Lo stabilimento
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Anteprima del libro
Lo stabilimento - Paul Di Filippo
9788865308370
Introduzione dell'autore
Questa è la storia più autobiografica che abbia mai scritto. Molti dei miei parenti erano impiegati negli impianti tessili del New England, prima che la prosperità terminasse in seguito alla fuga delle industrie verso il sud degli Stati Uniti, dove le condizioni economiche erano più favorevoli, e alla concorrenza estera. Io stesso trascorsi un cospicuo numero di estati guadagnandomi i soldi per il college in quell’ambiente rumoroso, polveroso e pericoloso. Ma, come cerco di trasmettere in questo racconto, le vecchie comunità dei mulini, perlopiù già scomparse quando ho incontrato i loro scarsi superstiti, avevano una loro attrattiva, una sorta di sentimento cameratesco a maglie strette (scusate il gioco di parole) fra operai, molti dei quali lasciavano volentieri l’incertezza della vita rurale per il lavoro al chiuso e la certezza di un assegno costante.
La Rivoluzione Industriale, quindi in un certo senso la fantascienza stessa, fu guidata dal settore tessile e dalla spinta ad automatizzare gli antichi processi. Ma quell’epoca è ormai scomparsa. Il nostro mondo non vedrà mai più degli stabilimenti così onnicomprensivi.
Ma in futuro? Forse, forse.
Nella prima stesura, la vicenda terminava con la quarta sezione. Devo ringraziare l’editor Kim Mohan per avermi spinto a scrivere una conclusione davvero necessaria.
1
La polvere rossastra intorbidiva l’aria stagnante della valle attorno ai ragazzi che si arrampicavano fra il baccano, salendo e cadendo rapidamente come le loro urla concitate, fra nubi fini e scomposte che sbuffavano da sotto mani e piedi mentre scalavano impacciati la grande pila irregolare di mattoni rotti e scartati. Il suo odore secco, polveroso e cotto dal sole, familiare come il profumo del pane di grano di palude fatto in casa, riempiva le narici, mentre il pulviscolo vermiglio infarinava i semplici vestiti neri, penetrando nel tessuto e filtrando fino a coprire la pelle di una patina inevitabile; le madri dei giovani, quando li lavavano più tardi, esclamavano: – Giuro sull’anima immortale del Fattore, questa polvere di mattoni pare uscire da sotto la pelle. Non mi stupirebbe scoprire che non sei altro che un mattone umano!
Ma la vasca, riempita d’acqua scaldata nel bollitore, lo strofinio delle spugne marine color fumo e i blandi rimproveri materni sarebbero venuti più tardi; per ora non c’era da preoccuparsene. L’unico impulso era il folle, estatico spirito di competizione, che scorreva nelle loro vene come l’Impetuoso quando rompeva gli argini. I ragazzi sciamavano sopra e attorno all’enorme cumulo di mattoni, intenti alla gara disperata per raggiungere la cima. Le mani abbandonavano la presa per raggiungere i lembi della maglia di quelli che scattavano e strattonarli con gioia selvaggia. I giovani sembravano non accorgersi dell’impatto su ginocchia e avambracci degli angoli e spigoli dei blocchi di argilla spezzati, intenti solo a conseguire la gloria, repentina e insormontabile ma effimera, di ergersi sulla vetta del mucchio.
L’età dei partecipanti andava dai cinque ai dodici anni ancora da compiere. Non c’era differenza di trattamento fra piccoli e grandi, e i bambini di ogni età prendevano parte equamente alla ferocia reciproca della rocambolesca ascesa.
I mattoni dislocati ruzzolavano giù dalla pila con tonfi sonori, e a un certo punto sembrò che il mucchio sarebbe crollato prima che chiunque riuscisse a raggiungere la cima. L’istante successivo, invece, un ragazzo emerse fra gli altri, evitando le mani protese che cercavano di ghermirlo e negargli la vittoria. Piegato in due, quasi parallelo al crinale, artigliava i mattoni come un animale, utilizzando assieme mani e piedi chiusi negli stivali per raggiungere l’apice della collinetta. Il sudore aveva trasformato la polvere sul suo volto in una pasta rossastra.
Tutti i ragazzi parvero comprendere che la vittoria di quell’ultimo arrivato era ormai scontata, e che le loro possibilità erano state bruciate dall’improvviso scatto del giovane che si avvicinava alla cima. Invece di reagire con astio, si abbandonarono all’impulso naturale di incitare i vincitori leali, e le esclamazioni inarticolate della lotta furono sostituite da esortazioni e incoraggiamenti. – Vai, Cairncross! – Così, Charley! – Non possono fermarti, Charles!
