Karuna, Inc
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Fantascienza - romanzo breve (93 pagine) - Riti voodoo e sette sataniche in una stupenda dark fantasy dall'autore di Spondulix
Karuna, Inc., che abbiamo tratto, come Spondulix e Lo stabilimento, dalla magnifica raccolta Strange Trades, è un romanzo breve in uno stile altamente drammatico, molto diverso da quello ironico, sbeffeggiante e divertente del solito Di Filippo. Non che manchi quel tocco di folle bizzarria che è il marchio di fabbrica dell’amico Paul, tutt’altro. Solo che stavolta l’autore ha incanalato la sua incredibile inventiva nella creazione di una storia tragica e intensa, dove i simpatici protagonisti tipici di Di Filippo si dovranno confrontare con le peggiori espressioni del male umano.
Thurman Swan, veterano della Guerra del Golfo, menomato nel fisico e nell’animo dalle brutture e dalle sofferenze del conflitto, e Shenda Moore, esuberante proprietaria della Karuna Koffeehouse, si troveranno invischiati in una battaglia senza esclusione di colpi per la sopravvivenza della caffetteria e per la loro vita. Nel mix dei vari e insoliti personaggi troveremo poi un cane dal colore di un canarino, una setta satanica di uomini d’affari dedicati alle più brutali forme di tortura, e una sacerdotessa della Santeria, specializzata in riti voodoo.
Non credo serva altro per allettare il lettore, a parte dichiarare che questa fantasiosa novella è senza ombra di dubbio una delle opere migliori e più riuscite di questo inclassificabile autore.
Paul Di Filippo è nato nel 1954 a Providence, Rhode Island, la città natale del mitico Howard Phillips Lovecraft. È noto per essere uno scrittore eclettico, originale e mai prevedibile. I suoi racconti spaziano in tutti i sottogeneri della fantascienza e dell’horror. Ha esordito con grande successo nel 1995 con La trilogia Steampunk, a cui hanno fatto seguito dieci romanzi – quasi tutti inediti nel nostro paese – e numerose raccolte di racconti.
Il romanzo Un anno nella città lineare, e il suo seguito Una principessa della città lineare, usciti nella collana Odissea Fantascienza Delos Digital, sono tra le massime espressioni della genialità di questo simpatico autore.
Nel 2005 si è poi impegnato nella stesura di testi per fumetti, realizzando la mini serie Beyond the Farthest Precinct illustrata da Jerry Ordway basata sulla serie Top 10 creata da Alan Moore per la America’s Best Comics. Esercita inoltre l’attività di critico letterario per le più importanti riviste americane di sf.
Nella collana Biblioteca di un sole Lontano abbiamo già presentato L’ultimo caso della Taccola, un’ucronia in cui Paul Di Filippo reimmagina a modo suo la vita del grande Franz Kafka, Lo stabilimento, che racconta la dura e cupa vita degli abitanti di un pianeta di frontiera, vagamente reminescente delle storie dei suoi antenati nelle fabbriche dell’ottocento americano, La valle felice alla fine del mondo, del 1997, che riprende la vita avventurosa e affascinante del grande scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del celeberrimo Il piccolo principe, e infine Spondulix, una satira piena di brio sull’economia capitalista.
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Anteprima del libro
Karuna, Inc - Paul Di Filippo
9788825410181
Imparò il dolore e la morte da un misero cane in agonia. Era stato investito e giaceva riverso a lato della strada, col torace schiacciato, dalla bocca gli usciva della bava insanguinata. Quando gli si chinò sopra, il cane lo guardò con occhi vitrei, che vedevano già l’altro mondo. Per capire cosa il cane stesse dicendo, gli mise la mano sulla sua coda tozza. – Chi ha ordinato questa tua morte? – chiese al cane. – Cosa hai fatto?
Philip K. Dick, Divina Invasione
1
Memorie del trentasettesimo
Forse avrebbe dovuto prendersi un cane.
Un cane – un animale domestico, un compagno fedele, qualcosa di cui occuparsi – avrebbe potuto essergli d’aiuto.
Ma d’altronde, poteva anche darsi di no. Era così difficile saperlo, prendere una decisione.
Considerando l’unicità della sua situazione. La particolarità dei suoi problemi. La sua quota superiore di sofferenza.
