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Colonne d'Ercole. L'Ultimo Viaggio della Maschera di Ferro
Colonne d'Ercole. L'Ultimo Viaggio della Maschera di Ferro
Colonne d'Ercole. L'Ultimo Viaggio della Maschera di Ferro
E-book593 pagine8 ore

Colonne d'Ercole. L'Ultimo Viaggio della Maschera di Ferro

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Storico - romanzo (490 pagine) - Chi è davvero la Maschera di Ferro? Di quali pericolosi segreti è a conoscenza? Qualunque sia il suo mistero bisognerà oltrepassare le Colonne d’ Ercole per svelarlo.


Inverno del 1726, François Arouet (alias Voltaire) è ossessionato dal mistero del prigioniero con la Maschera di Ferro di cui ha sentito le urla nel suo ultimo soggiorno alla Bastiglia. La sua ostinazione lo spingerà a trovare alleati per poterlo liberare. Ma quel suo gesto innescherà una caccia all’uomo che costringerà lui, il prigioniero liberato e i suoi alleati a una lunga fuga dalla Francia all’Italia che si concluderà nell’Oceano Atlantico. Inseguiti da agenti del Re di Francia e del Papato, incontreranno avventurieri, briganti e pirati vivendo agguati, tradimenti e insperate alleanze fino a risolvere il mistero solo dopo aver superato le Colonne d’Ercole.


Pelagio D’Afro è un autore multiplo che ha pubblicato tre romanzi e una ventina di racconti sparsi in varie riviste e antologie (realizzate soprattutto con il laboratorio creativo “Carboneria Letteraria” di cui Pelagio è tra i fondatori).

Il suo primo romanzo, I ciccioni esplosivi (Montag, 2009, Il foglio letterario 2019), è il prequel de Le rane di Ko Samui (Pequod, 2003) del padre/cugino Paolo Agaraff, un altro scrittore collettivo.

A questo seguono il giallo d’epoca L’acqua tace (Italic Pequod, 2013), l’ebook a tema erotico Puttaniere blues (Lite Editions, 2014), l’antologia di racconti Pillole di cattiveria (Italic Pequod, 2015) e la curatela dell’antologia Alla periferia della Galassia Stanca (Homo Scrivens, 2017).

I pezzi che compongono Pelagio sono, in ordine alfabetico: Giuseppe D’Emilio, Arturo Fabra, Roberto Fogliardi e Alessandro Papini, questi ultimi due anche membri del collettivo Paolo Agaraff.

LinguaItaliano
Data di uscita23 giu 2020
ISBN9788825412642
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    Anteprima del libro

    Colonne d'Ercole. L'Ultimo Viaggio della Maschera di Ferro - Pelagio D'Afro

    Agaraff.

    Al divino mare,

    il negro legno

    Prologo

    Dicono che il canto degli aedi non svanisca mai del tutto, ma che continui a risuonare nel tempo, sotto le volte dei palazzi, lungo le strade, nelle piazze.

    In quel giorno, la melodia che giungeva dall’esterno assieme allo scricchiolare delle navi e ai rumori delle prime attività del porto aveva assunto la forma del chioccolare mattutino dei merli.

    Il principe indossò una tunica di lino, candida, corta al ginocchio, e uscì nel cortile dove si sciacquò il viso alla fontana. Nell’aria persisteva ancora un po’ del fresco della notte, ma il sole era già alto. S’incamminò per le vie della città, scegliendo con dimestichezza quelle dal pendio più agevole, diretto al mare.

    Suo padre era già lì, sulla piattaforma d’imbarco. Colto da un senso di premura, lo raggiunse con una corsa leggera che fece vibrare il pontile come se l’invisibile mano di Poseidone avesse preso a scuoterne i sostegni.

    – Padre – gli disse con un po’ d’affanno, – è dunque deciso?

    L’uomo tramutò il sorriso con cui l’aveva visto arrivare in una smorfia di dolore. – Sì, figlio, è deciso.

    – Speravo che la notte avesse cambiato i tuoi propositi – disse il giovane, – speravo che la regina…

    – Tua madre sa che è giusto così – lo interruppe l’altro. Alzò gli occhi e credette di vedere una figura avvolta da un velo scuro affacciata al più alto balcone del palazzo; poi li riabbassò su quelli del figlio e aggiunse: – E lo sai anche tu.

    – Pensavo che dopo essere stato lontano tutti questi anni… – Il giovane mormorò le parole con un certo stento, sentendo in bocca il sapore amaro delle cose dette e ridette.

    Il padre sorrise e gli portò una mano alla nuca. Il suo volto, pensò ancora una volta il principe, sembrava emanare una strana luce. La guerra e i viaggi l’avevano cambiato, ma quella luminosità sembrava non appartenere a quei mutamenti che avvengono nella vita di un uomo, neanche se si trattava di un uomo che aveva superato indenne battaglie e tempeste sotto l’influsso di divinità bizzose in lotta tra loro.

    Parte Prima

    (33°20’ Nord, 16°30’ Ovest)

    Non era il rosso del tramonto quello che squarciava il cielo ferito al largo di Madeira.

    Il sole, basso sull’orizzonte, traspariva appena dalla coltre uniforme di nubi, l’aria era di quel nero livido che, d’agosto, suole preannunciare burrasca, ma la luce non mancava: le fiamme si levavano alte dalla corvetta dalle vele blu. Solo l’albero di maestra era rimasto integro: gli altri due giacevano ridotti in schegge sul ponte.

    Il vascello, che fino a poco prima era stato capace di incutere terrore ai naviganti diretti alle Indie Occidentali, rivolgeva ora la sua prua alle profondità marine. Il leone ferito e moribondo era attorniato dai cadaveri delle iene, le piccole agili fregate che l’avevano distratto finché non era giunto il suo fiero antagonista, il Royale. Le vele del galeone erano ormai lontane, dirette verso il continente.

    L’uomo era aggrappato a due barili fissati con una cima a una polena lignea a forma di leone, la stessa che guarniva la prora del suo vascello prima che un’esplosione la facesse precipitare in mare. Con sguardo colmo d’odio e di rimpianto, il naufrago fissava le vele blu che s’inabissavano. Si issò meglio sui galleggianti e con una certa sorpresa si accorse del macabro trofeo che ancora stringeva in mano. Un ghigno salmastro si aprì sul volto dai tratti regolari, rigato dall’acqua che colava dai capelli scuri e ricci.

