanti.

    «Allora vengo con te.»

    Una volta sistemata in un letto pulito, la ragazza venne affidata alle cure di Melody. Clancy affidava sempre ogni nuova ospite che entrava nella Casa a una compagna che l'assistesse nel passaggio dalla strada a una nuova vita. Un'amica più esperta e sicura faceva sentire meno sole le poverine nella lotta per rimettere insieme i pezzi della loro esistenza distrutta.

    La mattina dopo avrebbe telefonato a Kate Miller per prenderle un appuntamento. Tutte le ragazze che entravano nel programma di recupero dovevano obbligatoriamente sottoporsi a un'accurata visita medica, completa di esami tossicologici, analisi del sangue e test di sieropositività. Quasi tutte avevano qualche infezione quando arrivavano nella Casa e molte si drogavano.

    Però le regole stabilite da Clancy erano inflessibili e inderogabili: niente sesso e niente droga. Alla prima infrazione si veniva ammonite, alla seconda sbattute fuori.

    Clancy era convinto che la ricetta per il recupero comportasse affetto e disciplina in eguale misura. Lo sapeva per esperienza; gli sarebbe servito incontrare una persona buona ma di polso quando era un giovane scapestrato e si metteva spesso nei guai. Ma a casa sua non c'era mai nessuno a obbligarlo a rispettare le regole. Una sera sì e l'altra pure veniva chiamato al pub sotto casa all'ora di chiusura per schiodare sua madre dal bancone del bar, portarla a casa e metterla a letto. Anche Clancy aveva bisogno di una madre che lo educasse, come tutti, ma era difficile comportarsi da genitrice seria per una donna che era quasi sempre troppo ubriaca per camminare senza barcollare.

    Il vento fischiava fuori della canonica, sferzando i muri e scuotendo i vetri. Clancy si versò un dito di whisky, si sedette sul divano e accese il televisore. A quell'ora non c'era un granché, tranne film in bianco e nero, televendite e repliche di vecchie sit-com. Alla fine si rassegnò a vedere un western con John Wayne. Curvo in avanti, con i gomiti poggiati sulle ginocchia, fissò a lungo il contenuto del bicchiere che aveva tra le mani cercando nel liquido ambrato una risposta.

    La dipendenza dall'alcol che, insieme alla droga, aveva distrutto la vita di sua madre, per poco non aveva fatto altrettanto con la sua. Eppure eccolo lì, solo nelle ore lente e silenziose che precedono l'alba, a sorseggiare uno scotch e a chiedersi se non stesse seguendo il cattivo esempio di sua madre. Non era la prima volta che la bottiglia lo tentava. Dopo la morte di Meg, si era dato all'alcol per tre mesi di fila.

    Per consolarsi, si disse che allora la sua vita era completamente diversa e che lui non era più lo stesso uomo. Era successo prima di scoprire la propria vocazione, prima che la gente cominciasse a guardarlo come se fosse un individuo a parte rispetto al resto dell'umanità, un sant'uomo.

    Ormai beveva con molta moderazione. Non si faceva un cicchetto se non nelle brutte serate, e mai più di un bicchiere. Per lui era una consolazione sapere di potersi fermare; lo considerava una specie di spartiacque tra gli alcolizzati e le persone che amavano bere.

    Trangugiò il whisky in un sorso solo che gli bruciò la gola e gli s'insinuò nelle vene con il suo calore languido e piacevole. Quella sera non era nei suoi programmi uscire a caccia. Anzi, era andato a letto presto e per un po' aveva addirittura dormito. Però verso l'una si era svegliato di soprassalto, come gli capitava ormai ogni notte da circa sei mesi. A quell'ora, le preoccupazioni che lo infastidivano di giorno si trasformavano in tormenti di proporzioni bibliche. Inquieto, aveva dovuto prendere atto del fatto che il sonno era solo un'elusiva chimera.

    Quella notte era stato il pensiero dei Branigan a tenerlo sveglio. Mike e Iris Branigan erano sull'orlo del divorzio e lui, come loro parroco, aveva il dovere di dare buoni consigli alle sue pecorelle quando gli aprivano il cuore e gli esponevano i loro problemi. Sarebbe stato suo compito aiutare Mike e Iris a salvare il loro matrimonio, e invece aveva fallito.

    Negli ultimi mesi si era reso conto sempre più dei propri limiti quando doveva offrire la sua consulenza alle coppie sposate. D'altronde cosa poteva saperne un sacerdote che viveva in celibato in compagnia di un pesce rosso, dell'intimità, del delicato equilibrio, dei compromessi e dei dissapori che possono esserci tra due coniugi? Non era mai stato sposato ed era cresciuto senza padre, con una madre che gli voleva bene ma provava un affetto ancora più grande per la bottiglia. Erin Donovan non gli aveva fornito esattamente un modello esemplare di legame coniugale.

    Il vescovo Halloran gli avrebbe detto che Gesù Cristo e i precetti della Chiesa erano gli unici modelli che gli servissero, ma Clancy e il vescovo avevano avuto le loro divergenze. I Branigan avevano bisogno di sfogarsi con qualcuno che potesse capirli e consigliarli nel modo giusto e quel giorno, per la prima volta da quando aveva intrapreso la via del sacerdozio, aveva dirottato un suo parrocchiano verso un consultorio laico.

