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Spondulix
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E-book97 pagine1 ora

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Fantascienza - romanzo breve (69 pagine) - Una nuova brillante storia dall'eclettico autore di Providence che parla di… economica


Spondulix, che poi Di Filippo trasformò in romanzo, è una storia divertente e assurda che però sottintende implicazioni sociali e finanziarie non banali (è curioso che il tema sia di straordinaria attualità nel nostro paese).

In Spondulix, Rory Honeyman, venditore di sandwich di Hoboken, ha un cronico problema di liquidità e non riesce a pagare i fornitori e il suo unico dipendente, Nerfball. Senza Nerfball, il negozio Honeyman's Heroes andrà sicuramente a picco, perché un sandwich targato Nerfball è come un’opera d’arte che emerge dal suo rapido coltello, e una garanzia di fedeltà da parte dei clienti abituali.

Tra i momenti di angoscia per la fluida e pericolosa situazione economica, Honeyman, un ex campione olimpico che ha lavorato anche in un circo, ha un guizzo d’ispirazione. Decide di creare gli spondulix, una sorta di coupon del valore di uno più sandwich, da spendere nel suo negozio, utili anche a pagare l’impaziente Nerfball.

Questa strana moneta alternativa, nata sul capriccio di un momento di follia, comincia però a circolare pian piano tra gli amici di Nerfball e di Rory, un gruppo di scapestrati, e poi invece anche tra la gente più normale, con conseguenze devastanti per la vita e l’economia di Hoboken.

Spondulix dimostra ancora una volta la genialità di Paul Di Filippo. Nella sua assurdità (ma le vicende attuali mostrano che tanto assurdo non è) rimane una storia di grande umorismo, piena di personaggi insoliti e divertenti. Una galleria di esseri umani che riflettono il meglio e il peggio del nostro genere: da quelli che cercano disperatamente l’amore e una vita di gratificazione personale, anche a costo di mettere in gioco la propria sicurezza, a quelli che sono invece mossi dall’avidità e dalla falsità. Un’esplorazione simpatica ma a suo modo profonda della società umana.


Paul Di Filippo è nato nel 1954 a Providence, Rhode Island. È noto per essere uno scrittore eclettico, originale e mai prevedibile. I suoi racconti spaziano in tutti i sottogeneri della fantascienza. Ha esordito con grande successo nel 1995 con La trilogia Steampunk, a cui hanno fatto seguito nove romanzi – molti ancora inediti nel nostro paese – e nove raccolte di racconti. Il romanzo Un anno nella città lineare, uscito in Italia nella collana Odissea, è stato finalista ai maggiori primi del settore, e ha introdotto il Mondo Lineare, una delle sue creazioni più originali, un omaggio a grandi scrittori d’avventura come Edgar Rice Burroughs e Jack Vance, mondo al quale è tornato col recente La principessa della Giungla Lineare. Di Filippo esercita inoltre l’attività di critico letterario per le più importanti riviste americane di  sf. Nel 2005 si è poi impegnato nella stesura di testi per fumetti, realizzando la mini serie Beyond the Farthest Precinct illustrata da Jerry Ordway basata sulla serie Top 10 creata da Alan Moore per la America’s Best Comics.

Nella collana Biblioteca di un sole Lontano abbiamo già presentato L’ultimo caso della Taccola, un’ucronia in cui Paul Di Filippo reimmagina  a modo suo la vita del grande Franz Kafka, Lo stabilimento,che racconta  la dura e cupa vita degli abitanti di un pianeta di frontiera, vagamente reminescente delle storie dei suoi antenati nelle fabbriche dell’ottocento americano, e La valle felice alla fine del mondo, del 1997, che riprende la vita avventurosa e affascinante del grande scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del celeberrimo Il piccolo principe.

LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2019
ISBN9788825410181
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    Anteprima del libro

    Spondulix - Paul Di Filippo

    9788825408744

    1

    Gli Sbollati del Birrificio

    Honeyman Heroes, recitava l’insegna, sfoggiando la caricaturale illustrazione di un sandwich Dagwood Style: due fette dipinte di pane di segale separate da circa sei pollici di fantasia d’affettati, formaggi, lattuga, sottaceti, pomodori, crauti e peperoncini, straripante senape e maionese. Il nome dell’artista era scarabocchiato nell’angolo in basso a destra: Suki Netsuke. In basso a sinistra si vedeva la scritta: fondato nel 1978.

    L’insegna pendeva sopra la porta di un piccolo negozio di Washington Street, Hoboken, New Jersey. Era giugno, un lunedì vibrante e soleggiato, mezzogiorno. La porta del ristorante era serrata, sulla targa dietro al vetro si leggeva ancora chiuso, nonostante l’ora. Un’impronta digitale incisa nel Ketchup rappreso macchiava il cartellino.

    Washington Street fremeva di traffico, automobili, pedoni e ciclisti. Edifici dalle dimensioni modeste si allineavano su entrambi i lati del largo viale, file di negozi al piano terra, pile di appartamenti ai piani alti. Il fiume, ad oriente, emanava un odore appena accennato, che aleggiava sopra il tanfo dei tubi di scappamento e dei fast food. Lo stabilimento Maxwell House, laggiù, dove la dodicesima strada incontrava l’Hudson, diffondeva un odore pressoché onnipresente di caffè tostato, quasi fosse la Moka degli dèi. Chiacchiericcio ispanico, il fischio dei freni ad aria compressa, i tonfi degli scatoloni di cartone appena scaricati che toccano il marciapiede, tempestose strilla infantili, risse adolescenziali, sirene, musica. La piccola città era rumorosamente vivace.