Aggiungere un qualsiasi fattore sconosciuto alla triste equazione della sua vita avrebbe potuto nasconderne la soluzione, rimuovendo per sempre ogni risposta al di là della suo potenziale di calcolo filosofico. (Ammesso che la sua vita… la vita di chiunque altro… fosse in qualche modo risolvibile.)
Ma come poteva saperlo con certezza, senza tentare?
E comunque, avrebbe osato tentare?
Per quanto quel dilemma potesse sembrare una sciocchezza, era un vero calvario, ma solo per lui, in apparenza.
Gli altri non sembravano avere simili problemi.
Ad esempio, pareva che nella vita di Thurman Swan tutti avessero un cane. Tutte le persone che frequentava ogni giorno al Karuna Koffeehouse. (Si sentiva strano a chiamarli amici
dopo una così breve conoscenza, anche se stava iniziando a sentirli un po’ come tali.) Shenda, Buddy, Chug’em, SinSin, Verity, Odd Vibe… erano tutti proprietari di cani, sia gli uomini che le donne. Cani grandi o piccoli, meticci o purosangue, tranquilli o allegri, riservati o esuberanti, arruffati o spazzolati, i loro cani erano di ogni genere. Ma c’era una cosa che tutti gli animali avevano in comune. Thurman l’aveva notato: erano inseparabili dai loro padroni, leali al di là di qualsiasi dubbio, e sembravano ripagare ogni attenzione ricevuta con una sorta di moneta psichica.
Chiamiamolo amore, in mancanza di una parola meno astratta.
A Thurman avrebbe fatto comodo averne un po’.
Poi quella squallida radiosveglia si accese, era solo uno stupido allarme che, inconsapevole dell’insonnia di Thurman, si era attivato inutilmente. Quel congegno era l’unico oggetto sul suo comodino. Un tempo c’era stata anche una foto di Kendra e Kyle, ma quando avevano smesso di arrivare le lettere e le chiamate, aveva riposto la fotografia dell’ex-moglie e del figlio dentro la sua valigia solitaria sullo scaffale più in alto dell’armadio.
Thurman era già sveglio da ore, tuttavia non aveva avuto la forza di alzarsi dal letto. Di questi tempi non dormiva molto. Non dopo la guerra.
La guerra, che aveva mantenuto così tanti misteri durante il suo breve corso, e cambiato così tanto… per lui, se non per nessun altro.
Cieli di fornace. Sabbia smaltata dal sangue. E nuvole viscide striate di nero…
Era in uno dei bunker stipati di munizioni e di fusti accatastati che costituivano quel labirinto fortificato che era stato conquistato a Kamisiyah, stava piazzando le cariche di esplosivo che avrebbero fatto crollare quel posto come una capanna di bambù in un tifone. Non indossava l’equipaggiamento protettivo, non pensava di averne bisogno. Su quello i suoi superiori non avevano di certo insistito. La luce del sole polverosa attraversava le fessure delle pareti come dita gigantesche. Il sudore gli colava dalla parte inferiore dell’imbottitura del casco. Bevve un sorso d’acqua dalla sua bottiglia da un litro in plastica, poi ritornò al lavoro. I suoi movimenti abili suscitarono echi spettrali dentro la cavernosa stanza di cemento, che era simile a un forno come calore e sensazioni.
Ma cosa stava cuocendo, di preciso?
Thurman era così intento nel delicato lavoro di cablaggio, che non notò l’ingresso dei visitatori.
– Specialista Swan.
Thurman saltò come un grillo.
Il maggiore Riggins era in piedi sull’entrata. Con lui c’era un civile.
I civili rendevano tutti nervosi, e Thurman non faceva eccezione. Ma in quella persona c’era qualcosa di più inquietante.
Magro come la sbarra della cella di una prigione e altrettanto rigido, indossava un costoso abito europeo fatto su misura, particolarmente fuori luogo in quello scenario desertico militarizzato: quella persona irradiava una fredda minaccia da rettile. La reminiscenza della postura e dell’aura da iguana rimpinzata di mosche, era rafforzata dalla testa rasata, la pelle glabra e pallida, e gli occhi sporgenti.
Il maggiore Riggins parlò. – Come può vedere, signor Durchfreude, la demolizione è calcolata per non lasciare proprio nulla di intatto.
Durchfreude entrò nella stanza e iniziò a passare una mano nodosa con affetto, come se fosse dispiaciuto, sopra le casse impilate di munizioni. Lo sguardo di Thurman seguì affascinato la mano sgradevole, ma curata: era come se fosse sostenuta da una corda invisibile. Notò per la prima volta quello che sembrava essere un marchio, stampato su molte delle casse, su fusti e bancali.
