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Quando cade un angelo
Quando cade un angelo
Quando cade un angelo
E-book240 pagine3 ore

Quando cade un angelo

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Info su questo ebook

Thriller - romanzo (166 pagine) - La prima volta che l’aveva vista gli era andata di traverso la birra.
Così, uno sguardo, la tosse e via. Non poteva certo immaginare che sarebbe diventata sua amica, ci avrebbe fatto l’amore e sei mesi dopo l’avrebbe vista morta.


La morte di una ragazza, precipitata dall’alto di un’impalcatura, viene archiviata come incidente. Luca Pitagora, un amico, ricomincia a fare indagini nella cornice di una Milano decadente, nascosta e nera. Una storia tra rave, spacciatori, cocaina e borghesia della Milano da bere.


Lukha B. Kremo è autore di romanzi e racconti non solo di fantascienza. Ha diretto la rivista Avatär, vincendo tre Premi Italia. Ha pubblicato racconti su varie antologie tra le quali Supernova Express (2006, Fantanet), Frammenti di una rosa quantica (2008, Kipple) e Avanguardie Futuro Oscuro (2009, Kipple). Un suo racconto è uscito anche su Robot.

Ha pubblicato cd di musica elettronica con lo pseudonimo di Krell e organizzato il progetto Sonora Commedia.

Ha pubblicato i romanzi Il Grande Tritacarne (2005), Gli occhi dell’anti-Dio (2008), Trans-Human Express (2012) e, per Delos Digital, la Trilogia degli Inframondi e Korchin e l'odio. Con Pulphagus® - Fango dei cieli  ha vinto il premio Urania 2016.

LinguaItaliano
Data di uscita15 set 2020
ISBN9788825412987
Quando cade un angelo

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    Anteprima del libro

    Quando cade un angelo - Lukha B. Kremo

    9788825408348

    Questa è la storia di

    Betty tossica,

    un’eroinomane,

    la più bella che c’è.

    Prozac+

    1. Laura

    Sabato, 4 maggio 1996

    La prima volta che l’aveva vista gli era andata di traverso la birra.

    Così, uno sguardo, la tosse e via. Non poteva certo immaginare che sarebbe diventata sua amica, ci avrebbe fatto l’amore e sei mesi dopo l’avrebbe vista morta.

    Luca Pitagora aveva il gomito poggiato sul bancone di un pub sui Navigli. Era in compagnia di un tipo con uno strano accento che non la smetteva di parlare. Parlava, parlava e aveva l’alito che puzzava di alcool. Pitagora si concentrava sulle bollicine della birra e si annoiava, si annoiava a morte. Chissà cosa gli stava dicendo, forse era convinto di affrontare qualcosa di fondamentale, un nodo psicologico, o una questione sociale. Pitagora guardava le bollicine che lentamente salivano verso la schiuma. A un certo punto aveva dato una sorsata per vedere come si sarebbero comportate dopo lo sconquasso del sorso. Si diceva che solo le bollicine della Guinness andassero verso il basso. Ma forse sarebbe riuscito ugualmente nell’impresa se avesse bevuto la birra in un modo particolare…

    Insomma, tutte cose molto più interessanti del logorroico che gli stava davanti. Lei non mi risponde, si lamentava, sul lavoro non mi rispettano, la mia vita è un telefilm e blablabla, all’infinito, senza né capo né coda.

    Ma poi era entrata lei.

    Alta, magra, capelli azzurri. Orecchino al naso e pantaloni talmente stretti da disegnarle la muscolatura esile delle gambe. Non era una strafiga, ma quell’entrata come un matador nell’arena lo impressionò. Pitagora comprese che la serata non sarebbe finita lì, a parlare di niente con quel tizio.

    – Ma dai, dici davvero? – lo canzonò voltandosi verso la nuova entrata.

    Lui aveva smesso di parlare. Miracolo.

