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L'amaro sapore della vendetta
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L'amaro sapore della vendetta
E-book386 pagine5 ore

L'amaro sapore della vendetta

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Storico - romanzo (291 pagine) - Julien Laboise, tenente dell’armata napoleonica, in Spagna non deve combattere solo contro i guerriglieri. Omicidi apparentemente senza spiegazioni lo conducono a indagare su una setta segreta le cui origini si perdono in un passato lontano.


La campagna di Spagna doveva essere una passeggiata, secondo le previsioni di Bonaparte. Un paese arretrato retto da una monarchia corrotta non avrebbe potuto opporsi ai soldati della Grande Armée, che avevano soggiogato gran parte dell’Europa in nome dei princìpi rivoluzionari.

La spedizione si trasforma invece nella prima grande guerra di popolo dell’età moderna. L’intera popolazione si solleva in una guerriglia senza pietà, con la benedizione di un clero fanatico dalle mani insanguinate. Massacri, rappresaglie e violenze da entrambe le parti, in uno schema immortalato dai quadri di Goya.

Julien Laboise, tenente di fanteria dell’esercito napoleonico, cerca di sopravvivere. Combatte, fa il proprio dovere nella consapevolezza che la Francia non riuscirà a vincere. Vede i suoi uomini morire, giovani coscritti appena giunti dalla Francia, e deve uccidere i soldati spagnoli, anche loro ragazzi spaventati con la nostalgia della casa.

L’unica oasi di pace la trova nell’amore per Irene, una donna dal passato ambiguo, e nell’amicizia verso una popolana, Ester, isolata e umiliata per la sua nomea di strega. Entrambe spagnole, entrambe fragili e diversissime fra loro.

Quella guerra disperata però non ha regole. Julien cade vittima di tradimenti e di imboscate, si trova coinvolto nelle trame di una setta segreta resuscitata da un passato lontano, e a sua volta è costretto a tradire. Le stesse persone che più ama sembrano essere diverse da quelle che appaiono, vittime e carnefici loro stesse in nome degli ideali. E il sangue versato crea una barriera sempre più profonda.


Fulvio Mario Azzolini ènato a Torino nel dicembre 1954. Laureato in legge nel 1978, nello stesso anno ha superato il concorso di Funzionario di Pubblica Sicurezza. È andato in pensione per raggiunti limiti di età il 31 dicembre 2015. Appassionato di moto, soprattutto di lunghi viaggi, ha una predilezione per l’attività fisica, dallo sport alla palestra. È sposato e ha un figlio, Jacopo, giornalista sportivo. Ha iniziato a scrivere dopo il pensionamento. Ama la storia e cerca di trasmettere la sua passione in romanzi d’avventura, collocati in una cornice storica accurata. Per Delos Digital ha già pubblicato i titoli: Il magistrato e la strega e Il sogno di una notte, per la collana History Crime, e Vita da commissariato, per la collana Delos Crime.

LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2021
ISBN9788825416466
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    Anteprima del libro

    L'amaro sapore della vendetta - Fulvio Azzolini

    9788825411867

    Capitolo 1

    Assedio di Cadice, luglio 1810

    Il forte spagnolo poteva essere scambiato per un vulcano in piena eruzione, avvolto in una nube scura spezzata da diabolici bagliori.

    Si era risvegliato all’improvviso dopo giorni di sonnolenza. I cannoni erano avvampati di botto e da un’ora li martellavano con una furiosa tempesta di fuoco, senza dare segno di rallentamento.

    Lui, Julien Laboise, di Parigi, tenente della fanteria di linea della Grande Armée, aveva un bel da fare nel cercare di ripararsi dietro le tartassate difese del terrapieno, che davano la brutta impressione di essere ancora in piedi solo per un miracolo.

    I parapetti tremavano sino alle fondamenta sotto l’impatto dei colpi. Una parte franava, i grossi cesti ripieni di sterrato si spaccavano, crepe inquietanti facevano filtrare la luce, eppure alla fine resistevano, malconci, maltrattati, ma ancora solidi.

    Come la bandiera francese, che sventolava sbrindellata in cima al pennone incredibilmente indenne.

    I cannoni da assedio da diciotto e da dodici libbre rispondevano agli spagnoli con scoppi altrettanto devastanti. Schianti che toglievano il fiato, nubi nere e lunghe vampate che si spegnevano nel buio della notte con una pioggia di scintille infuocate.

    Il tenente sputò un grumo di saliva grigiastro, per liberare la bocca impastata.