    Il ricordo corse agli ultimi momenti della battaglia.

    L’avversario, gigantesco, lo fronteggiava; era alto, dal petto ampio, muscoloso, i capelli scuri raccolti in un codino. Nel braccio destro mulinava con forza e perizia una sciabola e avanzava urlandogli i peggiori epiteti.

    Lui aveva risposto con uno dei gridi di battaglia che gli erano valsi il soprannome con cui era noto e temuto, El Rugiente, e gli si era scagliato contro, costringendolo a ridosso della murata con una serie di finte e affondi. L’avversario, il cacciatore di pirati, per una volta in vita sua aveva trovato un degno avversario.

    In quel momento, però, il pirata aveva udito un grido femminile e si era voltato appena in tempo per vedere una donna cadere in mare, colpita da una palla di moschetto. Era rimasto congelato, la spada sollevata, la guardia abbassata, permettendo all’arma dell’avversario di arrivare vicino alla gola. Solo i suoi riflessi l’avevano salvato, i riflessi di un animale perennemente braccato. La reazione era stata istintiva e risolutiva: aveva agguantato il braccio destro del cacciatore di pirati e con un unico fendente glielo aveva tranciato poco al di sopra del polso. Poi il crollo di uno degli alberi li aveva separati e lui era precipitato in mare, stringendo moncone e spada. Mentre si nascondeva tra i resti della battaglia che galleggiavano tra le onde, aveva visto gli uomini dell’avversario, i suoi cani, portare via il loro capo in una scialuppa. Il verme si muoveva ancora, anche se ne aveva asportato un pezzo.

    Il pirata dalla voce leonina portò una mano al collo per sentire sotto i polpastrelli la ferita, il sangue e una catenina con un pendente, che strinse con forza. Il suo sguardo si velò e corse verso una scarpa femminile che galleggiava non lontano dai due barili.

    – Michèle – sussurrò, e pensò di lasciarsi affondare in quel mare reso violaceo dall’incendio e dalle nubi. Poi il desiderio di vendetta prevalse, e prese a nuotare.

    Capitolo primo

    In cui si fa la conoscenza dei protagonisti e della Parigi di inizio Settecento

    Quella mattina l’abate Toulange percorreva serafico Rue Saint-Denis, borbottando tra sé e sé, com’era solito fare.

    – Che ore sono? – disse.

    Quella che per una persona normale sarebbe stata una semplice curiosità, dettata semmai dalla premura di arrivare puntuale a un incontro, per René Toulange diveniva il pretesto per fare un po’ di sana speculazione filosofica, il suo passatempo preferito.

    – È inutile porsi questa domanda –si rispose infatti qualche istante dopo. – Se il mondo appare così come si mostra ai nostri sensi e al nostro intelletto, non può essere diverso; dunque se mi sembra che siano le dieci saranno davvero le dieci del mattino. Altrimenti Dio, che ha creato il migliore dei mondi possibili, nella sua infinita bontà sarebbe imperfetto, e questo non può assolutamente postularsi…

    Le sue dotte elucubrazioni furono interrotte da un uomo lacero e lurido, privo di gambe, che si trascinava a forza di braccia su un carretto di legno sozzo e scorticato: gli si parò davanti, silenzioso, con la tranquilla minacciosità che caratterizza chi è in credito con la vita. Toulange si fermò sorridendo, tolse dalla tasca un borsellino di cuoio rosso e ne estrasse un luigi d’argento che donò allo storpio. Quindi riprese la sua strada parlottando.

    – Ciò che a noi sembra male non lo è nella mente di Dio, che non siamo in grado di sondare se non compiendo un atto di presunzione. Se il Signore ha fatto in modo che quest’uomo perdesse le gambe, una ragione c’è: insondabile per la nostra mente limitata, ma c’è.

    L’abate voltò in un piccolo budello tra le case, dove già dominava il fragore de Les Halles, e dopo pochi passi la turba caotica e vociante gli si mostrò dinanzi, come se tutta Parigi si fosse riversata lì in piazza.

    – Tutto ha una sua perfezione – proseguì tra sé e sé nell’avvicinarsi a un banco della frutta, –a volte impalpabile, a volte immediatamente percepibile come quella che è insita nelle mele mature. –Il fruttivendolo guardò sospettoso l’abate mentre questi, con fare rapito, soppesava e annusava una mela particolarmente rossa e profumata, ma si tranquillizzò quando Toulange, con un sorriso, mise mano al borsellino per pagargliela, augurandogli buona giornata.

    Facendosi largo tra la folla, l’abate girò attorno a Saint-Eustache e si soffermò ad ammirarne con soggezione le remote guglie e lo strapiombo della facciata che suggeriva l’ascesa al cielo; quindi, beato, continuò a percorrere gli stretti vicoli del Faubourg Saint-Honoré assaporando la succulenza di quel frutto non più proibito.

    Giunto dopo pochi passi a un trivio, si fermò a osservare per qualche minuto una gigantesca edicola raffigurante la Crocifissione; ammirando la maestria con la quale il pur ignoto pittore era riuscito a rendere la sofferenza di Cristo, continuò a mordicchiare la mela con commozione e gusto. Quando si accorse che del frutto era rimasto solo il torsolo, si chiese cosa avrebbe dovuto fare dell’avanzo del suo pasto: – Ciò di cui io non voglio nutrirmi –pensò, – perché il Signore ha voluto collocarmi tra gli uomini cui non manca il cibo, può nutrire quelli che Iddio, nel suo imperscrutabile disegno, ha voluto porre tra gli ultimi.

    – Tieni, bel puttino – disse quindi rivolgendosi a un moccioso scalzo e cencioso seduto sotto l’edicola e porgendogli il torsolo umidiccio, – e che buon pro ti faccia!

    Il ragazzino ci mise un attimo ad alzarsi di scatto per spingere a terra il religioso e meno tempo ancora per rivolgergli un gesto del dito medio, inevitabile retaggio della battaglia di Crécy. L’esterrefatto abate fece appena in tempo a seguirne la corsa prima che l’esuberante puttino scomparisse nel labirinto di vicoli.