    La tipa aveva fatto due o tre falcate, voltando la testa a destra e a sinistra per vedere chi c’era. Poi aveva allungato lo sguardo verso di lui, come se lo conoscesse. Si sentiva a casa, e gli sorrise come se avesse detto una battuta sconcia.

    Lui, non se n’era ancora accorto, era già entrato tra le maglie della sua rete. Occhi neri e bocca grande. Impossibile non reagire a uno sguardo così pungente e un sorrisino così complice.

    – Mi presteresti una sigaretta? – aveva debuttato lui, lisciandosi il pizzetto. Era un modo per far colpo, ai tempi in cui si poteva fumare nei locali.

    Lei aveva riso e tirato fuori il pacchetto di Diana. – Poi me la ridai, eh?

    – Certo, e con gli interessi.

    Lei gli aveva mostrato la lingua. E di sfuggita Pitagora aveva notato un piercing, proprio nel mezzo.

    – Tipo?

    – Vino.

    – Andata – aveva siglato. Quindi aveva deciso che sarebbero diventati amici. – Io sono Laura, e tu? – aveva indagato alla fine, come se volesse a tutti i costi sapere chi era entrato in casa sua.

    Quella sera si erano sbronzati come si fa di solito il primo giorno di vacanza con l’amichetto di diciott’anni. Superalcolici fino a non riuscire più a parlare. Pitagora aveva presto svuotato il portafogli, ma Laura aveva continuato a ordinare addebitando sul suo conto.

    Avevano parlato di tutto, come nei film di serie B. Tranne che di se stessi. Che gente! Io i tipi così li porterei sull’Adda a distinguere i sassi maschi dai sassi femmine. La Terra ha bisogno di tipi come noi. Ma tu la sai rubare una macchina? Domani andiamo in Cecoslovacchia? e così via.

    Poi all’alba li avevano fermati gli sbirri.

    Pitagora si era ritrovato con il mal di testa a parlare con un agente. Forse, prima di farsi beccare, era riuscito a baciarla, ma siamo sul campo delle ipotesi.

    La settimana dopo si era reso conto che era entrata nella sua vita Laura, famosa tra i punkabbestia, conosciuta nei centri sociali, una che se l’erano passata in parecchi alla Statale, l’Università di Milano. Una tipa affascinante, vivace, sempre un po’ sfuggente, inafferrabile, sia da parte degli uomini che delle donne. Bella e maledetta; no, soltanto maledetta. Non si sapeva nemmeno se fosse di famiglia ricca o al contrario non avesse genitori. Viveva in giro, in case di altri, nelle stazioni, qualcuno diceva fosse figlia di un avvocato o un architetto importante, altri assicuravano di essere stati nella sua roulotte. Non era andata molto a scuola, la sua cultura era quella della strada, ma spesso si faceva portare al cinema o alle mostre; tutto ciò che si poteva scroccare, era per lei il benvenuto. Parlava malvolentieri di se stessa, della sua vita. Ma questo faceva parte del personaggio. Era il bello di Laura.

    Il brutto fu vederla qualche mese dopo, con il visino spiaccicato sul calcestruzzo della conceria, macchiato del suo sangue e dei pezzetti di materia cerebrale.

    E non le aveva ancora restituito la sigaretta.

    2. Da Genova a Milano

    Venerdì, 10 aprile 2009

    La lanterna, ritta come una guardia, illumina per un istante gli scorci di mare che la circondano. L’ascensore-gru lavora più delle vere gru del porto, porta su e giù turisti orgogliosi di esserlo. Il vascello di Pirati di Polanski con il suo kitsch sbeffeggia le strutture audaci di Renzo Piano, mentre l’acquario se ne sta sornione con il suo carico abissale.

    Genova è romantica, come tutte le città con un faro. Quella faccia un po’ così e i giorni tutti uguali non si sa, quello che è certo è che piove spesso ma asciuga in fretta, lo smog sale sulle valli e sembra sempre ci si possa nascondere da qualche parte. Pensare questo di Genova è normale per uno che ha trascorso la gioventù a Milano.

