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Legend. A Gathering of Shadows
Legend. A Gathering of Shadows
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E-book591 pagine8 ore

Legend. A Gathering of Shadows

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Info su questo ebook

«Imperdibile!»
Entertainment Weekly

«Il fantasy perfetto.»
Publishers Weekly

Dall’autrice del bestseller Magic

Dopo la Notte Nera, una nuova minaccia incombe su Londra Grigia, Londra Bianca e Londra Rossa.
Sono passati quattro mesi da quando Kell ha trovato la pietra nera. Quattro mesi da quando ha incrociato il suo cammino con quello di Delilah, Rhy è stato ferito e i terribili gemelli Dane sono stati sconfitti. Ma, soprattutto, quattro mesi da quando la terra ha inghiottito il corpo di Holland insieme alla pietra, trascinandoli per sempre a Londra Nera. Le vite di Rhy e Kell ora sono indissolubilmente legate: se Kell muore, muore anche Rhy. Di notte, gli incubi perseguitano Kell con le immagini vivide degli eventi magici che si sono susseguiti e con il ricordo di Lila, sparita come era sua intenzione sin dall’inizio. Intanto, mentre a Londra Rossa fervono i preparativi per i Giochi degli Elementi, un’altra Londra si sta lentamente risvegliando. Come un’ombra che, invece di dissolversi al mattino, accresce la sua oscurità, Londra Nera sta nuovamente interferendo con l’equilibrio magico. E per ripristinare l’ordine è necessario che un’altra Londra cada…

Autrice numero 1 del New York Times

Perché l’equilibrio sia ripristinato, una città deve cadere

«V.E. Schwab sa gestire sapientemente una trama ricca di colpi di scena e questo la rende la naturale erede al trono del fantasy contemporaneo.»
The Independent

«Avvincente ed emozionante. Questo libro conferma la serie come una delle imperdibili nel panorama fantasy.»
Entertainment Weekly

«I lettori rimarranno incantati da questa storia magica, dal ritmo velocissimo, con un protagonista intrigante e un’eroina coraggiosa.»
Kirkus Reviews
V.E. Schwab
È un’autrice bestseller del «New York Times», di «USA Today» e del «Washington Post». I suoi romanzi hanno raggiunto i primi posti delle classifiche internazionali, sono stati tradotti in 12 lingue e opzionati per film e serie TV. Legend è il secondo capitolo della trilogia Shades of Magic.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788822724939
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    Anteprima del libro

    Legend. A Gathering of Shadows - V.E. Schwab

    I. Ladro in mare

    Capitolo 1

    Mare arnesiano

    Delilah Bard aveva un certo talento per cacciarsi nei guai.

    Aveva sempre pensato che fosse meglio così, anziché aspettare che i guai trovassero lei, ma adesso, mentre galleggiava nell’oceano su un gozzo a due posti senza remi, senza terra in vista e senza niente di niente, a parte le corde che aveva intorno ai polsi, iniziava a ripensarci.

    Sopra di lei la notte era senza luna, il mare e il cielo riflettevano l’uno nell’altro l’oscurità stellata; solo lo sciabordio dell’acqua sotto quella barca dondolante permetteva di distinguere il sopra dal sotto. Di solito, quel riflesso infinito faceva sentire Lila come in bilico al centro dell’Universo.

    Ma quella notte, alla deriva, aveva solo voglia di urlare.

    Invece lanciò un’occhiata allo sfavillio di luci lontane: la sfumatura rossastra era l’unico particolare che distingueva le lanterne dell’imbarcazione dalle stelle. E guardò la barca – la sua barca – allontanarsi lenta, ma inesorabile.

    Il panico le strinse la gola, ma lei restò vigile.

    Mi chiamo Delilah Bard, pensò mentre le corde le laceravano la pelle. Sono una ladra e una piratessa e una viaggiatrice. Ho messo piede in tre mondi diversi e sono sopravvissuta. Ho versato sangue di re e ho tenuto la magia tra le mani. Neanche una nave piena di uomini è in grado di fare quello che so fare io. Non ho bisogno di nessuno di voi. Sono maledettamente unica nel mio genere.

    Sentendosi decisamente rinfrancata, appoggiò la schiena contro la barca e guardò la notte che si stendeva davanti ai suoi occhi.

    Potrebbe andare peggio, pensò appena prima di sentire l’acqua fredda lambirle gli stivali. Guardò in giù e vide che c’era una falla nella barca. Non era grande, ma le dimensioni ridotte non la confortavano granché; anche un piccolo buco poteva far affondare il gozzo, forse addirittura più velocemente.

    Lila emise un gemito e osservò la corda ruvida legata stretta intorno alle sue mani, ringraziando un paio di volte i bastardi che le avevano lasciato libere le gambe, sebbene intrappolate in un abominevole vestito. Era un affare verde pallido di un tessuto fin troppo leggero, con la gonna lunga e la vita talmente stretta che a malapena riusciva a respirare. In nome di Dio, ma perché le donne dovevano infliggersi un tale castigo?

    L’acqua salì un altro po’ nel gozzo e Lila cercò di concentrarsi. Inspirò quel poco di aria che l’abito le consentiva e fece un rapido inventario dei suoi miseri e sempre più umidi averi: un solo barilotto di birra (un regalo di addio), tre coltelli (tutti nascosti), mezza dozzina di razzi di segnalazione (lasciati in eredità dagli uomini che l’avevano abbandonata alla deriva), il suddetto vestito (che andasse in malora), e il contenuto delle gonne e delle tasche (necessario, se fosse sopravvissuta).

    Lila prese uno dei razzi, un oggetto simile a un fuoco d’artificio che, se sbattuto contro una qualunque superficie, produceva una striscia di luce colorata. Non un’esplosione, ma un raggio fisso abbastanza forte da tagliare l’oscurità come una lama. Ogni razzo era pensato per durare un quarto d’ora e i diversi colori avevano un loro codice preciso in mare aperto: giallo per una nave che stava affondando, verde per un malore a bordo, bianco per un problema generico e rosso per i pirati.