    – Anche in quello che è appena accaduto c’è un senso – rimuginava Toulange mentre si rialzava da terra e superava la zona dei vicoli maleodoranti, – se lo negassi solo perché l’evento è stato spiacevole per me, i miei ragionamenti non sarebbero oggettivi.

    Dovette in compenso riconoscere l’oggettività del fatto che, in virtù dell’episodio, era potuto giungere sovrappensiero su un arioso viale e, più precisamente, dinanzi all’abitazione di colui che doveva incontrare.

    Nel salire i quattro gradini che elevavano l’ingresso della magione dal fondo stradale polveroso, l’abate avvertì qualche fitta sparsa tra anche e fondoschiena, segno che lo spintone del fanciullo gli sarebbe tornato alla mente nelle notti di maltempo.

    Impugnò il battente di bronzo a forma di Medusa e dovette picchiare più volte e con forza, prima che una servente scarmigliata e rossa in volto venisse ad aprirgli il portone. – Ah, siete voi… – lo salutò la giovane, che però si corresse quasi subito: – Siate il benvenuto, monsieur Arouet vi sta aspettando. Seguitemi pure.

    Mentre la giovane lo precedeva sulla scalinata che conduceva al piano superiore, l’abate non poté fare a meno di contemplarne le sode rotondità ancheggianti. – Lo spettacolo che mi si offre alla vista – pensò, – pur non potendo sciogliere il nodo di castità che mi lega, è comunque… – Ma non terminò quella nuova riflessione perché la servente si girò di scatto e lo apostrofò con un brusco: –Potete accomodarvi. – Atteggiando il dito indice in modo tale che, pur indicando un uscio dischiuso, valesse a sottintendere l’annosa formula di monito – Badate a voi! – Il gesto fu seguito da uno sguardo di divertita riprovazione sul quale l’abate decise di sorvolare.

    La stanza riceveva in pieno il sole del mattino; i tendaggi erano stati aperti, e così anche le cortine del letto a baldacchino.

    – Accomodatevi, amico mio.

    Il padrone di casa, un giovane sulla trentina, accolse l’abate con un leggero sorriso. Era disteso su un letto sfatto e aveva ancora indosso la veste notturna. Gli scuri occhi vivaci dardeggiavano dal volto ovale, incorniciato dai capelli castani. Si tirò a sedere sul bordo, guardò con un sorriso furbo la parrucca incipriata in bella mostra sulla testa di legno poggiata sulla toilette, poi fece penzolare i piedi in direzione delle pantofole. A quel punto, però, si bloccò come paralizzato e iniziò a tremare.

    Toulange si accostò al giovane uomo con sincera preoccupazione. – François, amico mio, che ti succede?

    L’altro chiuse gli occhi come se cercasse di dominarsi e gradualmente i tremiti cessarono. – Sto imparando – disse infine. Allo sguardo interrogativo del prete, l’uomo sul letto batté la mano su un punto accanto a sé, su cui l’altro si sedette in silenzio. – Sto imparando – spiegò Arouet – ad avere a che fare con questo mio nuovo corpo e questa mia nuova mente. Da quando sono tornato alla vita civile, talvolta l’uno e talvolta l’altra, se non entrambi, mi giocano strani scherzi, tirando fuori dallo scrigno del passato recente o remoto sensazioni e immagini che mi tengono in sospensione.

    Il giovane fece un profondo respiro e ridacchiò. – Sospensione – continuò. – Già, proprio come ora. Vedete, mi metto seduto sul bordo del letto e per un po’ resto così, sospeso. E i miei piedi, rispetto al pavimento, sono all’altezza esatta che avevano quando sedevo sul tavolaccio appeso alle catene, sul quale dormivo alla Bastiglia. – Scese dal letto e si accostò alla veste da camera azzurra e oro che riposava sulla sedia. Toulange, con delicatezza, lo aiutò a indossarla.

    Il giovane, che era di corporatura longilinea e asciutta e lo sopravanzava dell’intera testa, si girò verso di lui con un sorriso ironico: – Siete rimasto senza parole, posso ben capirlo. Anzi, senza tema di cadere nella trappola delle facili generalizzazioni, scommetto che è l’idea stessa di prigione a mettervi in crisi. Perché se, come usate dire voi, questo è il migliore dei mondi possibili, come mai abbiamo bisogno di una prigione?

    Toulange scosse la testa sollevando il mento per meglio fissare il volto dell’altro. – Amico mio, temo che abbiate frainteso il mio silenzio – disse spostando la sua figura dalla corporatura tarchiata, – stavo solo rivolgendo un pensiero di rammarico ai detenuti cui, come ben sapete, faccio visite periodiche. Per quanto invece riguarda la questione che avete sollevato –aggiunse, – la legge naturale e quella divina che risiedono nel cuore… – ma qui si rese conto che si stava invischiando nella benigna presa in giro del suo interlocutore e mutò il suo proposito: – Ma raccontatemi di voi, piuttosto, per le speculazioni ci sarà tempo.

    Monsieur Arouet gli fece strada nello studio. Sul tavolo centrale era stato deposto un vassoio con pane, formaggio, uova e vino; attorno stavano una poltrona e due sedie, con materiale da scrittura sparso qua e là; alla parete un alto scaffale conteneva pochi libri; in un angolo il camino annerito era spento.

    – Siate mio ospite, se gradite – disse indicando il desco.

    Toulange si sedette e versò il vino in due calici smerigliati; il liquido color rubino sparse i suoi riflessi sul volto dell’abate. – Un ottimo vino – commentò dopo un cauto assaggio; dopo una pausa, proseguì facendo cenno agli scaffali: – Dunque, vi hanno sottratto anche i vostri preziosi tomi.

    – Non è la parola scritta che va temuta – ribatté Arouet, – ma la mano che la scrive; e questo, purtroppo o per fortuna, non è sufficientemente chiaro ai potenti.

    Così dicendo, si sedette anche lui a dividere il pasto. Prese a mangiare con avidità mentre l’abate, a dispetto del suo fisico tozzo e massiccio, sbocconcellava frugalmente.

    – Finalmente possiamo parlare fuori da quella cella – riprese il giovane, dopo qualche minuto di silenzioso lavorio di masticazione. – Ho molto apprezzato il vostro interessamento e le vostre visite, ne ho ricevuto conforto.

    – L’impegno verso i bisognosi è la benedizione e la maledizione del servo di Dio.