    Mollato il lavoro e venduta la casa, Luca Pitagora ha superato la crisi dei quarant’anni trasferendosi a Genova. Quando gli amici lo vengono a trovare lui risponde che la sua vita non è cambiata molto.

    – Non compro più il sale iodato – dice. – Lo iodio c’è già nell’aria.

    Milano non se la ricorda nemmeno tanto bene. Il quartiere Isola pieno di rasta, Brera e i cartomanti, il Duomo con i piccioni, la Fiera che non c’è più e al suo posto i grattacieli storti. Ci ha vissuto più di vent’anni ma ha i ricordi del turista di passaggio.

    O quasi. I Navigli. Ecco, sui Navigli ci ha passato metà della sua vita. E non ha la percezione superficiale di una sfilata di locali cari, pieni di studenti e turisti brilli che ascoltano scarse cover band. No, ha in mente la vita sotterranea di alcuni localacci storici, delle osterie, di certe strane gallerie d’arte, delle feste improvvisate sulla Darsena.

    La memoria è un fatto molto soggettivo. Lo dicono anche i neuropsichiatri. Non è una vecchia bobina da rispolverare e rivedere a piacimento. Ogni volta che cerchiamo di ricordare qualcosa ricostruiamo la scena. E ogni volta è diversa, ha qualche particolare in più, o in meno, o addirittura inventato. Certo, quando parliamo della nostra vita, nessuno ci contraddice, siamo gli unici testimoni, meglio: registi delle nostre memorie. Ma se cerchiamo di ricordare un film o un libro, quando poi andiamo a rivederlo, ci sono un sacco di differenze.

    Così Milano ha il Duomo, la moda e la nebbia e niente più. Ma Milano ha anche la vita vera che scorre nei festini anonimi, negli afterhour frequentati da transessuali e nei rave illegali.

    Così Laura è una tipa qualunque, soltanto una ragazza dal viso molto dolce, entrata nel vortice e sbattuta sul cemento dopo sei metri di volo. Una sconosciuta e un’amica.

    Pitagora non trova le parole. Qualcosa gli verrà in mente davanti a tutti quei curiosi accorsi alla Feltrinelli ad ascoltare le trovate dell’ultimo scrittore di turno.

    Ecco un altro che vuole parlare del suo fumoso passato, uno che dalle stalle è arrivato alle stelle, si è fatto da solo… ma chi vuoi prendere in giro? Non sei il primo che parla della Milano dei diseredati, e poi questi tossici degli anni ‘90 erano tutti figli di papà, e anche i leoncavallini, del resto. Come i modaioli di corso Como, uguale!

    Cerca d’immaginarsi tutte le obiezioni possibili. Perché gli ammiratori sono una cosa, ma alle presentazioni di libri ci vengono anche critici e giornalisti che non aspettano altro di massacrare l’autore, che si trova alla mercé dell’uditorio. E questa è decisamente un’altra cosa.

    E poi è scritto male, i personaggi sono di cartone, le storie banali. C’è poi sempre qualcuno che ha scritto lo stesso romanzo. Lo ha fatto prima e meglio. Infine le risatine superiori e magnanime dei critici segnano che un’altra vittima può essere aggiunta al loro taccuino che non ha mai fallito, fino a prova contraria. Cioè finché il botteghino non lo smentisce. E allora il vento cambia: Qui si respira l’aria di una Milano sotterranea, in fondo se c’erano giovani che rinunciavano alla famiglia facoltosa girando il mondo e vivendo di elemosina, un motivo ci deve pur essere. Questo libro è una testimonianza e blablabla.