    Ne aveva uno di ciascun tipo e le sue dita danzarono lungo le estremità mentre valutava le sue opzioni. Osservò l’acqua che continuava a salire e si fermò su quello giallo, prendendolo con entrambe le mani e sbattendolo contro il lato della piccola barca.

    La luce esplose forte, improvvisa e accecante. Spaccò il mondo in due, il violento bianco dorato del segnale luminoso e il denso nulla nero intorno a esso. Lila imprecò per mezzo minuto buono ricacciando indietro le lacrime per quel chiarore brusco, mentre direzionava il razzo di segnalazione verso l’alto, lontano dal suo viso. E poi iniziò a contare. Proprio quando i suoi occhi si erano finalmente abituati, il segnale s’infiacchì, sfarfallò, e poi si spense. Passò in rassegna l’orizzonte in cerca di una nave ma non vide nulla, mentre l’acqua nel gozzo continuava la sua lenta ma decisa ascesa fino a coprirle gli stivali all’altezza del polpaccio. Prese un secondo razzo – quello bianco, per un problema generico – e lo sbatté contro il legno coprendosi gli occhi. Contò i minuti che scorrevano via, scrutando la notte oltre la barca in cerca di segni di vita.

    «Forza», sussurrò. «Forza, forza, forza…». Le sue parole morirono dietro al fischio del razzo quando si spense, ricacciandola nell’oscurità.

    Lila digrignò i denti.

    A giudicare dal livello raggiunto dall’acqua, le restava all’incirca un quarto d’ora – l’equivalente della durata di un razzo – prima di rischiare definitivamente di affondare.

    Sentì qualcosa strisciare lungo la fiancata di legno del gozzo. Qualcosa con i denti.

    Se c’è un dio, pensò, un corpo celeste, un potere paradisiaco, o qualcuno lassù – o quaggiù – che magari desidera lasciarmi vivere un altro giorno, per cruccio o per diletto, questo è il momento giusto per farsi vivo.

    Infine prese il razzo rosso – quello per i pirati – e lo colpì, immergendo la notte intorno a lei in un’inquietante luce cremisi. Per un istante le ricordò l’Isle River, a Londra. Non la sua Londra – se quel luogo cupo era mai stato suo – o la Londra inquietante, pallida e colpevole di Athos e Astrid e Holland, ma la sua Londra. La Londra di Kell.

    L’immagine di lui le balenò davanti agli occhi come un razzo di segnalazione, con i suoi capelli castano ramati e quella linea costantemente corrucciata tra gli occhi, uno blu, uno nero. L’Antari. Il ragazzo magico. Il principe.

    Lila guardò fissa dentro la luce rossa finché l’immagine non scomparve. Aveva preoccupazioni più urgenti al momento. L’acqua continuava a salire. La luce stava per esaurirsi. Le ombre strisciavano intorno alla barca.

    Proprio quando la luce del segnale per i pirati iniziò a spegnersi, lo vide.

    All’inizio non sembrava nulla – un viticcio di foschia sulla superficie del mare – ma presto la nebbia assunse i contorni del fantasma di una nave. Lo scafo nero lucido e le vele di un nero brillante riflettevano la notte da ogni angolazione, le lanterne di bordo erano piccole e incolori, al punto da poter essere scambiate per stelle. Solo quando fu abbastanza vicina da permettere alla luce rossa, ormai quasi spenta, di lambirne la superficie riflettente, la nave divenne più nitida. A quel punto, era quasi sopra di lei.

    L’ultimo fiotto di luce permise a Lila di leggere il nome della nave, tracciato con una pittura brillante lungo lo scafo. Is Ranes Gast.

    Ladro di Rame.

    Lila sgranò gli occhi, stupita e sollevata. Le sue labbra si incurvarono in un sorriso piccolo, segreto, che subito seppellì sotto un’espressione più adatta, fra il grato e il supplichevole, con un pizzico di cauta speranza.

    Il razzo si spense, ma la nave era a fianco a lei ora, abbastanza vicino da permetterle di vedere i volti degli uomini che pendevano dal parapetto.

    «Tosa!», urlò in arnesiano, alzandosi in piedi, attenta a non ribaltare il piccolo gozzo che stava affondando.

    Aiuto. La vulnerabilità non era una cosa che le veniva naturale, ma fece del suo meglio quando gli uomini la videro lì, rannicchiata nella sua barchetta invasa dall’acqua, con i polsi legati e il vestito verde inzuppato. Si sentiva ridicola.

    «Kers la?», chiese uno di loro, rivolto più agli altri che a lei. Che cos’è?.

    «Un regalo?», disse un altro.

    «Dovrai condividerlo», mugugnò un terzo.

    Qualcun altro disse cose meno piacevoli e Lila si irrigidì, contenta che la loro parlata fosse troppo piena di fango e aria dell’oceano perché lei riuscisse a capire ogni parola, anche se ne coglieva il significato.

    «Che fai laggiù?», chiese uno di loro, la pelle così scura che il suo profilo si confondeva con la notte.

    Il suo arnesiano era ben lontano dall’essere fluente, ma quattro mesi di mare circondata da persone che non parlavano una parola di inglese lo aveva certamente migliorato.

    «Sensan», rispose Lila – affondare – il che le valse una risata dalla ciurma lì radunata. Tuttavia, non sembravano aver fretta di farla salire. Lila alzò le mani verso l’alto per mostrare loro la corda. «Potete aiutarmi?», disse lentamente. Era una frase su cui si era esercitata.

    «Credo di sì», rispose l’uomo.

    «Chi ha gettato via un affarino così grazioso?», intervenne un altro.

    «Forse l’hanno già consumata».

    «Nah».

    «Ehi, ragazzina! Sei tutta intera?».

    «Meglio che ci fai vedere!».

    «Che avete tutti da urlare?», irruppe una voce, e un attimo dopo, sul fianco della nave, apparve un uomo sottile come uno stecco, con gli occhi infossati e radi capelli neri. Gli altri si fecero da parte con deferenza quando si appoggiò al parapetto in legno e guardò in direzione di Lila. I suoi occhi indugiarono su di lei, il vestito, la corda, il barilotto, la barca.