    – Ho poche grazie da rendere a Dio e in genere ai suoi servi – rispose Arouet, la bocca atteggiata a un sorriso amaro. – Sapete bene qual è la mia considerazione nei confronti della religione e della Chiesa, eppure è stata l’amicizia che mi avete dimostrato in un momento di difficoltà, priva di ogni ansia di conversione spirituale, che mi ha persuaso a frequentarvi.

    – Quel che ho fatto per voi, con gran trasporto, l’ho fatto anche per altri – disse Toulange, –d’altronde è da diversi anni che sono uno dei sacerdoti confessori della Bastiglia.

    – A tal proposito, non ho mai avuto modo di chiedervene conferma: è vero ciò di cui si narra nella fortezza?

    – Una prigione è sempre luogo di leggende cupe e affascinanti, ma trattasi di leggende, appunto, e per loro natura spesso lontane dal vero.

    Monsieur Arouet gli afferrò la mano e disse con voce un po’ alterata: – No, amico mio! No! – Si alzò, unendo le mani dietro la schiena e facendo svolazzare la veste da camera mentre si avvicinava alla finestra; poi riprese: – Ciò che si ascolta durante le notti in quella fortezza, i gemiti, i lamenti, i rumori che nulla hanno di umano, tutto questo non può essere spiegato che con quanto mi è stato raccontato in entrambe le occasioni, la prima volta che venni recluso e quest’ultima.

    – E che cosa vi avrebbero raccontato? – Toulange vuotò il calice e lo rabboccò.

    – Nelle segrete della Bastiglia sono reclusi uomini, donne e fanciulli, tutti poveri e reietti, tutte persone del cui destino non interessa niente a nessuno.

    – Non sapete di cosa state parlando.

    – Oh, sì che lo so. Lo so io e lo sapete voi. È su costoro che il medico della Bastiglia sperimenta con libertà tecniche chirurgiche e nuove pozioni mediche.

    Toulange tracannò il contenuto del calice in un sorso e lo depose nervosamente. – Signore, non vi ascolto più – disse alzandosi dalla sedia, – anzi, credo sia ora di andarmene.

    – Perché vi ostinate a negare?

    – Ho già detto che non vi sto ascoltando. Vi saluto.

    – Allora forse vorrete ascoltare questo – disse il giovane quando il religioso stava già per varcare la soglia: – Vi siete accorto che un monello di strada vi ha sottratto il borsellino?

    Toulange ebbe come una scossa. – Cosa state dicendo?… Sì, è vero che mi sono scontrato con un monello, ma… – Si passò la mano sulla tasca posteriore e ne sentì con sorpresa il lembo penzolante.

    – Avete l’impronta chiara di una piccola mano popolana sul panciotto, e la tasca vi è stata recisa di netto. Di solito le mendicanti non hanno coltelli, i maschi sì; quindi siete stato vittima di un borseggiatore fanciullo.

    Toulange dovette fare uno sforzo per impedire al mondo di crollargli addosso, ma era un esercizio al quale aveva fatto l’abitudine.

    Pressappoco in quello stesso istante, in un altra zona di Parigi, un fanciullo stava correndo rasente ai muri. Faceva ciò che aveva visto fare da altri: aveva studiato le loro mosse e le loro tecniche, e oggi, per la prima volta, aveva trovato il coraggio e l’occasione per esibirsi nel suo colpo di destrezza.

    A giudicare da quanto poco fiato ancora aveva in corpo, ritenne di aver corso abbastanza; quindi si accoccolò dietro una balla di fieno e finalmente estrasse il suo tesoro: il borsellino del prete.

    Lo aprì con le mani sporche e screpolate, e lo scintillio delle monete tintinnanti gli mozzò il fiato. Era dunque questo che si provava, a essere ricchi.

    Inebriato dalla sensazione della vittoria, avvertì solo all’ultimo momento una presenza incombente: con la coda dell’occhio gli parve di vedere un artiglio che cercava di ghermirlo. Le sue gambe partirono da sole, assistite da giovani polmoni efficienti.

    Svoltò a tutta velocità verso un labirinto di vicoli, ma l’ombra restava alle sue calcagna. Un istinto atavico gli fece capire che c’era un solo rifugio sicuro, quello che faceva ribrezzo anche alle ombre: le fogne. Si diresse verso l’accesso più vicino al mondo del sottosuolo.

    – Dio dei ladri, se esisti, proteggimi – mormorò affannosamente il fanciullo, con il borsellino che gli sobbalzava stretto dentro la casacca. Aveva raggiunto un argine del fiume e stava correndo a perdifiato lungo la ripida sponda; sotto i suoi piedi una cascatella di sassi aguzzi gli graffiava la pelle.

    Sentiva i passi felpati e veloci del suo inseguitore. Che non fosse il prete era sicuro, lui era di quelli che non si accorgono di nulla. Forse si trattava di una guardia, ma di così ostinate non ne aveva mai viste. E poi quell’ombra era silenziosa: non intimava nulla, non minacciava, era sicura e inesorabile, proprio come le sue terrificanti rappresentazioni del Cimetière des Innocents.

    Era la morte, ne era certo.

    Il piccolo ladro individuò l’accesso alla fogna e, dopo aver preso un respiro profondo, scattò per avvicinarsi alle sbarre dell’ingresso al mondo del sottosuolo. Perfino la morte si sarebbe ritratta dal fiume puzzolente e nero dove nuotavano ratti grossi come cani. Superando il familiare ribrezzo, si passò addosso le mani dopo averle intinte nei liquami per poter scivolare meglio; quindi cercò di infilarsi tra le sbarre rugginose.

    Fu allora che due braccia forti lo sollevarono per poi inchiodarlo al suolo.

    – Ora sì che sei un vero topo di fogna – disse una voce sarcastica.

    Toulange, tornato a sedere al suo posto, scosse la testa sconsolato. – E pensare che gli avevo anche donato un torsolo di mela – disse. I due calici erano stati nuovamente riempiti e l’uomo di Chiesa allungò la mano per afferrare il suo.

    – Lo trovate tanto strano? – domandò Arouet alzando il suo, di calice, per suggerire un silenzioso brindisi.

    – Lo trovo triste – disse l’altro, rispondendo al gesto. – Perché replicare col furto a un atto di Misericordia?