    Il fumo della polvere da sparo era ovunque, addensato come una cappa pungente sulla batteria. Il più minuscolo spazio era ricoperto da uno strato di pulviscolo nerastro, ai quali gli artiglieri non facevano nemmeno più caso. Continuavano ad affannarsi attorno ai pezzi come fantasmi, scamiciati per sopportare il caldo irrespirabile provocato dall’estate andalusa e dalle canne incandescenti dei cannoni.

    Figure dalla voce roca confuse nel buio, così spesso che si sarebbe potuto tagliare a fette. Alcune, a torso nudo, avevano preso le sembianze di minatori. Non si distingueva un solo spicchio di pelle sul torace annerito grondante di sudore.

    Sibili sinistri tagliarono l’aria e lui, Julien Laboise, maledisse tutto il mondo. Inveì contro le gazzette che avevano presentato la campagna di Spagna come una passeggiata, contro i generali convinti che gli spagnoli sarebbero scappati alla prima fucilata e contro chi aveva diffuso sottovoce le storie sulle donne spagnole, pronte ad accogliere l’esercito francese con fiori e altro, molto più intimo.

    Non si era avverata nessuna di quelle promesse. Forse l’ultima, ma in quel momento era la meno allettante.

    Un contraccolpo più forte degli altri gli fece mancare il terreno sotto i piedi. Per non cadere si appigliò a uno spunzone di ferro che sporgeva dal parapetto sgretolato, poi si lasciò scivolare a terra. Si inginocchiò dietro il muraglione, con le mani sulla testa per proteggersi da una pioggia di terriccio tiepido che lo ricoprì quasi per intero.

    Il capitano Lavelle, dell’artiglieria della Grande Armée, si accucciò accanto a lui, il viso giovane stravolto dall’eccitazione.

    – Questa è arrivata vicina, tenente! – disse ridendo.

    Era esaltato dall’azione. Poteva capirlo. Era poco più di un ragazzo, venticinque anni appena compiuti e alla prima vera esperienza di guerra.

    Cinque anni meno di lui, che di esperienze di guerra ne aveva da vendere, però era ancora tenente. Pensò che lo sarebbe rimasto a lungo. Aveva alcuni peccatucci da scontare.

    Non riuscì a ribattere, con la bocca piena di terra. Del resto con il fragore infernale del bombardamento sarebbe stato impossibile capirsi.

    Si affacciò cautamente dal bordo, attento a sfruttare il riparo dei gabbioni pieni di terra.

    Il forte spagnolo era a meno di quattrocento metri, semi-diroccato dopo una settimana di bombardamenti. La metà dei cannoni era stata colpita e smontata, ma ne erano rimasti abbastanza da sommergerli con quel fuoco d’inferno.

    – Dobbiamo averli picchiati duro, tenente, se si sono incazzati così! – urlò il capitano, per farsi sentire oltre il frastuono secco delle cannonate.

    Come in risposta, una nuova grandine di pesanti palle centrò il terrapieno, che vibrò nuovamente fino sottoterra. Il Genio aveva fatto però un buon lavoro. Era uno dei corpi migliori della Grande Armée e anche questa volta Julien lo ringraziò dal profondo del cuore.

    Le sponde massicce e i gabbioni assorbirono l’impatto. Quasi del tutto. Una solitaria sfera nerastra sbrecciò il bordo, passò rasente sul terreno, lo toccò, rimbalzò, divise a metà un fantaccino che la sfortuna aveva guidato proprio sulla sua traiettoria e si perse lontano. Del soldato, un contadino spaesato di diciannove anni, rimase un lago di sangue denso di ossa frantumate e altre cose schifose sparpagliate sul terreno.

    Era un coscritto appena arrivato da un paesello della Borgogna. Sarebbe diventato uno dei tanti nomi seppelliti in terra di Spagna.

    Il giovane Lavelle aspettava una conferma, ma lui non riusciva a provare altrettanto entusiasmo.

    – Da una settimana li stiamo martellando, capitano. Non mi sembra che questa volta abbiano patito più delle altre.

    Il capitano doveva il grado al suo cognome altisonante, che gli aveva consentito di scavalcare molti bravi ufficiali più anziani di lui. Però non era uno stupido. Aveva riconosciuto in Laboise l’esperienza che gli mancava.

    – Che cosa pensa, tenente?