    Tuttavia non era solo la sua competenza come consulente matrimoniale a lasciarlo perplesso. Ultimamente aveva cominciato a dubitare delle proprie capacità in vari campi e si era chiesto spesso se potesse arrogarsi il diritto di guidare le anime dei suoi parrocchiani quando la sua stessa anima era squassata da mille inquietudini e incertezze.

    Il vescovo l'avrebbe definita una crisi di fede. Oppure forse non era niente di complicato, ma solo un lieve esaurimento. Di qualunque cosa si trattasse, non aveva espresso i propri dubbi a nessuno. La confessione faceva bene all'anima, ma l'oscurità che si stava diffondendo in lui era così profonda che poteva confessarla solo a Dio. A volte, nelle prime ore del mattino, mentre aspettava che i raggi del sole filtrassero dalla finestra della camera, lo pregava affinché guidasse i suoi passi, ma fino a quel momento le sue preghiere non erano state esaudite.

    Continuava a prodigarsi senza risparmiarsi, fino a sentirsi esausto e prosciugato. Organizzava fiere di beneficenza, distribuiva pasti caldi ai senzatetto, dirigeva la parrocchia e dirimeva battibecchi tra le suore del convento. Chiamava gli operai per le riparazioni, diceva messa due volte la domenica, confessava i fedeli il sabato, univa coppie in matrimonio, impartiva l'estrema unzione ai moribondi, pregava per i defunti e consolava i malati all'ospedale.

    Però da qualche tempo gli sembrava di essere governato da un pilota automatico. Era stanco ed eseguiva i gesti senza riflettere sul loro significato più profondo, recitava le preghiere e seguiva i riti come un pappagallo, senza partecipazione. L'inverno era sceso sulla sua anima con il gelo e la desolazione, privandolo della gioia di cui non sapeva come riappropriarsi.

    Quando l'orologio sulla mensola del caminetto batté le quattro, si accorse di essersi appisolato. Sullo schermo c'era ancora John Wayne. Prese il telecomando e tolse il volume, irritato dagli spari e dalle grida.

    Si passò una mano sul volto e pensò che avrebbe fatto bene a stendersi per qualche minuto, per riposare prima che cominciasse la sua giornata. Si distese sul divano, che era troppo corto, tanto che fu costretto a piegare le ginocchia per farvi entrare i piedi. Si mise sotto la testa un orribile cuscino ricamato a punto croce che la signora O'Toole gli aveva regalato per Natale l'anno prima, poi con un sospiro chiuse gli occhi.

    Si svegliò quando la luce intensa del sole gli colpì la faccia e subito ebbe la certezza di aver dormito troppo, certezza che gli fu confermata dall'orologio sulla mensola.

    Spense il televisore, si lavò e si cambiò a tempo di record, buttò un pizzico di cibo per pesci nella vaschetta e attraversò di corsa il parcheggio, dirigendosi verso la chiesa.

    Quando entrò in sacrestia, trovò Melissa, la sua segretaria, che stava dando l'acqua alle piante canticchiando.

    «Buongiorno, padre» lo salutò in tono allegro.

    «'ngiorno» mugugnò lui, togliendosi la sciarpa di lana e i guanti. «Fa un freddo cane stamattina. Che c'è in programma per oggi?»

    Melissa consultò l'agenda. «Una giornata piena» commentò fissandolo da dietro le lenti spesse che le ingrandivano gli occhi grigi e la facevano assomigliare a un gufo. «Ha un appuntamento con Tia McCauley e Jeff Stuart alle nove e mezzo. Alle dieci e mezzo c'è una certa Sarah Connolly. Alle undici ha una riunione con il comitato parrocchiale, poi ha promesso a Patty O'Malley di andare a trovarla.»

    Clancy posò i guanti sulla scrivania e dalle sue labbra uscì un rantolo implorante. «Caffè...»

    Melissa annuì. «Mentre venivo qui ho anche comprato le ciambelle al cioccolato, quelle che piacciono a lei.»

    Clancy riuscì a fare il primo e forse unico sorriso della giornata. «Grazie» mormorò.

    Nei quattro anni da parroco che aveva trascorso con Melissa come segretaria, l'aveva vista crescere. Non era più una ragazzina superficiale e sventata. Ora era calma e posata, efficiente, leale, tenace e protettiva nei suoi confronti. Lo colmava di attenzioni materne, oltre ad avere una memoria di ferro, a tenere l'ufficio in ordine e a ricordare ogni particolare sui suoi parrocchiani, che altrimenti Clancy avrebbe scordato. Organizzava la sua vita con la precisione di un orologio svizzero e lui tollerava i suoi modi da chioccia solo perché era una collaboratrice preziosa e indispensabile.

    Sulla scrivania gli aveva fatto trovare, allineate con ordine militaresco, una tazza fumante di caffè, un sacchetto di ciambelle, una

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