    Il capitano, immaginò Lila.

    «Mi sembri nei guai», la rimproverò. Non alzò il tono di voce, ma lei captò lo stesso l’accento arnesiano, chiuso ma chiaro.

    «Davvero perspicace», ribatté Lila senza riuscire a trattenersi. L’insolenza era un azzardo, ma lei era brava a interpretare i segnali, in qualunque situazione si trovasse. L’uomo magro difatti sorrise.

    «La mia nave è stata presa», proseguì Lila, «e questa nuova non durerà a lungo, come potete vedere».

    L’uomo la interruppe. «Dici che possiamo parlare più comodamente a bordo?».

    Lila annuì tirando un sospiro di sollievo. Iniziava a temere che avrebbero proseguito la loro navigazione lasciandola annegare. Il che, a giudicare dai toni sboccati della ciurma e dagli sguardi ancora più lascivi, in realtà poteva anche rivelarsi l’opzione migliore. Ma lì non aveva nulla, a bordo invece aveva almeno una possibilità.

    Una corda venne calata oltre il parapetto; l’estremità zavorrata atterrò nell’acqua vicino ai suoi piedi. La afferrò e la usò per avvicinare il suo gozzo al fianco della nave, dove era stata calata una scaletta; ma prima che riuscisse a issarsi, due uomini balzarono sulla sua minuscola imbarcazione, che di conseguenza iniziò ad affondare decisamente più in fretta. Nessuno dei due sembrò preoccuparsene. Uno si occupò di caricarsi sulle spalle il barilotto di birra, mentre l’altro, con un certo disappunto di Lila, fece lo stesso con lei. Se la gettò sulla spalla, e le ci volle tutto l’autocontrollo di cui disponeva – che non era mai stato abbondante – per non piantargli un coltello nella schiena, soprattutto quando le sue mani iniziarono a vagare sotto la gonna.

    Lila si conficcò le unghie nei palmi, e quando finalmente l’uomo la mise a terra sulla nave, accanto al barilotto («Più pesante di quanto sembri», borbottò lui, «e morbida la metà…»), aveva scavato otto piccole mezzelune nella carne.

    «Bastardo», ringhiò Lila in inglese a mezza bocca. Lui le fece l’occhiolino e mormorò qualcosa sull’essere morbida dove serviva. Lei giurò in silenzio di ucciderlo. Lentamente.

    Poi si raddrizzò, ritrovandosi in piedi in mezzo a un gruppo di marinai.

    No, certo, non marinai.

    Pirati.

    Sudici, sporchi di mare e consumati dal sole, la pelle scurita e i vestiti sbiancati, ognuno con un coltello tatuato sulla gola. Il simbolo dei pirati della Ladro di Rame. Ne contò sette intorno a lei, più cinque su vele e sartiame, e ipotizzò un’altra mezza dozzina sotto coperta. Diciotto. Forse venti.

    L’uomo-stecco ruppe il cerchio e fece un passo avanti.

    «Solase», disse, allargando le braccia. «Quello che ai miei uomini manca nei modi, lo compensano con il fegato». Posò le mani sulle spalline del vestito verde di Lila. Aveva sangue sotto le unghie. «Stai tremando».

    «Ho passato una brutta nottata», disse Lila, sperando, mentre passava in rassegna l’equipaggio turbolento, che la situazione non peggiorasse.

    L’uomo sottile sorrise, la bocca stranamente piena di denti. «Anesh», aggiunse, «ma ora sei in buone mani».

    Lila conosceva a sufficienza la reputazione della ciurma della Ladro di Rame per sapere che era una bugia, ma finse di ignorarla. «E a chi appartengono queste mani?», chiese, mentre la figura scheletrica le prendeva le dita e premeva le labbra spaccate contro le sue nocche, ignorando la corda ancora stretta intorno ai suoi polsi. «Baliz Kasnov», si presentò. «Illustre capitano della Ladro di Rame». Perfetto. Kasnov era una leggenda del mare di Arnes. Il suo equipaggio era piccolo ma fatto di uomini svegli, che avevano una predilezione per abbordare navi e tagliare gole nelle ore più buie prima dell’alba, per poi scivolare via con il carico, lasciandosi dietro i morti a marcire. Il loro capitano, dall’aspetto, poteva sembrare affamato, ma era famoso per essere ghiotto di tesori, soprattutto se erano di genere commestibile. Lila sapeva infatti che la Ladro di Rame stava navigando verso la costa settentrionale di una città di nome Sol, nella speranza di tendere un agguato ai proprietari di un carico particolarmente grosso di liquore di prima qualità. «Baliz Kasnov», disse lei, ripetendo il nome come se non l’avesse mai sentito prima.

    «E tu sei?», la incalzò.

    «Delilah Bard», rispose. «Una volta navigavo sulla Pesce D’Oro».

    «Una volta?», sbottò Kasnov, mentre i suoi uomini, evidentemente stufi di vederla ancora vestita, iniziavano ad attingere al barilotto. «Bene, signorina Bard», disse, prendendola sottobraccio con fare cospiratorio. «Perché non mi racconti come sei finita in quella barchetta? Il mare non è posto per una giovane signorina come te».

    «Vaskens», rispose – pirati – fingendo di non sapere che quella parola calzava loro a pennello. «Hanno rubato la mia nave. Era un regalo di mio padre, per il mio matrimonio. Avremmo dovuto navigare verso Faro – siamo salpati due notti fa – ma sono sbucati dal nulla e hanno razziato la Pesce D’Oro…». Aveva provato quel discorso molte volte, parole e pause incluse. «Loro… loro hanno ucciso mio marito. Il mio capitano. La maggior parte del mio equipaggio». Qui Lila passò volontariamente all’inglese. «È successo così in fretta…». Si corresse da sola, come se l’inciampo linguistico fosse stato casuale.

    Ma aveva conquistato l’attenzione del capitano, come un pesce preso all’amo. «Di dove sei?»