    Manca ancora una settimana alla presentazione del libro, e i pensieri di Pitagora non sono tutti rivolti alla Feltrinelli. Sono affissi sui muri di questa città, ora che è tornato dopo cinque anni di assenza. Certo, Genova a volte fa paura, ma Milano inquieta, certe volte il giorno nasce senza cielo e si trascina immutabile fino al tardo pomeriggio. Sopra, niente. Qualcuno ha staccato il cielo come un adesivo e ha lasciato il bianco che c’era dietro. Tutto qui. Per questo non ce la fa nemmeno a piovere. Non ci sono le nuvole. Senza nuvole, Milano fa di tutto per sostituirle con quello che di buono esce dalle canne fumarie e dai tubi di scappamento, ma niente.

    E allora non si capisce più se si è innervositi per l’imminente appuntamento o perché sopra la testa non c’è il cielo.

    Pitagora si stiracchia e sghignazza da solo. Guarda l’orologio. È ospite di Amalia in un monolocale di ringhiera sui Navigli. Una casetta piccola ma accogliente, con tende arancioni che contrastano bene con le pareti azzurre creando un effetto alba. Lampade etniche e tappeti di bambù. Resterà qui fino al giorno della presentazione.

    Si alza e riguarda l’orologio. L’ha guardato pochi istanti prima, ma non si è concentrato sull’ora.

    Si affaccia alla finestra. Oltre la balaustra, Pitagora vede le tortore che svolazzano tra un tetto e l’altro. La ringhiera corre lungo tutto il palazzo, gira e raggiunge l’edificio di fronte. In mezzo, il patio è in stato d’abbandono. I condomini non si possono permettere un giardiniere e ciò che resta delle aiuole sono pozzanghere erbose. Perfette per allevare zanzare.

    Si osserva un po’ intorno.

    Amalia è già sveglia. C’è una tazzina di caffè con dentro un mozzicone di sigaretta e una confezione di Pavesini. Di fianco, un mazzo di tarocchi.

    Amalia legge le carte, pare sia brava. Pitagora non crede alle divinazioni. O meglio, non fa domande, non vuole conoscere il futuro. Se qualcuno gli legge le carte s’innervosisce. Tu farai questo, non dovrai fare quest’altro, fidati, non esagerare. Le solite cose, insomma. Quelle cose che chiunque definirebbe sagge. E allora perché non ascoltarle?

    Amalia esce dal bagno.

    – Ah, Luca, sei sveglio. Il caffè è lì, serviti pure.

    Mentre Pitagora armeggia con la moka lei si siede e stringe il mazzo di carte tra le mani.

    – Hai dormito bene? – gli chiede.

    – Così così. Non sono più abituato a Milano.

    Lei sorride: – Smettila, non dire scemenze. Si vede lontano un miglio che sei preoccupato per qualcosa.

    – No, – ribatte lui, – sono tranquillissimo, non ho nessun problema, il mio futuro è radioso. – Pitagora ha già intuito che lei gli vuole fare le carte, ma non ci sta. Almeno ci prova. Ma poi perché ostinarsi, se uno vuole non ci crede e allora, vediamo cosa dicono le carte.

    Amalia mescola il mazzo con un’abilità particolare, sembra che le carte le indossi sulle mani, proprio come un paio di guanti.

    – Fai una domanda, poi alza.

    – La presentazione. Come andrà la presentazione alla Feltrinelli? Be’, come andrà il libro in generale.

    Lei annuisce e gli fa tagliare il mazzo. Poi comincia a stendere.

    Il Diavolo. Un capretto cornuto dal ghigno malefico sovrasta orde di anime perdute.

    Pitagora sorride, ma lei gli fa segno di stare tranquillo. Le carte non contano singolarmente, ma come sono accoppiate, la sequenza, eccetera.

    Seconda uscita il Dieci di Denari. Terza la Torre. Una delle carte peggiori. Amalia è assorta. Non è un bell’inizio.

    – C’è qualche problema, inutile dirlo. Probabilmente una questione di soldi, o cose di valore. Vediamo perché.