    Julien qualcosa pensava. Qualcosa di brutto. Si affacciò per una conferma, cauto. Fissò quell’onda di terra a trecento metri, che si incassava nel terreno proprio davanti al forte spagnolo. Non gli era mai piaciuta. Infida, subdola, traditrice. Ora, con quel che intravide, gli piacque ancora meno.

    – Guardi l’avvallamento, capitano. È ancora scuro, ma le fiammate aiutano.

    Il capitano si affacciò, forse un po’ imprudentemente, con il coraggio dell’inesperienza.

    Puntò un cannocchiale, frugò nel buio, poi si fermò su un punto. Pochi attimi e si ritrasse allarmato.

    – Ho visto delle ombre nascoste.

    – Anch’io, capitano. Ci attaccheranno. Le cannonate sono un diversivo per tenerci impegnati e prenderci di sorpresa.

    – Quella specie di duna è piccola, non può nascondere molti uomini. Non abbastanza per essere un pericolo.

    – Da lì partirà la prima ondata. Si prenderà le scariche iniziali e dietro arriveranno gli altri, molto più numerosi. Il grosso è concentrato dietro il forte.

    L’entusiasmo del capitano si era raffreddato.

    La ridotta costituiva il punto più avanzato delle linee d’assedio francesi. Non troppo lontana dal resto dello schieramento, ma nemmeno così vicina da ricevere i rinforzi con la rapidità necessaria.

    Entrambi si guardarono attorno.

    Non erano messi bene, non abbastanza da sopportare un attacco in piena regola. Durante la settimana anche loro avevano subito delle perdite, che non erano state rimpiazzate.

    Accanto ai pezzi trafficavano una quarantina di artiglieri, appena sufficienti a manovrarli, caricarli e rimetterli sulla linea di tiro.

    Laboise aveva con sé quel che restava di una mezza compagnia di fanteria di linea. Un’altra quarantina di uomini in giacca blu, panciotto e pantaloni bianchi anneriti dallo sporco. In quel momento erano inginocchiati nervosi dietro il parapetto, con i fucili stretti in pugno, in attesa che passasse la buriana.

    – Dobbiamo chiedere subito dei rinforzi, tenente – disse il capitano. – Mandi uno dei suoi al Comando.

    – Sarà la prima cosa che farò, ma non arriveranno troppo presto e gli spagnoli stanno per attaccare. Per un po’ dovremo cavarcela da soli.

    Il capitano incassò. Era chiaro che aveva sperato in una notizia migliore.

    – Che cosa consiglia, tenente?

    Julien non si aspettava quella richiesta di aiuto. Aveva già un’idea ma si era trattenuto dall’esprimerla, per il timore di irritare il capitano. Era un giovane impetuoso e avrebbe potuto sentirsi scavalcato. Con sua sorpresa invece si era rimesso a lui. Saggiamente.

    – Gli spagnoli devono continuare a essere convinti di prenderci di sorpresa. Io farei ritirare due pezzi da dodici, come se fossero fuori uso, per caricarli a mitraglia. Si beccheranno una bordata ravvicinata che non si aspettano e che gli farà passare la voglia.

    Il capitano non rispose nemmeno. Si precipitò a dare ordini, seguendo il consiglio appena ricevuto.

    Laboise cercò un pezzo di carta e un lapis nelle tasche.

    Seduto con la schiena contro il parapetto, scrisse un breve messaggio utilizzando la coscia come appoggio. Non fu semplice, sotto il bombardamento. La mano gli tremò per l’agitazione, per la fretta e per lo sconquasso delle cannonate, ma riuscì a rendere la scrittura sufficientemente leggibile.

    Tirò una pietra a un sergente poco distante. Era l’unico modo per richiamare la sua attenzione. Con quel frastuono non lo avrebbe sentito nemmeno se si fosse sgolato.

    Il sottufficiale, un baffuto quarantenne dallo sguardo sempre accigliato, si avvicinò carponi lungo il riparo del muraglione.

    – Che cosa ne pensi? – gli chiese, appena fu vicino.

    Si chinarono entrambi per ripararsi da una nuova cascata di terriccio, provocata da un colpo ben assestato.

    Il sergente aveva sulla groppa ancora più esperienza di lui. Era vissuto nell’esercito. A volte dava l’impressione di esservi nato.

    – Penso che gli spagnoli vogliono darci una buona passata, tenente. Ci arriveranno addosso.

    – Hai visto giusto. Sono già piazzati dietro la cresta.

    Il sergente tentò di sbirciare oltre il bordo, ma una nuova raffica di palle lo dissuase subito.

    Julien gli consegnò il foglietto piegato in quattro.