    «Londra», rispose Lila, sfoggiando il suo accento. Un mormorio serpeggiò nel gruppo. Lei continuò, intenzionata a finire il suo racconto. «La Pesce era piccola», disse, «ma preziosa. In stiva avevamo le riserve di un mese. Cibo, bevande… denaro. Come dicevo, era un regalo. E ora è andata».

    Ma non lo era davvero, non ancora. Si voltò verso il parapetto. La nave era una macchia di luce lontana sulla linea dell’orizzonte. Si era fermata e sembrava in attesa. I pirati seguirono il suo sguardo con occhi affamati.

    «Quanti uomini?», chiese Kasnov.

    «Abbastanza», rispose. «Sette? Otto?».

    I pirati sorrisero con aria maligna e Lila sapeva a cosa stavano pensando. Loro erano più del doppio di quel numero, e avevano una nave capace di nascondersi come un’ombra nel buio. Se fossero riusciti a prendere il vascello in fuga… riusciva a sentire gli occhi infossati di Baliz Kasnov che la scrutavano. Lo squadrò di rimando e si chiese se lui possedesse dei poteri magici. La maggior parte delle imbarcazioni erano protette da una manciata di incantesimi – formule per rendere la vita a bordo più sicura e comoda – ma aveva scoperto con grande sorpresa che la maggior parte degli uomini che aveva incontrato in mare avevano una scarsa inclinazione per le arti degli elementi. Alucard diceva che saper praticare la magia era un’abilità tenuta in gran conto, e che i più dotati di solito si guadagnavano un impiego soddisfacente sulla terraferma. In mare, i maghi si concentravano quasi sempre sugli elementi di rilevanza – acqua e vento – ma poche mani sapevano come invertire una rotta, e alla fine la maggior parte degli uomini di mare preferiva ancora il buon vecchio acciaio. Cosa che Lila poteva senz’altro apprezzare, avendone numerosi pezzi nascosti su di sé.

    «Perché ti hanno risparmiato?», chiese Kasnov.

    «L’hanno fatto?», lo sfidò Lila.

    Il capitano si leccò le labbra. Evidentemente aveva già deciso cosa fare della nave; ora stava decidendo cosa fare di lei. Quelli della Ladro di Rame non erano famosi per la pietà.

    «Baliz…», disse uno dei pirati, un uomo con la pelle più scura di tutti gli altri. Afferrò la spalla del capitano e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Lila riuscì a distinguere solo alcune delle parole borbottate. Inglesi. Ricchi. E riscatto.

    Le labbra del capitano si aprirono in un lento sorriso. «Anesh», disse con un cenno del capo. E poi, rivolgendosi all’intero equipaggio: «Salpiamo! Rotta sud, sud-ovest! Abbiamo un pesce d’oro da prendere».

    Gli uomini borbottarono la loro approvazione.

    «Mia signora», disse Kasnov conducendo Lila verso le scale. «Hai avuto una notte difficile. Lascia che ti mostri la mia camera, dove starai senz’altro più comoda».

    Alle sue spalle, Lila udì i rumori del barilotto che veniva aperto e della birra versata, e sorrise mentre il capitano la accompagnava sotto coperta.

    * * *

    Kasnov non si trattenne, grazie a Dio.

    La depositò nelle sue stanze, la corda ancora intorno ai polsi, e scomparve di nuovo, chiudendo a chiave la porta quando uscì. Con suo grande sollievo, Lila aveva visto solo tre uomini sotto coperta. Ciò voleva dire che a bordo della Ladro di Rame ce n’erano in tutto quindici.

    Lila si sedette sul bordo del letto del capitano e contò fino a dieci, venti, poi trenta, mentre rumori di passi risuonavano al piano di sopra e la nave si muoveva verso il suo vascello. Non si erano neppure preoccupati di perquisirla in cerca di armi, cosa che Lila, sfilando un coltello dallo stivale, ritenne un po’ presuntuosa. Con un unico movimento, lo impugnò e tagliò le corde. Caddero per terra e lei si strofinò i polsi, canticchiando fra sé una canzone marinaresca sul Sarows, un fantasma che si diceva infestasse le navi di notte.

    Come sai quando arriva il Sarows?

    (È qui, è qui, è qui a bordo?)

    Lila afferrò il vestito all’altezza della vita e lo strappò; la gonna scivolò via, rivelando un paio di pantaloni neri aderenti – e due fondine sopra le ginocchia, ognuna con dentro un coltello – infilati negli stivali. Poi fece scivolare la lama sulla schiena lungo il corsetto, tagliando i nastri per tornare a respirare.

    Quando il vento cala, ma lo senti ancora cantare nel tuo orecchio

    (Nel tuo orecchio nella tua testa nel tuo sangue nelle tue ossa.)

    Gettò la gonna verde sul letto e la aprì dall’orlo fino alla vita sbrindellata. Nascosta nel tessuto sottilissimo c’era una mezza dozzina di bacchette sottili che potevano passare per ossicini e sembrare razzi di segnalazione, ma non erano né gli uni né gli altri. Erano candele. Lila ripose il coltello nello stivale.

    Quando la corrente è tranquilla ma la nave va alla deriva

    (Alla deriva alla deriva e sola.)

    Lila sentì un tonfo in coperta, come un peso morto che cadeva. E poi un altro, e un altro, segno che la birra stava facendo effetto. Prese un pezzo di panno nero, strofinò del carbone su un lato, e se lo legò su naso e bocca.

    Quando la luna e le stelle si nascondono dal buio

    (Ma il buio non è affatto vuoto.)

    (No, il buio non è affatto vuoto.)

    L’ultima cosa che Lila tirò fuori dalle profondità delle tasche della gonna verde fu la sua maschera. Un brandello di pelle nera, semplice, fatta eccezione per le corna che si arricciavano con una grazia strana e minacciosa sopra la fronte. Lila si sistemò la maschera sul naso e la fissò.

    Come sai quando arriva il Sarows?

    (È qui, è qui, è qui a bordo?)

    Uno specchio, per metà imbrunito dal tempo, troneggiava nell’angolo della cabina del capitano, e per un attimo Lila vide il suo riflesso mentre dei passi risuonavano sulle scale.

    Perché no, ti dico di no, non lo vedrai arrivare

    (No, non lo vedrai arrivare.)