    – Chiedetevi piuttosto questo: perché il monello avrebbe dovuto accontentarsi di una mela mangiucchiata quando avrebbe potuto avere un borsellino pieno di monete?

    – Mi piace credere che la bontà sia radicata in ognuno di noi, ovvero che ognuno sappia distinguere ciò che è bene da ciò che è male.

    – Infatti dovete ammettere che il monello ha avuto un certo discernimento – disse il padrone di casa bevendo un sorso; poi concluse il ragionamento: – Ha evidentemente agito bene, se a ciò vogliamo attribuire il significato di mettere in pratica ciò che è gli stato insegnato.

    – Non è così amico mio – disse Toulange, – la legge naturale e quella divina risiedono nel cuore…

    – Vedete, abate – lo interruppe l’altro, – voi ragionate per categorie assolute e così facendo mi costringete a riproporvi la questione che abbiamo lasciato in sospeso. Se fosse come voi sostenete, che bisogno avrebbe la società di prigioni?

    Toulange lo guardò con sospetto. – Non vorrete tornare sull’argomento?

    – Lasciatevi andare un attimo – disse Arouet appoggiando il bicchiere, – parliamone in amicizia, da persone ragionevoli quali siamo: io vi dirò cosa ho saputo sulla Bastiglia e poi voi mi direte ciò che ne sapete voi.

    – So solo che la libertà vi si addice troppo perché possiate metterla di nuovo a repentaglio.

    – Andiamo, non ne sto mica facendo un proclama, di voi mi fido ciecamente. Sto solo cercando di dare sfogo alla mia coscienza, che si ribella al pensiero di gente tenuta a marcire nelle segrete e torturata.

    – Ancora vi lasciate affabulare da codeste storie…

    L’altro piantò i pugni sul tavolo e lo fissò negli occhi. – No, amico mio, è tutto vero – sussurrò. – I reclusi di cui parlo esistono e hanno un nome: i Perduti.

    Toulange esalò un sospiro trattenuto troppo a lungo. – E anche se così fosse, cosa vorreste fare, mio giovane amico? Divulgare questa notizia con uno dei vostri libelli? E magari poi pagarne il fio, tornando alla Bastiglia, ad allargare le file dei suddetti?

    – Allora ammettete che esistono!

    – Per il Sangue di Cristo, François! – sbottò il religioso. – E va bene! ammettiamo pure che questi Perduti esistano! Che vorreste fare in tal caso? Liberarli tutti?

    – No. Mi basta liberarne uno: uno solo.

    Toulange trattenne il fiato, temendo il nome che sarebbe stato pronunciato.

    – La Maschera di Ferro – disse l’altro, trionfante.

    Capitolo secondo

    In cui si ha un primo scorcio delle figure degli antagonisti

    Di tutte le stanze del suo appartamento di città, quella da letto era la più rappresentativa dei vezzi del marchese d’Abeteur: per suo preciso desiderio, l’allestimento era stato studiato affinché all’interno di essa la luce risultasse sempre dorata, quale che fosse quella esterna.

    In quel preciso momento, quindi, grazie a un mirabile gioco di specchi e lampade, una cascata d’oro bagnava il corpo della donna che gli dormiva accanto, impreziosendone ancor più la bellezza. Il marchese le fece scivolare il lenzuolo di dosso, delicatamente, scoprendo le onde corvine dei capelli che si infrangevano sulla schiena e riempiendosi lo sguardo delle sue curve muliebri. Si sporse a baciarle il collo e ne aspirò ancora il profumo.

    La giovane emise un lieve sospiro, poi si girò per riconquistare il lenzuolo con evidente disappunto del marchese.

    – Potevo sentire il vostro sguardo su di me, Charles – disse, – come quando valutate i garretti di un puledro.

    Il marchese ridacchiò: – E lo ritenete disdicevole? Non avete forse ammesso di avere un bel didietro?

    – Così pare – ribatté la donna, – me lo dicono sempre tutti.

    – Ma certo che è vero, mia divina: il punto è che voi siete un bel didietro. – Il marchese si alzò dal letto dirigendosi verso il catino. – Non si tratta di avere ma di essere. – Si spruzzò in faccia dell’acqua profumata gelata per poi tergersi con una preziosa tovaglia di lino, proseguendo: – Io possiedo tenute, case, bestiame, navi, ma a nulla servirebbero se io non fossi ciò che sono: un nobile.

    – Mi sento troppo pigra per seguire i vostri ragionamenti – sbadigliò la giovane rigirandosi mollemente nel letto.

    Il marchese proseguì la toletta indossando i propri indumenti; aveva scelto una tenuta in toni di verde che ben si adattava alla sua statura non alta ma compensata da una corporatura robusta e tonica. – Avete ragione, mia adorata. Non varrebbe comunque a nulla spingervi a riflettere oltre: finché siamo distesi su quel letto siamo amanti; fuori da esso ci separano abissi di sangue, potere e, soprattutto, censo. E non fatevi ingannare dal fatto che sono perfino disposto a rivestirmi da solo, senza l’aiuto vostro o di un valletto. I nostri natali…

    Il cuscino lo colpì in pieno volto, spezzando la frase.

    – Come desiderate, tacerò – disse il Marchese, sputacchiando piume. – Invero, mi piacerebbe raccogliere la provocazione e dare inizio ad altre schermaglie, ma gli affari mi chiamano altrove. –Ripose il cuscino sul letto, soffermandosi a fissare un volto affascinante che provava a ripiombare nel sonno. La curva delle labbra, le lunghe ciglia, il naso che fremeva nel respiro…

    Le baciò la spalla nuda e uscì sospirando.

    La giovane continuò a fingere di dormire per tutto il tempo in cui i passi risuonarono per le scale. Un rumore secco indicò che il marchese si era chiuso il portone alle spalle e fu allora che lei si alzò, rapida e flessuosa, rivestita solo di luce dorata.

    Si accostò allo scrittoio situato in un angolo della stanza e prese posto sulla sedia del marchese, ammirando i fregi floreali sbalzati su una cornice decorativa della scrivania; quindi schiacciò in sequenza una rosa, un giglio, un tulipano, e attese.