Con il tifo dei compagni che gli risuonava nelle orecchie, il ragazzo raggiunse la cima.
Il cuore gli martellava e riusciva a malapena a vedere. La maglia bianca, intrisa di sudore, gli si appiccicava come la pelliccia di un lupo dal cappuccio. Temette di svenire, ma in qualche modo sapeva che non l’avrebbe fatto. Non era destino che il suo corpo, lo strumento della sua vittoria, rovinasse quel momento, dopotutto. Trovato un precario appoggio per i piedi, si erse in cima alla massa malferma, ansimante, graffiato, sudato, trionfante, e scorse con lo sguardo quelli sotto di lui, che avevano completamente cessato ogni movimento, come se avessero infine assunto la natura minerale dei mattoni con cui giocavano da tanto tempo.
Per la prima volta negli anni in cui aveva lottato in questo gioco brutale, vitale e insostituibile, aveva vinto. Aveva vinto. E il motivo non poteva che essere uno. L’indomani avrebbe compiuto dodici anni, e quando si compivano dodici anni si iniziava a lavorare allo Stabilimento. Non si giocava più coi mattoni. Era stata la sua ultima occasione di trovarsi lì, in quella posizione unica e privilegiata fra i compagni. E gli era stato concesso quell’onore. Per qualche intervento invisibile di Dio o del Fattore, un’energia e una determinazione mai provate gli avevano pervaso gli arti, spingendolo in cima, dove ora si ergeva con le ginocchia tremanti. Aveva vinto.
Per i vent’anni successivi quel momento sarebbe stato il culmine della sua vita, l’indescrivibile illuminazione che faceva da riassunto e misura dell’esistenza di Charley Cairncross. Né il primo bacio della sua amata, né l’encomio dei superiori; né la nascita dei suoi figli né le lodi del Fattore stesso avrebbero eguagliato la commozione di quel momento.
Spinto da una premonizione di ciò che quel momento significava, sotto l’impulso di forze che non era in grado di identificare né controllare, Charley, rischiando di ruzzolare e spaccarsi la testa, iniziò a ballare e saltellare, urlando e fischiando in una danza di folle incredulità in cima ai mattoni; le pesanti scarpe di cuoio non sembravano ostacolarlo, e ricordava i selvaggi del Polo Sud col volto ricoperto di pelo che festeggiavano sopra i nemici sconfitti. I ragazzi sotto di lui guardavano affascinati quel tipetto magro che mulinava braccia e gambe. Nessuno l’aveva mai fatto prima; erano stupefatti e allo stesso tempo colmi di rispetto.
Non si sa per quanto Charley avrebbe potuto continuare la sua danza della vittoria, se non fosse giunta l’ora di pranzo. Dalla distanza vennero i sonori rintocchi di una grande campana, ripresi in ogni angolo della Valle dalle sue remote cugine. Il batacchio di bronzo batté a più riprese, infrangendo lo stato visionario di Charley e l’incanto ipnotico del suo pubblico. Immediatamente i ragazzi iniziarono a scendere dal cumulo di macerie, cercando senza successo di ripulire i vestiti.
Charley, ripresosi dall’estasi, alzò lo sguardo verso il terso cielo estivo. Alcuni nibbi e gheppi di scogliera planavano pigri nelle profondità del cielo blu acquamarina. L’enorme sole azzurrognolo era allo zenit. Mezzogiorno, e doveva ancora recapitare il pranzo nonostante gli inusitati e magnifici eventi della mattinata. La routine dello Stabilimento e della Valle non si fermava neanche per eventi trascendentali, anzi: questi venivano del tutto ignorati.
Abbassando il baricentro in modo da non cadere, Charley scese a quattro zampe lungo la pila. Quando ebbe raggiunto il terreno, tutti gli altri erano già svaniti fra le case, non distanti da lì. Charley si affrettò dietro di loro.
La discarica di mattoni sorgeva nella periferia del villaggio, subito oltre le abitazioni più esterne. I ranghi ordinati delle capanne di mattoni, spezzati dai giardini, fiancheggiavano lo Stabilimento con precisione geometrica. Si raggruppavano in modo familiare, nonostante l’abbondanza di spazio aperto della Valle, come a formare un fronte unito contro i misteri del mondo circostante.
Per tradizione, i maestri muratori del villaggio di Charley avevano gettato per secoli i pezzi avanzati in quel