    – È una richiesta di rinforzi. Prendi un ragazzo sveglio e mandalo dal Comandante con questo messaggio. Deve volare.

    – Impiegherà un po’ di tempo – commentò l’altro. – Nel frattempo noi che cosa dobbiamo fare?

    – Fai schierare i nostri ma non devono prendere iniziative. Fagli capire a calci che spareranno solo quando lo dirò io.

    – La metà sono coscritti, tenente – rispose il sergente, con un affetto burbero. – Si faranno prendere dall’agitazione.

    – Allora ai coscritti darai una doppia razione di calci. Devono avere più paura dei tuoi scarponi che degli spagnoli. Dobbiamo resistere fino all’arrivo dei rinforzi e non possiamo tirare a vuoto.

    – Sarà fatto, signore. Non oseranno nemmeno respirare senza il mio ordine.

    Il sergente ripartì, sicuro di sé.

    Julien lo seguì con gli occhi, per controllare che eseguisse gli ordini come voleva lui. Il sergente chiamò a raccolta i caporali, li catechizzò aspramente e dopo un attimo i soldati erano appostati accanto alle feritoie lungo gli spalti, in una linea continua non troppo fitta.

    Il terreno davanti ai loro occhi si stendeva piatto come un piano di bigliardo, senza il minimo riparo. Il Genio si era preoccupato di ripulirlo da ogni ostacolo che intralciasse la linea di tiro.

    Gli spagnoli avrebbero patito quei trecento metri da percorrere allo scoperto. Rimaneva da chiarire chi avrebbe patito di più.

    Il tenente prese il moschetto. Proprio lì vicino, un colpo di mortaio aveva provocato una stretta apertura dalla quale si dominava un ampio spicchio di terreno.

    Appoggiò il calcio alla spalla e sistemò la canna sul bordo, puntata verso l’avvallamento.

    Qualche suo collega si sarebbe scandalizzato, ma non era il momento di fare lo schizzinoso. In quella situazione, un ufficiale che sapeva sparare era più utile di un ufficiale che pretendeva solo di comandare.

    Capitolo 2

    Uno schieramento compatto animò all’improvviso il delimitare della duna, decine di ombre anonime che sembrarono sbucare da sottoterra. Scavalcarono il bordo sassoso e si mossero in silenzio verso il terrapieno, a busto piegato.

    Julien li osservò. Procedevano veloci, minacciosi, ma con cautela, attenti a non tradire la loro presenza. Si erano convinti di poter giungere a ridosso del terrapieno di sorpresa, protetti dall’oscurità e dal fuoco violento del forte.

    Un’ottantina di uomini, non di più. Metà con la divisa bianca della fanteria regolare, armata di moschetti con la baionetta inastata. L’altra metà indossava camicie ampie, braghe e larghi cappelli. Civili, armati di tromboni, fucili da caccia, sciabole e navaja da assassini.

    La milizia, si disse Laboise. Guerrilleros, fanatici votati a una lotta senza quartiere, pronti a morire per Dio Re e per re Ferdinando.

    Non si sarebbero fermati di fronte a nulla. Solo le cannonate e le palle dei moschetti d’ordinanza Charleville avrebbero potuto spezzarne la corsa.

    Li guardò avanzare. Erano arrivati a duecento metri, tesi, pronti a scattare come fiere in caccia, ignari che decine di occhi li stavano puntando con pessime intenzioni.

    Julien si girò nervoso verso i cannoni, che ancora tacevano. Non dovevano aspettare troppo, o la bordata avrebbe perso efficacia.

    Nello stesso istante, due vampate dal terrapieno tolsero agli spagnoli ogni illusione di poter sorprendere la piccola guarnigione.

    Il capitano Lavelle aveva dimostrato di sapere il fatto suo. Aveva colto il momento preciso per tirare.

    Gruppi interi di attaccanti caddero in mezzo a un frullare di terra, fra spruzzi di sabbia rossa di sangue. Gli altri chinarono il capo come se si fossero trovati nel pieno di una tempesta, storditi, ma si ripresero subito. Un attimo dopo già volavano sulla striscia pianeggiante, con le armi in pugno, urlando la loro rabbia.

    Laboise lanciò una ennesima occhiata di controllo ai suoi uomini appostati. Dovevano mantenere la calma, prendere bene la mira e sparare a distanza ravvicinata. Non bisognava sprecare nemmeno una palla. Solo così potevano avere qualche speranza di resistere sino all’arrivo dei rinforzi.