    Si udì uno scatto al quale seguì il lieve scorrimento di una parte della cornice; la giovane la tirò verso di sé, scoprendo un cassettino foderato in velluto dentro il quale riposava una chiave di ferro dalla foggia squadrata; la prese delicatamente e se la strinse al seno chiudendo gli occhi per qualche secondo, quindi uscì silenziosa dalla camera gustandosi il freddo del pavimento sotto i piedi nudi ed entrò nella stanza di ricevimento, dove invece regnava una luce soffusa, e si fermò davanti a un dipinto rappresentante un duello: due uomini, in camicia, si fronteggiavano con la spada snudata, sotto lo sguardo di un pubblico attento e morbosamente affascinato dallo scontro; lo osservò per qualche secondo, poi lo sollevò rivelando un piccolo sportello in metallo borchiato. Inserì la chiave per aprirlo, poi infilò la mano destra nel vano e ne estrasse un rotolo di documenti; richiuse la cassaforte e ripose il quadro proprio quando dal basso giunse lo scatto del portone che veniva aperto.

    Tornò in camera e si lanciò sul letto, regolarizzando subito il respiro.

    La porta subito dopo si aprì e una servente dalla pelle nera fece capolino tossicchiando.

    – Che c’è? – disse la giovane alzandosi e gettando via le lenzuola. – Non vedi l’ora che ti lasci da sola in casa, così potrai fare incetta di cibo e bevande? – La cameriera percorse con gli occhi il suo corpo nudo, mentre lei le rivolse uno sguardo ferino. – Oppure preferiresti farmi compagnia?

    La serva sgranò gli occhi, emise uno sbuffo e uscì sbattendo platealmente la porta.

    – Insolente! – le gridò dietro lei, quindi si rivestì velocemente nascondendo nel corpetto i documenti sottratti; aprì la porta e chiamò seccamente la cameriera, che accorse trafelata. L’amante del marchese le accarezzò il viso con ostentata voluttà e le porse un fiore. – Questa è una rosa, nera come te; consegnala al tuo padrone con i miei omaggi. Non dimenticartene, altrimenti… – L’unghia della sua mano bianchissima affondò nella guancia color cuoio quel tanto che bastava a provocare un leggero dolore.

    Gli occhi della cameriera si accesero di rabbia.

    Ma la giovane era già uscita.

    Appena giunta in strada, la carrozza le fu accanto. Era quella che usava in città, leggera e con un solo cavallo; il cocchiere sembrava sproporzionato, grande e massiccio come una quercia, con il viso che pareva sbozzato, più che scolpito, nel legno stesso. L’ombra della falda della tuba rendeva la sua figura ancora più cupa.

    – Eccoti, Lazzaro – disse la giovane donna. – Come al solito sprizzi entusiasmo nel vedermi.

    – Giacinta – rispose semplicemente l’uomo. Dal tono non era chiaro se fosse un saluto o chissà cos’altro.

    – Togliti quell’aria di rimprovero dalla faccia.

    Lazzaro non rispose, aprì lo sportello e attese, fissando le orecchie del cavallo.

    Giacinta salì, la porta fu richiusa e, in men che non si dica, le redini schioccarono e il cavallo partì al galoppo.

    Lazzaro, sicuro e spavaldo alla guida, incitò il fiero animale al tiro. Sapeva che la sua passeggera si divertiva molto quando la carrozza correva velocemente. Nelle Fiandre aveva condotto carri di artiglieria sotto il fuoco nemico con noncuranza e sicurezza, figuriamoci se temeva il traffico cittadino. Era compito dei passanti sottrarsi agli zoccoli e alle ruote rivestite di metallo, e la lunga frusta, come soleva dire spesso, non serviva solo per incitare il cavallo.

    Percorsero l’itinerario lasciandosi dietro una scia di maledizioni finché non giunsero in vista della destinazione.

    – Siamo arrivati – disse Lazzaro dopo aver fermato la carrozza.

    Giacinta mise fuori la testa.

    Notre Dame si stagliava maestosa dinanzi a lei. Il debole sole di fine ottobre si lasciava a tratti coprire dalle nuvole mentre il vento suscitava strani sibili tra i rami ormai spogli degli alberi. La luce cangiante animava le figure mostruose della facciata e, per un attimo, mentre scendeva dalla carrozza per dirigersi sicura verso l’entrata, le sembrò che quegli esseri grotteschi bisbigliassero di lei.

    La strana sensazione la rese baldanzosa, entrò con passo deciso nella chiesa deserta e andò a inginocchiarsi a un confessionale. Lo sportellino si aprì.

    – Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo… – iniziò lei.

    Una voce roca la fermò. – Il segno della croce va fatto all’ingresso in chiesa. Sempre.

    – Mi perdoni, padre, ho già molto peccato, un segno in più o in meno non potrà aggravare la mia situazione.

    Il confessore sospirò. – Quando si entra in casa d’altri si saluta il padrone, se non altro per educazione. Comunque, a coloro che operano per il bene della Chiesa…

    Giacinta lo interruppe in modo secco: – Diamoci un taglio, d’accordo?

    – … ogni peccato verrà perdonato – concluse il confessore, alzando leggermente il tono. – E dunque? – chiese.

    Giacinta si schiarì la voce. – Ho peccato, padre, perché mi sono carnalmente congiunta con un uomo sposato, e non per amore.

    – Vai avanti.

    – L’ho fatto perché egli custodiva qualcosa che desideravo possedere.

    – Capisco.

    – Ora però quello che ho sottratto mi pesa sulla coscienza.

    – E come vorresti liberartene?

    – Voi cosa suggerireste?

    – Consegna il tuo peso alla Madre Chiesa e il perdono scenderà su di te ad alleggerirti.

    Giacinta estrasse il rotolo dal corpetto e lo tese verso il confessore che lo prese con la mano sinistra.

    Ci fu un attimo di silenzio, rotto solo dal rumore delle pagine che venivano slegate e sfogliate.

    – Questo tuo amante non è un buon servitore del Re, figliola, lo sapevi?

    – Ne avevo il sospetto, padre, ma ora che tutto è nelle vostre mani so che ogni cosa volgerà per il meglio.

    – A lode e gloria della Santa Chiesa Cattolica.

    Un rumore di passi accompagnato da un sommesso frignare e da colpi di tosse indicò che qualche diseredato aveva fatto il suo ingresso nella chiesa.

    Ego te absolvo… – iniziò il confessore.