    Seconda triade: Principe di Bastoni, l’Eremita, l’Appeso.

    – Porc…

    – Senti, Amalia, lasciamo perdere, eh? – fa Pitagora.

    – No, no, tranquillo. Questo sei tu – dice lei indicando la carta che rappresenta un uomo del colore del sole su un carro trainato da un leone, il Principe di Bastoni, – ma andiamo avanti.

    Pitagora si porta una mano davanti agli occhi, quasi non volesse vedere.

    Nove di Pentacoli, la Fortuna, la Dissolutezza.

    Il Matto, Asso di Spade, la Morte.

    – Basta, dai, molla il colpo.

    Amalia ride: – Che carte di m… ehm, scusa, vediamo un po’… Incontrerai qualcuno che non vedevi da tempo. Qualcuno che viene dal passato. Dal tuo passato. E non ti farà tanto piacere. – Fa una pausa, poi continua: – Non dico la persona, ma quello che va a scavare, il tuo passato scuro, qualcosa che ti ostini a sotterrare. Una brutta storia, di denaro sporco e sventura. Qualcosa che ha cambiato la tua vita. O avrebbe potuto cambiarla. Magari in peggio.

    – Senti, – la interrompe lui, – ma dove le vedi ‘ste cose?

    – Tu stammi a sentire, Luca. Sono sensitiva io, le carte le leggo a modo mio!

    – Insomma, – fa Pitagora con l’aria di chi la sa più lunga, – solo perché ti ho detto che ho scritto questo libro per chiudere con il passato, con Milano e tutto il resto, adesso mi devi dire queste cose?

    – Non io. Le carte.

    – Certo, le carte, e allora?

    – E allora, non chiudi niente se non fai i conti con il passato. E li devi fare bene. Ma tranquillo, – chiosa Amalia con aria di minaccia, – ci penserà qualcuno a farteli fare. Qualche vecchio amico…

    Pitagora rimane di ghiaccio, ma ad Amalia sembra passata la fase di trance: – Se vuoi le brioche sono nella dispensa.

    – Già. Ho bisogno di zuccheri.

    Pitagora azzanna una brioche, poi si volta verso l’amica: – Senti, oggi esco per un paio d’ore. Vado a trovare i miei ex colleghi. Poi stasera l’editore ha organizzato un rinfresco a casa sua per l’uscita del libro, vieni anche tu?

    – Stasera non posso, ho dei consulti a casa. Non so se farò in tempo. Comunque ti lascio le chiavi, immagino farai tardi.

    Pitagora alza le spalle. E in quel momento capisce che in soli cinque anni si è scrollato di dosso tutta la voglia mondana di Milano, sostituita da un carattere schivo, ligure. – No, voglio tornare presto…

    3. Il bambino invasato

    Venerdì, 4 ottobre 1996

    Mirko piagnucola. Ha la vocina querula e lo sguardo poco felice.

    – Ho fame. Voglio il panino – protesta. Il suo volto è rigato di lacrime, lo copre con le manine. La donna gli dice che no, è a dieta e del panino non se ne parla proprio. No, no e no.

    Lui piagnucola, lei è intransigente. Povero bambino indifeso, cattiva maestra autoritaria.

    Allora lui toglie le mani dal viso. Piange e ride, ha il ghigno strano di chi sta cambiando umore. Gli occhi rossi.

    – Voglio il panino! – grida e addenta la donna al polso. Lei chiede aiuto, ma lui non molla la presa, cerca di affondare le zanne nelle carni di lei. Poi le porta la mano alla gola. Comincia a stringere, spezzandole il respiro.

    Lui grugnisce, lei rantola. Lui ha gli occhi iniettati di sangue, lei è livida, quasi cianotica. Povera maestra indifesa, cattivo bambino invasato.

    Finalmente arriva qualcuno. Il bambino se ne accorge e si

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