    Lungo il marciapiede, a un isolato di distanza dal ristorante, un uomo camminava distrattamente. Aveva una barba folta e rossa, capelli un po’ troppo lunghi spuntavano da sotto al cappellino dei Mets. Indossava scarpe da tennis, jeans e una maglietta da baseball con scritto SPONSORED BY HONEYMAN HEROES sulla schiena. Era slanciato, più gracile che muscoloso. Vent’anni prima era stato un tuffatore di prim’ordine. Buona genetica e un appetito moderato, più che qualche estenuante programma d’allenamento, l’avevano aiutato a mantenere la sua corporatura giovanile.

    L’uomo sorpassò un lavasecco, una libreria, un bar, una drogheria, un fioraio. Teneva le mani nelle tasche dei jeans lasciando tintinnare una manciata di monetine; fischiettava una melodia informe.

    Raggiunto il fast food afferrò il pomello logoro, senza notare il cartello con scritto chiuso, e provò ad entrare. Poiché la porta non si mosse immediatamente, sembrò perplesso. Impiegò un momento a decidere che non si stava sbagliando. Guardò l’insegna e il sandwich gargantuesco che raffigurava, appesi lassù. Studiò il cartello e l’impronta digitale. Facendosi ombra con la mano sbirciò attraverso il vetro nell’oscurità all’interno del negozio. Se fosse stato in possesso di una patente di guida, verosimilmente l’avrebbe cercata nel portafoglio per esaminarla e confermare a se stesso di essere davvero Rory Honeyman, e che quello era il suo esercizio commerciale.

    Dopo essersi convinto che effettivamente quel tetro negozio era proprio il suo, e che fosse ancora chiuso a doppia mandata quando avrebbe dovuto essere aperto già da tempo in previsione della folla dell’ora di pranzo, Rory fece un passo indietro e mormorò solo due parole: – Maledetto Nerfball. – Quindi, con una piroetta, si allontanò lungo il marciapiede, pieno di rabbiosa determinazione.

    Honeyman camminò verso nord, seguendo Washington Street, finché non raggiunse la quattordicesima strada. L’odore di caffè cresceva sempre più, poi cominciò a indebolirsi. Alla quattordicesima svoltò ad est, verso il fiume. Il quartiere era ormai squallido, povero, trasandato. Edifici abbandonati si alternavano a bar molto più brutti (signorine benvenute), gli appartamenti mostravano vetri rotti e rattoppati con cartone e nastro adesivo. Fabbriche e magazzini cominciavano a predominare. Uno stabilimento per la lavorazione del pesce trasudava fetori marittimi. Un gatto svicolò speranzoso, uscendo dall’edificio. Honeyman sospettò di aver riconosciuto il Cardinal Ratzinger.

    Quella lunga strada che tagliava la città finalmente divenne un vicolo cieco, raggiungendo l’Hudson. Una rugginosa rete metallica la separava da una piatta distesa d’erba alta, costellata di copertoni abbandonati, buste di plastica, carrelli della spesa, e relitti d’automobile. Al di là del fiume che serpeggiava tronfio nel suo letto s’ergeva Manhattan in tutta la sua lurida gloria.

    Alla sinistra di Honeyman stava un edificio. Rory vi si era fermato di fronte, a riflettere, mentre la sicurezza di avere chiari propositi vacillava momentaneamente.

    Il problema: entrare o non entrare nella porta di fronte a lui. Se fosse entrato, avrebbe forse potuto trovare il suo impiegato scomparso, ed essere così in grado di aprire il negozio prima di perdere del tutto i guadagni della pausa pranzo. D’altra parte, era altrettanto possibile incontrare un qualche evento bizzarro ancora in corso che l’avrebbe trascinato, come un vortice, nel suo abbraccio centrifugo, finendo come un marinaio forzato ad imbarcarsi su una galea veneziana, o anche più antica, e a remare tra carne e voci, alcol e droga, trame e complotti, sprecando completamente tutto il pomeriggio. Forse il giorno intero. Una settimana. Un mese. Un anno. Il resto della sua vita? Chi poteva saperlo? Era successo in passato, ad altri… Ma non stava già sprecando la sua vita proprio in quel momento? Non aveva fatto proprio questo per vent’anni, da quel singolo giorno implosivo sotto il sole messicano, quando la sua vita era collassata, spinto dagli stimoli delle sue peculiari azioni impulsive lungo una serie di eventi eccezionale, infinitamente fitta, inesorabile, conclusasi con la perdita di tutto eccetto la sua persona? Zitto adesso, ragazzo, questa è una questione adatta alle tre di mattina, semmai, non a uno splendente pomeriggio di giugno…

    E così Honeyman contemplò l’edificio di fronte a lui ancora per un momento.

    Era una struttura di cinque piani d’altezza, tutta in mattoni di un rosso spento, invecchiati da più di un secolo di intemperie. La fila più alta di laterizi era arricchita di motivi decorativi, realizzati con ingegnosi sistemi ad incastro da maestri muratori: a spina di pesce, a intreccio diagonale, incrociati. Travi di rinforzo in rame, da tempo ossidate e di color verde, correvano parallele alle grondaie, sorprendentemente integre per essere parte di una struttura evidentemente abbandonata. Le finestre erano tutte dipinte di nero. Il complesso occupava da solo un grosso isolato.

    Ad un angolo dell’edificio, quello più vicino al fiume, s’innalzava un’enorme ciminiera quadrata, incoronata in cima da altre decorazioni in mattoni.

    C’era una porta proprio di fronte ad Honeyman, ma ad esser precisi le porte erano tre. La prima era alta quasi dodici metri e larga dieci; in effetti era un portone doppio con due ante ripiegabili. Era fatto di spesse assi un tempo dipinte di verde; ormai, tutte scrostate, rivelavano il legno nudo e scheggiato;

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