    Lila sorrise da dietro la maschera, poi si voltò e appoggiò la schiena contro il muro. Prese una candela e la strofinò contro il legno, proprio come aveva fatto con i razzi di segnalazione, ma a differenza di quelli, nessuna luce sgorgò d’improvviso, solo nuvole di fumo chiaro.

    Un istante dopo, la porta della cabina del capitano si spalancò di colpo, ma per i pirati ormai era troppo tardi. Lila lanciò la candela fumante nella stanza, sentì qualcuno che inciampava e gli uomini tossire, prima che il fumo tossico li mandasse al tappeto.

    Due a terra, pensò Lila, scavalcando i loro corpi.

    Ne mancano tredici.

    Capitolo 2

    Alla guida della nave non c’era nessuno.

    Si era inclinata contro le onde e cercava di romperle, prendendo colpi sulle fiancate anziché di prua, dondolando sotto i piedi di Lila in un modo per nulla piacevole.

    Era a metà delle scale quando un pirata le si parò davanti. Era massiccio, ma i suoi movimenti erano rallentati e resi incerti dalla droga sciolta nella birra. Lila rotolò via dalla sua presa e gli posò il piede sullo sterno, sbattendo l’uomo contro il muro abbastanza forte da rompergli le ossa. Lui mugugnò e scivolò sulle assi di legno, lasciandosi sfuggire una mezza imprecazione sulle labbra prima che la punta dello stivale di lei incontrasse il suo mento. La testa scattò di lato, poi cadde riversa in avanti contro il petto.

    Dodici.

    Altri passi sopra di lei. Accese una candela e la lanciò verso gli scalini in alto, proprio mentre tre uomini spuntavano dal ponte. Il primo vide il fumo e cercò di arretrare, ma il secondo e il terzo bloccarono la sua ritirata e presto si ritrovarono tutti e tre a tossire, annaspare e rotolare lungo le scale di legno.

    Nove.

    Lila toccò il più vicino con la punta dello stivale, poi lo scavalcò e continuò a salire. Si fermò sull’orlo del ponte, nascosta nell’ombra delle scale, e si guardò intorno in cerca di segni di vita. Non ne vide nessuno, perciò scostò il panno di carbone dalla bocca e inspirò a fondo la fresca aria invernale, prima di immergersi nella notte.

    I corpi erano riversi sul ponte. Li contò camminando, mentre calcolava il numero dei pirati a bordo.

    Otto.

    Sette.

    Sei.

    Cinque.

    Quattro.

    Tre.

    Due.

    Lila si fermò e guardò di nuovo gli uomini a terra. Poi, oltre il parapetto, qualcosa si mosse. Sfilò un coltello da una delle fondine agganciate alla coscia – era uno dei suoi preferiti, una lama spessa con l’impugnatura a forma di nocche di metallo – e andò verso la forma strisciante, canticchiando.

    Come sai quando arriva il Sarows?

    (È qui, è qui, è qui a bordo?)

    L’uomo strisciava a quattro zampe lungo il ponte, il volto distorto dalla birra drogata. All’inizio Lila non lo riconobbe. Ma poi guardò nella sua direzione, e vide che era l’uomo che l’aveva portata a bordo. Quello che le aveva messo le mani dappertutto. Quello che aveva detto di averla immaginata più morbida.

    «Stupida puttana», borbottò in arnesiano. Ansimava, ed era quasi impossibile capire cosa dicesse. La droga non era letale, almeno non in basse dosi (anche se non era andata troppo per il sottile quando aveva confezionato il barilotto), ma gonfiava le vene e le vie respiratorie, affamando il corpo di ossigeno finché la vittima non sveniva.

    In quel momento, mentre osservava il pirata con la faccia gonfia, le labbra blu e il respiro che usciva in rantoli, pensò che forse era stata troppo generosa con il dosaggio. L’uomo tentava – senza riuscirci – di mettersi in piedi. Lila si accucciò e con le dita della mano libera lo afferrò per il colletto della camicia, aiutandolo ad alzarsi.

    «Come mi hai chiamato?», chiese.

    «Ho detto», sibilò, «stupida… puttana. Pagherai… per questo. Ti…».

    Non terminò mai la frase. Lila gli diede un forte spintone, lui cadde oltre il parapetto e si schiantò in mare.

    «Mostra un po’ di rispetto per il Sarows», mugugnò lei, guardandolo annaspare per un po’ e poi sparire sotto la superficie dell’acqua.

    Uno.

    Udì le assi alle sue spalle scricchiolare e alzò il coltello un istante prima che la corda si avvolgesse intorno alla sua gola. Le fibre ruvide le graffiarono il collo prima che riuscisse a tagliarla. Quando fu libera, fece un balzo in avanti e si voltò, ritrovandosi davanti il capitano della Ladro di Rame, gli occhi attenti, i passi sicuri.

    Baliz Kasnov non aveva condiviso la birra con il suo equipaggio.

    Gettò di lato i pezzi di corda, e la presa di Lila si strinse intorno al coltello, pronta a combattere. Ma il capitano non aveva armi. Al contrario, portò le mani bene in vista, i palmi verso l’alto.

    Lila fece un cenno col capo, le corna della maschera puntate contro di lui. «Ti arrendi?», chiese.

    Gli occhi neri del capitano brillarono, e la sua bocca si storse. Alla luce della lanterna il tatuaggio a forma di coltello sembrava luccicare.

    «Nessuno prende la Ladro di Rame», disse.

    Le sue labbra si mossero e le sue dita si contrassero mentre le fiamme vi passavano attraverso. Lila abbassò gli occhi e quando vide le striature ai suoi piedi seppe cosa stava per fare. La maggior parte delle navi erano protette dal fuoco, ma lui aveva rotto l’incantesimo. Si allungò verso la vela più vicina e Lila capovolse il coltello che aveva in mano, poi lo lanciò. Era mal bilanciato, con quella guardia di metallo pesante sull’impugnatura, e lo colpì al collo anziché alla testa. Lui inciampò, le mani tese in avanti per fermare la caduta, e il fuoco colpì un mucchio di corde anziché la vela.