Era un insetto stilizzato. Una termite?
Il civile ritornò all’entrata. – Eccellente, – sibilò sprezzante, poi si girò e se ne andò.
Il maggiore Riggins ebbe la grazia di sembrare imbarazzato. – Può tornare al suo lavoro, Swan, – disse brusco.
Poi il suo comandante se ne andò, correndo dietro al civile come un cane al guinzaglio.
Thurman riprese il suo lavoro. Ma la concentrazione si rifiutò di ritornare.
E il giorno dopo, alle 14:05 del 4 marzo 1991, quando Thurman e i suoi compagni, membri del Trentasettesimo Battaglione Genieri si radunarono a una distanza sicura
dai bunker, con le videocamere in mano, furono inviati i segnali appropriati, liberando una forza che scosse la terra per chilometri e sollevò una sudicia nube tossica che finì col coprire migliaia di ettari circostanti, incluso, ovviamente, il loro accampamento. Thurman, osservando a disagio, pensò di vedere il volto del misterioso civile formarsi e dissolversi nelle oleose volute nere.
La radio sul comodino lanciò un annuncio pubblicitario. – Bevete Zingo! È de-li-zio-so!
Avrebbe gustato volentieri una bevanda. Non quello schifo di Zingo, ma un vero cappuccino al latte. Più latte che caffè, in effetti. Con mezzo bagel semplice, senza condimento. Lo stomaco di Thurman non avrebbe potuto sopportare di più.
Adesso, se solo si fosse potuto alzare…
Si alzò.
In bagno, Thurman sputò del muco sanguinolento nel lavandino – un’ostrica rosa sulla porcellana – stese l’unguento che gli era stato prescritto su tutte le sue eruzioni cutanee, prese due Tylenol extra-forti per il suo onnipresente mal di testa, si contò le costole, si pettinò i capelli e buttò nel gabinetto le ciocche rimaste sul pettine. In camera da letto si vestì con cautela, con una tuta comoda e scarpe da ginnastica slacciate, in modo da non stressare le articolazioni doloranti. Titubante, rassettò le coperte sudaticce sul letto. In fondo nessuno le avrebbe mai viste.
Nell’ingresso del suo piccolo appartamento, raccolse flaconi di pillole e inalatori, mettendoseli in tasca. Prese il suo bastone da passeggio in alluminio, col rinforzo per la schiena in gommapiuma agganciato, e si lasciò alle spalle le sue due stanze semi-arredate.
Lo aspettava un altro giorno di impegnativo far nulla. Una città per pensionati. Assistenza giornaliera agli adulti. Vita tranquilla su una panchina del parco.
Non era la peggior vita, per un vecchio malato.
Purtroppo Thurman aveva solo ventisette anni.
2
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– No!
Shenda Moore spezzò le catene del suo brutto sogno con un concreto sforzo di volontà. Non c’era nulla di involontario o accidentale nella sua fuga. Non si era aperta in modo automatico nessuna botola mentale a portata di mano, nessun gruppo di antichi neuroni guardiani in allarme aveva attivato un sottosistema brevettato di risveglio! No, era un modo di fare tutto di Shenda stessa. Il disimpegno dallo scenario terrificante, il rifiuto di partecipare al viaggio di paura del suo subconscio, la determinazione di abbandonare le artiglianti fantasie del sonno per la più grande illusione consenziente chiamata realtà… Era tutto attribuibile alla forza di carattere di Shenda.
Davvero, avrebbero detto tutti quelli che la conoscevano, è così tipico di quella ragazza!
A volte Shenda aveva desiderato di essere diversa. Non così determinata, così responsabile, così competente. Certo, per lo più era grata ogni minuto di ogni giorno a Titi Yaya per averla cresciuta in quel modo. A Shenda piaceva essere se stessa.
Ma per essere responsabile in ogni cosa c’era davvero tanto lavoro! Un elenco infinito di occupazioni faticose: sistemare pasticci, raddrizzare vite storte, costruire e riparare, puntellare, demolire, baciare meglio tutte le bue. Bacino sulla bua! E ora: smetti di piangere.
Ballando col Tarbaby,¹ Shenda lo chiamava così.
E non era concesso fermarsi.
Adesso in modo particolare – con Karuna, Inc. che