    – Sì, sì… – tagliò corto Giacinta, alzandosi e andando verso l’uscita mentre un’esile e sudicia donna con in braccio un infante altrettanto sudicio prendeva il suo posto al confessionale.

    – Si torna a casa – disse Giacinta risalendo in carrozza. Stavolta Lazzaro si concesse un lento trotto, anche perché il vento era tagliente, ed egli non aveva alcuna intenzione di raggelarsi a cassetta.

    Complice il sedile di velluto e il dondolio del viaggio, Giacinta si assopì rimuginando la frase che aveva pronunciato: – … a casa… – Quale casa? Ne aveva avute tante, ma erano solo rifugi, non case, e solo nel suo intimo sapeva quanto gliene mancasse una vera. Anche questa di Parigi non era diversa dalle altre: un negozio di rigattiere dove Lazzaro riparava e rivendeva quel che poteva, circondato da vicini altrettanto disgraziati ai quali poco interessava se i due fossero fratelli, cugini, zio e nipote o solo amanti; non poteva che essere definita un’abitazione.

    Ma l’aveva mai avuta una casa, lei?

    Era sicura di sì, ma il ricordo si perdeva al confine dell’infanzia, quando la mente è ancora così sprovveduta da non saper fare tesoro dei momenti più belli.

    E, assopendosi, le riaffiorarono le sensazioni di un profumo, d'un abbraccio, di un luogo dove sentirsi al sicuro, tenui fantasmi che non riusciva a richiamare nitidamente alla memoria: un muro grigio si frapponeva tra il presente e il passato, un muro che puzzava dell’odore acre e dolciastro della carne che brucia.

    Nella cattedrale di Notre Dame, intanto, il priore e un diacono percorrevano lentamente la navata centrale.

    – Buona donna, è ancora presto per la messa – osservò il diacono, rivolto alla madre cenciosa con in braccio il suo bambino.

    – Sto pregando per l’assoluzione ricevuta in confessione – rispose lei abbassando lo sguardo.

    I due chierici si guardarono interdetti: non risultava loro alcun confessore presente in chiesa e quindi, mentre il diacono si dirigeva verso la cassetta delle offerte temendone lo scasso, il priore si precipitò verso il confessionale. Non fece in tempo ad arrivarvi che ne uscì un prelato di corporatura atletica la cui veste color porpora e il crocefisso d’oro al centro del petto lo fecero sobbalzare.

    – Vostra eminenza… cardinale Coscia… – Il priore si inginocchiò a baciare l’anello cardinalizio alla mano destra dell’uomo e disse a testa china: – È un onore che la vostra eminenza si soffermi qui da noi a confessare…

    – Sono ministro della misericordia di Dio come voi – disse Coscia con tono paterno, e si diresse verso la sacrestia accarezzando sotto la veste i documenti ricevuti in confessione.

    Capitolo terzo

    In cui si parla di un’amicizia e della storia di un’ossessione

    Il silenzio calato all’improvviso nello studio era di quelli che durano a lungo: stagnante, come una bolla d’aria densa creatasi per effetto di un’esplosione o come sottoprodotto di una combinazione chimica. I due reagenti in questione, tuttavia, vale a dire il padrone di casa monsieur Arouet e il reverendo abate Toulange, non mostravano in alcun modo di volersi combinare tra loro e se ne restavano l’uno di fronte all’altro.

    Come prima o poi accade nelle situazioni interlocutorie, il delicato equilibrio delle pressioni in gioco fu rotto: se ne fece carico Toulange, anche perché Arouet, da come se ne stava trincerato dietro a un mezzo sorriso, pareva godersi un mondo l’attesa di una replica.

    – Amico mio – disse l’uomo di Chiesa, – tornate a più miti consigli. È da quando vi conosco che avete questa passione morbosa per la Maschera di Ferro.

    – Sì, ma questa volta sono riuscito a ottenere informazioni ben precise: ora so dove trovarlo.

    – Il problema non è mai stato dove trovarlo: come, semmai.

    L’altro puntò il dito contro l’amico. – Dunque ammettete che non è una leggenda.

    Toulange sospirò. – No, non lo è; perfino io l’ho intravisto, anche se una sola volta, con il viso coperto di ferro brunito, scortato da ben quattro armigeri.

    – E allora sia! Io lo libererò, e voi mi aiuterete.

    – Ma per quale motivo, in nome dei Patriarchi? Cosa vi lega a lui?

    Arouet aprì braccia e mani come per avvolgere il mondo intero e disse: – Solo chi ha patito i ferri sa cosa vuol dire il desiderio di libertà. Quale ragione può esserci di più forte e autentica?

    – La ragione della sopravvivenza – sbottò Toulange, – la quale non darei affatto per scontata se voleste tornare là dentro. E chi vi assicura, poi, che la Maschera di Ferro sia una sola persona? Chi può sapere se la maschera non venga applicata a un nuovo prigioniero, dopo la morte del predecessore? In tutta sincerità, ho intenzione di tenermi fuori da questa vostra follia. Anzi –aggiunse, alzandosi e sistemandosi gli indumenti come per uscire, – statene fuori anche voi.

    – Ora sì che dirò qualcosa di folle: io sono convinto, capite? convinto che dobbiamo liberare quel prigioniero, e so anche che voi mi aiuterete, perché questo è il nostro destino. Troppi segni indicano la via.

    Da buon credente, per via della convinzione che le umane vicende finiscano per rientrare in un disegno superiore, alla parola destino Toulange impallidì. – Non vi seguo più, amico mio – disse, –né ho intenzione di farlo. Perché, piuttosto, non accettate l’invito di madame Sully a raggiungerla nella sua tenuta di campagna? Qualche passeggiata fuori dall’aria di Parigi vi farà riflettere con serenità e vi farà capire quanto tutto ciò sia privo di senso. François – concluse tendendogli la mano, – promettetemi di non fare sciocchezze.

    Arouet gli strinse la destra, serissimo in volto. – Mai senza la vostra approvazione – rispose. –Ma ora andate pure – concluse, – ne riparleremo presto, lo sento, lo so.

    L’abate si voltò e uscì con la tasca recisa a penzoloni.

    Lo stato d’animo ottimistico e fiducioso con il quale Toulange aveva iniziato la giornata si era incrinato, anche se egli non l’avrebbe mai ammesso, nemmeno a se stesso.