    Attecchì, ma Kasnov lo soffocò con il suo stesso corpo quando cadde. Il sangue che spillava dal collo fece il resto. Solo poche fiammelle resistettero, risalendo lungo le corde. Lila si avvicinò al fuoco; le sue dita si chiusero a pugno e la fiamma morì.

    Lila sorrise e liberò il suo coltello preferito dalla gola del capitano morto, pulendo il sangue sui suoi vestiti. Lo rinfoderò di nuovo quando sentì un fischio, e alzò lo sguardo per vedere la sua nave, la Pinnacolo Notturno, profilarsi a fianco della Ladro di Rame.

    Gli uomini si erano radunati lungo il parapetto, e lei aveva attraversato tutta la Ladro per andarli a salutare, spingendo la maschera sulla fronte. La maggior parte di loro aveva l’espressione accigliata; al centro, una figura alta se ne stava immobile, con una fusciacca nera e un sorriso divertito, i capelli castano-rossicci pettinati all’indietro e uno zaffiro in mezzo a un sopracciglio. Alucard Emery. Il suo capitano.

    «Mas Aven», grugnì il primo ufficiale Stross, incredulo.

    «Cazzo, non è possibile», disse il cuoco, Olo, passando in rassegna i corpi riversi per tutto il ponte.

    Vasry il Bello e Tavestronask (chiamato semplicemente Tav) applaudirono entrambi, Kobis guardò la scena con le braccia incrociate e Lenos boccheggiò come un pesce.

    Lila si godette il misto di shock e approvazione mentre raggiungeva il parapetto e allargava le braccia. «Capitano», disse allegra. «Sembra che io abbia una nave per te».

    Una tavola venne tesa fra i due vascelli e Lila la attraversò decisa, senza mai guardare di sotto. Approdò sul ponte della Pinnacolo Notturno e si voltò verso il giovane dinoccolato con due profonde occhiaie, come se non avesse dormito. «Ti tocca pagare, Lenos».

    Lui si accigliò. «Capitano», implorò, con una risata nervosa.

    Alucard scrollò le spalle. «Sei stato tu a scommettere», disse. «Tu e Stross», aggiunse, indicando il primo ufficiale, un uomo barbuto dall’aria feroce. «Con le vostre teste e il vostro denaro».

    E l’avevano fatto. Certo, Lila li aveva provocati dicendo che poteva prendere la Ladro di Rame da sola, ma erano stati loro a scommettere che non ci sarebbe riuscita. Le ci era voluto quasi un mese per comprare droga sufficiente per le candele e la birra, ne aveva racimolata un poco ogni volta che la sua nave si era fermata in qualche porto. Ne era valsa la pena.

    «Ma è stato un trucco!», ribatté Lenos.

    «Idioti», disse Olo, la voce bassa e cavernosa.

    «Lo ha chiaramente pianificato», borbottò Stross.

    «Sì», disse Lenos, «come potevamo immaginare che avesse un piano

    «Vi sareste dovuti informare meglio prima di giocare d’azzardo con Bard». Alucard incontrò il suo sguardo e le fece l’occhiolino. «Le regole sono regole, e a meno che non vogliate essere lasciati insieme ai corpi su quella nave, vi suggerisco di pagare alla mia ladra quello che le dovete».

    Stross sfilò il borsello dalla tasca. «Come hai fatto?», chiese, svuotando il contenuto nelle sue mani.

    «Non ha importanza», disse Lila, prendendo le monete. «Importa solo che io ce l’abbia fatta».

    Lenos fece per prendere il suo portafogli, ma lei scosse la testa. «Non è quello per cui ho scommesso, e lo sai». Lenos assunse una postura ancora più cadente del solito mentre si slegava il pugnale dall’avambraccio.

    «Non hai abbastanza coltelli?», bofonchiò, le labbra imbronciate.

    Il sorriso di Lila si fece più affilato. «Non uno così», disse stringendo le dita intorno alla lama. Inoltre, pensò, questo è speciale. Aveva puntato l’arma dalla prima volta che aveva visto Lenos usarla, a Korma.

    «Te la vincerò di nuovo», mormorò.

    Lila gli diede una pacca sulla spalla. «Puoi provarci».

    «Anesh!», sbottò Alucard, sbattendo la mano sulla tavola. «Basta tergiversare, pinnacoli, abbiamo una nave da saccheggiare. Prendete tutto. Voglio che quei bastardi al loro risveglio si ritrovino con nulla in mano, eccetto il loro cazzo».

    Gli uomini esultarono, e Lila ridacchiò fra sé.

    Non aveva mai conosciuto un uomo che amasse il suo lavoro più di Alucard Emery. Ne godeva come i bambini godono di un gioco, o uomini e donne adulti di uno spettacolo teatrale, a cui si abbandonano con gioia. C’era un che di teatrale in ogni cosa che Alucard faceva. Si chiese quante maschere potesse indossare. E se qualcuna di esse non fosse una maschera, ma l’attore celato dietro di essa.

    Nell’oscurità i suoi occhi trovarono quelli di lei. Erano una tempesta di blu e grigio, a tratti brillanti e a tratti quasi incolori. Fece un cenno del capo verso le sue stanze, e lei lo seguì.

    La cabina di Alucard aveva sempre lo stesso odore, di vino estivo, seta pulita e braci quasi spente. Gli piacevano le cose belle, era ovvio. Ma a differenza dei collezionisti o degli sbruffoni che mettevano i loro beni in vista solo per essere ammirati e invidiati, tutti i tesori di Alucard sembravano vissuti fino in fondo.

    «Bene, Bard», disse, passando all’inglese non appena furono soli. «Hai intenzione di dirmi come hai fatto?»

    «Che divertimento sarebbe?», lo sfidò lei, sprofondando in una delle due poltrone dallo schienale alto posizionate davanti al caminetto, dove come al solito bruciava un fuoco pallido. Sul tavolo c’erano due bicchierini di vetro, in attesa di essere riempiti. «I misteri sono sempre più eccitanti delle verità».

    Alucard si allungò sul tavolo e prese una bottiglia. In quel momento il suo gatto bianco, Esa, apparve e si strusciò contro uno stivale di Lila. «E tu sei fatta di altro oltre che di misteri?».

    «Ci sono state tante scommesse?», chiese, ignorando sia lui che il gatto.

    «Certo», rispose Alucard, stappando la bottiglia. «Di ogni tipo. Qualcuno ha scommesso che saresti annegata, altri che non ti avrebbero fatta salire a bordo, altri ancora hanno scommesso su quanto avremmo ritrovato di te se invece l’avessero fatto…». Versò il liquido color ambra nei bicchieri e ne porse uno a Lila. Lei lo prese, e contemporaneamente lui le sfilò la maschera con le corna dalla testa e la gettò sul tavolo fra di loro.

    «È stato uno spettacolo notevole», disse sprofondando nella sua poltrona. «Gli uomini a bordo che prima di stanotte non ti temevano, ora di certo lo faranno».

    Lila fissava il bicchiere nello stesso modo in cui certe persone fissano il fuoco. «C’era qualcuno a bordo che non aveva paura di me?», chiese con malizia.

    «Alcuni di loro ti chiamano ancora il Sarows, lo sai», continuò, «quando non sei nei paraggi. Lo dicono con un filo di voce, come se pensassero che tu li possa sentire ovunque».

    «Forse posso». Rigirò il bicchiere fra le dita.

    Non ci fu alcuna replica brillante, perciò lei alzò lo sguardo dal bicchiere e vide Alucard osservarla, come faceva sempre, frugando sul suo viso nel modo in cui i ladri frugano nelle tasche, cercando di cavarne fuori qualcosa.

    «Bene», disse lui infine, alzando il bicchiere, «a cosa dovremmo brindare? Al Sarows? A Baliz Kasnov e ai suoi idioti di rame? Ai capitani affascinanti e alle navi eleganti?».

    Ma Lila scosse la testa. «No», ribatté, sollevando il bicchiere con un sorriso tagliente. «Al miglior ladro».

    Alucard rise, lieve e impercettibile. «Al miglior ladro».

    Poi toccò con il suo bicchiere quello di lei, ed entrambi bevvero.

    Capitolo 3

    Quattro mesi prima

    Londra Rossa

    Andarsene era stato semplice.

    Non voltarsi indietro fu più difficile.

    Lila aveva sentito Kell osservarla mentre andava via, aveva smesso solo quando lei era uscita dal suo campo visivo. Era sola, di nuovo. Libera. Di andare ovunque. Di essere chiunque. Ma quando la luce calò, la sua sfrontatezza iniziò a vacillare. La notte invase la città, e lei iniziò a sentirsi, più che un conquistatore, una semplice ragazza, sola in un mondo sconosciuto, senza alcuna conoscenza della lingua e nulla in tasca, fatta eccezione per il regalo d’addio di Kell (una scatola degli elementi), il suo orologio d’argento e una manciata di monete che aveva sgraffignato a una guardia del palazzo prima di andarsene.

    Aveva avuto molto meno, certo, ma anche molto di più.

    Ed era abbastanza intelligente da sapere che non sarebbe andata lontano, non senza una nave.

    Aprì e chiuse l’orologio da tasca mentre guardava le file di barche ondeggiare sul fiume, il bagliore rosso dell’Isola ancora più nitido nell’oscurità immobile. Aveva messo gli occhi su una nave in particolare, l’aveva osservata ed esaminata per tutto il giorno. Era un vascello bellissimo, lo scafo e gli alberi di legno scuro erano rifilati d’argento, le vele passavano dal blu notte al nero, a seconda della luce. Un nome correva lungo lo scafo – Saren Noche – tempo dopo avrebbe scoperto che significava Pinnacolo Notturno. Ma in quel momento, sapeva solo che la voleva. Tuttavia, non poteva semplicemente requisire una nave completa di equipaggio e dichiararla propria. Era brava, ma non così brava. E poi c’era quel piccolissimo dettaglio, ovvero il fatto che tecnicamente Lila non sapeva navigare. Così si appoggiò contro un muro di pietra morbida, la sua uniforme nera che si confondeva con le ombre, e rimase a osservare il lieve dondolio della nave e i rumori del mercato notturno che risalivano la banchina, facendola piombare in una specie di trance.

    Uno stato che si interruppe quando mezza dozzina di uomini saltò giù dal ponte della nave con gli stivali pesanti, le monete tintinnanti nelle tasche, le risate roche in gola. La nave si era preparata tutto il giorno per prendere il mare, e gli uomini avevano l’entusiasmo maniacale tipico dell’ultima notte sulla terraferma. Sembravano desiderosi di godersela. Uno intonò una canzone marinaresca e gli altri lo seguirono, diretti in una delle taverne.

    Lila chiuse di scatto l’orologio da tasca, si staccò dal muro, e li seguì.

    Non aveva travestimenti, solo i suoi vestiti dal taglio maschile, i capelli neri che le ricadevano sugli occhi, e i lineamenti affilati. Abbassando il tono di voce, sperava di essere scambiata per un giovane uomo di corporatura snella. Le maschere si potevano indossare nei vicoli bui e ai balli, non nelle taverne. Non senza attirare più attenzione di quanto avrebbe voluto.

    Gli uomini davanti a lei scomparvero in un edificio. Non aveva un nome chiaro, ma il segno sulla porta era fatto di metallo, rame scintillante che si girava e arricciava in onde intorno a una bussola d’argento. Lila si lisciò il cappotto, alzò il colletto ed entrò.

    L’odore la colpì subito.

    Non di sudicio o stantio, come le taverne del porto che aveva conosciuto, né di fiori, come nel palazzo reale di Londra Rossa, ma caldo e semplice e pieno, l’aroma di stufato appena sfornato misto al fumo di pipa e a un accenno di sale marino.

    I fuochi bruciavano nei focolari all’angolo, e il bancone non correva lungo un muro, ma era esattamente al centro della stanza. Un cerchio di metallo incurvato che riprendeva la bussola sulla porta. Era un pezzo di artigianato incredibile, un esemplare unico d’argento, con raggi tesi verso i quattro camini.