    Era stata sua intenzione portare conforto e buon consiglio a un amico, ma tutto quello che aveva ottenuto in cambio erano preoccupazioni sullo stato di salute mentale di François.

    Per non parlare poi del fatto che era stato perfino derubato.

    – No – si disse, – dev’essere andata così: la tasca s’è impigliata e il borsellino è caduto, e se qualcuno l’avrà raccolto spero sia stata una persona bisognosa. – Il pensiero gli piacque, anche se non lo convinceva appieno. – In effetti è legittimo sospettare che anche chi ruba sia bisognoso. D’altra parte, rubare…

    Un campanile suonò il mezzogiorno, turbando uno stormo di corvi che s’involarono gracchiando. Quel suono sgradevole fu in qualche modo una risposta negativa alle domande dell’abate: quegli uccelli ridevano di lui e delle sue insulse auto giustificazioni.

    Stava percorrendo a ritroso la strada che al mattino l’aveva condotto fin lì, quando si sentì apostrofare.

    – Ehm… padre…

    Era il ragazzino che l’aveva spintonato e insultato.

    – Che vuoi? – rispose Toulange con tono tutt’altro che ecclesiastico.

    – Ecco… – Il piccolo sembrava timoroso mentre gli tendeva il borsellino. L’abate lo guardò quasi esitante mentre si sentiva pervadere da una consolante sensazione di calore. – Padre, voi oggi mi avete offerto una mela – disse il fanciullo, – e io ho trovato per terra il vostro borsellino! Eccolo, prendetelo! – insisté, come aspettandosi un rifiuto.

    Toulange ammutolì e lo prese. Quindi lo aprì, scelse una moneta e la pose nella mano del piccolo. – Grazie, giovane amico – gli disse con tono commosso, – tu sei un vero segno di Dio, grazie, grazie…

    Il ragazzino strinse la moneta, fece un rapido cenno col capo e scomparve nell’intrico dei vicoli.

    Toulange rimise al sicuro il borsellino, stavolta in una tasca interna del panciotto, alzò gli occhi al cielo e benedisse l’Altissimo che aveva dimostrato ancora una volta la perfezione del creato.

    – Ehiehiehi! – Il ragazzino fu di nuovo bloccato da quella stretta ferrea.

    – Dove corri, topo di fogna?

    Il ragazzo puntò gli occhi bassi sul braccio che lo teneva, fissi su quella strana voglia a forma di stella che aveva visto già all’ingresso della cloaca. – Il prete mi ha dato una moneta – disse aprendo la mano, – prendetela voi.

    – È tua, fanne ciò che vuoi, ma in futuro ricordati di lasciar stare quell’uomo, anche se è un prete: è sotto la mia protezione; e diffondi la voce ai tuoi compari, se non vuoi incontrarmi ancora.

    – Così sarà, signore – confermò il ragazzino, e finalmente alzò lo sguardo.

    Ma l’altro era già scomparso.

    Dopo aver percorso un breve tratto di strada, Toulange si riparò nell’androne di una casa per trasferire il borsellino dalla tasca del panciotto alle mutande. Anche se la Divina Benevolenza s’era palesata, non voleva tentare oltre il Padre Eterno.

    Uscito che fu, si trovò in mezzo a una disputa tra due donne molto giovani: una accusava l’altra di averle sottratto l’amore di un uomo e adduceva una specie di ciondolo come prova. Toulange fece per intervenire quando le due si avventarono l’una sull’altra finendo nella mota e lacerandosi i vestiti. S’immaginò coinvolto in un evento che poteva procurargli solo guai e quel giorno ne aveva avuti abbastanza. Decise che anche in un mondo perfetto le donne avrebbero sempre litigato, giacché era nella loro natura, quindi tirò dritto.

    La sua destinazione era La cloche et la bouteille,¹ una taverna annidata in uno dei quartieri più malfamati di Parigi, Fief d’Alby. Parecchi dei suoi confratelli lo avrebbero sconsigliato di recarsi in quei luoghi; egli però si sentiva protetto e, anzi, pensava fosse suo dovere immergersi nel mondo dei diseredati e affrontare tutti gli aspetti della vita.

    Il pallido sole del mezzogiorno autunnale non entrava in quei vicoli; si limitava a illuminare i tetti d’un tenue bagliore e a scaldare le abitazioni dell’ultimo piano, sempre che riuscisse a penetrare la coltre di fumo proveniente dai pochi camini attivi, nei quali veniva bruciata ogni sorta di materiale.

    Nessuno ricordava bene perché la taverna avesse quel nome. La campana era appesa fuori dall’uscio, fermata con una catena e ammaccata da chissà quante risse. La bottiglia invece era nella cantina, assieme a tante altre.

    I vetri della porta o, meglio, quelli che ancora resistevano, erano unti e opachi, mentre altri erano stati sostituiti da piccoli pannelli di legno. Toulange spinse il battente, ma la campana non tintinnò, visto che qualcuno ne aveva asportato il batacchio, e nel varcare la soglia ricevette in volto una zaffata di fumo, cibo, spezie e di una categoria dell’umanità poco propensa all’igiene personale.

    – Olà, prete, bentornato! – lo apostrofò un oste piuttosto basso, tanto che a malapena la sua testa pelata spuntava dal bancone.

    – Dio ti benedica – gli rispose Toulange prendendo posto al tavolo d’angolo vicino alla stufa.

    Lo stanzone era suddiviso in tre zone: una parte centrale, con tavoli lunghi e panche per chi entrava a bere; a destra stavano tavoli di media grandezza con sgabelli, riservati ai giocatori di dadi e carte; a sinistra, dove piccoli tavoli con panche e sgabelli emergevano a stento dalla penombra, c’era la zona riservata ai rituali combinati di Bacco e Venere.

    L’oste si avvicinò.

    – Sono il primo? – chiese l’abate.

    – E l’unico per quest’ora – rispose l’oste. – Tutti sono in giro a cercare pane o lavoro, e quando avranno un po’ di monete verranno qui a spenderle. Nessuno arriva prima del tramonto, nemmeno quelle che tu chiami lucciole – e fece seguire alla parola un gesto che voleva essere vezzoso ma che risultò grottesco.

    Toulange sorrise per buona creanza.

    – Cosa ti porto? – domandò l’altro.

    – Sidro,

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