    Era una taverna di marinai diversa da tutte quelle che aveva visto, senza una macchia di sangue sui pavimenti, né zuffe pronte a esplodere in strada. La Marea Sterile, nella Londra di Lila – no, non la sua, non più – aveva servito una clientela ben più rozza, ma qui metà degli uomini vestivano i colori reali, segno evidente che erano al servizio della corona. Il resto era un mix, ma nessuno aveva l’aria sparuta e gli occhi affamati di disperazione. Molti – come gli uomini che aveva seguito fin lì – erano abbronzati dalla vita in mare e consumati dal tempo, ma perfino le loro navi sembravano lucidate e le loro armi ben inguainate.

    Lila lasciò ricadere i capelli sull’occhio cieco, finse una quieta arroganza e si sedette al bancone.

    «Avan», disse il barista, un uomo magro dallo sguardo amichevole. Fu investita da un ricordo – Barron al Tiro di Schioppo, con il suo calore austero e la sua calma stoica – ma alzò la guardia prima che il colpo affondasse. Scivolò su uno sgabello e il barista le fece una domanda, e anche se non conosceva le parole, riuscì a capire il loro significato. Indicò il bicchiere vuoto più vicino a lei, e l’uomo si voltò per prenderle da bere. Riapparve un istante più tardi con una bella birra schiumosa color sabbia, e Lila bevve un sorso lungo e deciso.

    A circa tre quarti del bancone, un uomo giocherellava con delle monete con fare assente, e Lila ebbe bisogno di un momento per realizzare che non le stava davvero toccando. Il metallo si muoveva fra le sue dita e sotto i suoi palmi come per magia, cosa che in effetti era. Un altro uomo, dall’altro lato, schioccò le dita e si accese la pipa con una fiammella che partiva dalla punta del pollice. Quei gesti non la colpirono, e se ne stupì; dopo appena una settimana quel mondo le sembrava più familiare di quanto non fosse mai stata Londra Grigia.

    Si voltò sullo sgabello e individuò gli uomini della Pinnacolo Notturno, ora sparsi per la stanza. Due parlavano vicino a un focolare, uno era stato trascinato nell’angolo buio più vicino da una donna prosperosa, e altri tre erano seduti a giocare a carte con una coppia di marinai vestiti in rosso e oro. Uno dei tre catturò l’attenzione di Lila, non perché fosse particolarmente bello – in realtà era abbastanza brutto, da quel che riusciva a intravedere attraverso la foresta di capelli che aveva sul viso – ma perché stava barando.

    Almeno, lei pensava stesse barando. Non poteva esserne certa, dal momento che quel gioco aveva troppe poche regole. Eppure, era sicura di averlo visto prendere una carta e calarne un’altra. Le sue mani erano veloci, ma non veloci come il suo occhio. Sentì la sfida stuzzicarla mentre il suo sguardo passava dalle dita di lui allo sgabello lì accanto, dove aveva posato il suo borsello. Il portafogli era agganciato alla cintura con una cinghia di pelle, e sembrava pieno di monete. Lila portò la mano sul fianco, al coltello piccolo e affilato chiuso nel fodero. Lo liberò.

    Spericolata, sussurrò una voce nella sua testa. Rimase piuttosto sconcertata nel constatare che se un tempo la voce era stata quella di Barron, adesso si era trasformata in quella di Kell. La scacciò, il sangue che pompava con l’aumentare del pericolo, e si fermò di colpo quando l’uomo si voltò e guardò dritto nella sua direzione. No, non stava guardando lei, ma il barista alle sue spalle. Indicò il tavolo facendo il segnale universale che stava per un altro giro.

    Lila finì la sua birra e lasciò qualche moneta sul bancone, osservando l’uomo caricare un giro di bevute su un vassoio e un secondo uomo apparire per portare l’ordine al tavolo.

    Vide la sua occasione e si alzò in piedi.

    La stanza ondeggiò di colpo per via della birra, più forte di quella a cui era abituata, ma si fermò presto. Seguì l’uomo con il vassoio, tenendo gli occhi fissi sulla porta davanti a lui anche mentre gli toccava il tallone con lo stivale. Lui inciampò e riuscì a mantenere l’equilibrio, ma non a trattenere il vassoio; drink e bicchieri si rovesciarono sul tavolo, facendo scivolare via metà delle carte, travolte da un’ondata di birra. Il gruppo sbottò, gli uomini cominciarono a imprecare e urlare e si alzarono in piedi, cercando di portare in salvo monete e tovaglia. Quando il cameriere mortificato riuscì a voltarsi per vedere chi lo aveva fatto inciampare, l’orlo del cappotto nero di Lila era già svanito dalla porta.

    * * *

    Lila risalì la strada, il borsello rubato al giocatore d’azzardo appeso a una mano. Essere un bravo ladro non era solo questione di dita veloci. Significava saper trasformare le situazioni in opportunità. Si rigirò tra le mani il portafogli, sorridendo per il peso. Il sangue dentro di lei cantava vittoria.

    Poi, alle sue spalle, qualcuno urlò.

    Si voltò per trovarsi faccia a faccia con il tipo barbuto che aveva appena derubato. Non si prese il disturbo di negarlo, non conosceva a sufficienza l’arnesiano per poterci provare, e il borsello pendeva ancora dalle sue dita. Al contrario, mise in tasca il bottino e si preparò a lottare. L’uomo era due volte lei, quasi un metro più alto. Avanzò di un passo e un pugnale ricurvo comparve nelle sue mani, una versione in miniatura di una falce. Le disse qualcosa, un mugugno basso simile a un ordine. Forse le stava dando l’opportunità di abbandonare lì il bottino e allontanarsi. Ma dubitava che il suo orgoglio ferito l’avrebbe permesso, e anche se così fosse stato, lei aveva talmente bisogno di soldi da essere disposta a rischiare. Con la prudenza si sopravviveva, con l’audacia si andava avanti.

    «Chi lo trova se lo tiene», disse, e vide il volto dell’uomo accendersi per la sorpresa. Cazzo.

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