    Si tranquillizzò nel vedere i soldati con il volto ingrugnito, i fucili puntati e le baionette inastate.

    Il sergente aveva preso sul serio i suoi ordini. Rosso in viso, urlava nelle orecchie di due coscritti che maneggiavano ammutoliti il moschetto, con la testa incassata fra le spalle. Il sottufficiale aveva la stoffa per tenerli in pugno.

    Il tenente aggiustò la mira sulla massa che correva verso di lui. In quel momento si accorse della calma discesa sul campo. Il forte spagnolo aveva smesso di sparare per non colpire i propri uomini, i difensori trattenevano il tiro e gli assalitori si erano zittiti, affaticati dalla corsa. Volevano solo raggiungere la batteria nel minor tempo possibile.

    La prima ondata era a sessanta metri. Riusciva ormai a distinguerne i volti dall’espressione stravolta. Rabbia e paura, annebbiate dal vino tracannato per darsi coraggio.

    La distanza giusta.

    Alzò il braccio per dare il segnale. Un attimo dopo la scarica dei fucilieri spezzò il silenzio innaturale. La fila spagnola, già maltrattata, barcollò. Si ridusse a un rado cordone disordinato, i pochi superstiti si sbandarono, ma alle loro spalle già sopraggiungevano le colonne di rinforzo. Almeno duecento uomini di fanteria regolare che avanzavano a passo di corsa, trascinando con loro una mezza dozzina di scale.

    Laboise bestemmiò. Un gruppo di una trentina di soldati biondi, con le divise verde scuro e sciaccò rigidi sormontati da un pennacchio, li affiancava.

    I tiratori scelti della fanteria leggera inglese. Ben addestrati e bene armati. Da rispettare. Avrebbero fornito una buona copertura con i loro maledetti rifles, precisi e a lunga gittata.

    Il capitano Lavelle dal canto suo non aveva perso tempo.

    I due pezzi da dodici tuonarono ancora una volta. La bordata spazzò il terreno piano. La grandine di palle tranciò braccia e gambe dei miliziani più vicini, in una nuvola di goccioline rosa, poi investì le colonne di rinforzo ormai a un centinaio di metri.

    File intere di divise bianche si ammucchiarono a terra. Julien sperò per un istante che gli spagnoli ne avessero avuto abbastanza, ma non fu così. Ci pensarono gli ufficiali a stimolare i superstiti, che si strinsero per proseguire l’assalto.

    I colpi ora fioccavano da tutte le parti. Dalle feritoie e dagli spalti partiva un tiro regolare che decimava la testa e i fianchi delle colonne, gli spagnoli rispondevano con scariche precipitose e i fucilieri inglesi, appostati dietro ripari improvvisati, battevano con un tiro accurato il bordo delle mura. Anche i francesi cominciarono a cadere, uno dopo l’altro.

    Non spirava un filo d’aria. Il fumo grigiastro saturo di zolfo e salnitro era sempre più pesante. Una coltre spessa, pungente, che riempiva la bocca, le narici e i polmoni e toglieva il fiato agli uomini già infiacchiti dal caldo.

    Laboise abbassò la testa, nell’udire un ronzio pericolosamente vicino alle sue orecchie, poi sparò di nuovo contro le file ormai a ridosso.

    Gli spagnoli erano malmessi, ne continuavano a cadere ma non smettevano di correre. Il terrapieno era lì, davanti a loro. Una volta raggiunto si sarebbero sottratti alle palle fitte come la grandine, avrebbero piazzato le scale e si sarebbero rovesciati all’interno. Lo avrebbero conquistato di slancio con il loro numero.

    Lavelle da parte sua non aveva nessuna intenzione di cedere il fortino che gli era stato affidato.

    Ordinò agli artiglieri di abbandonare i cannoni ormai inutili. Gli uomini accorsero agli spalti con i moschetti, giusto in tempo per sostenere l’urto delle prime file nemiche. Le divise bianche appoggiarono le scale, si afferrarono ai bordi, li scavalcarono, molti vennero infilzati dalle baionette ma gli altri dilagarono. La battaglia si spezzettò in innumerevoli piccoli scontri, in un corpo a corpo sanguinoso a colpi di coltello, daghe ricurve, calci di fucile e baionette.

    Laboise si guardò attorno, quasi insensibile al sangue e ai corpi che lo circondavano. Sentiva solo parlare spagnolo. Urla, intimazioni di resa, insulti.

    Non vi era più un ordine, ciascuno combatteva per conto proprio. Divise bianche e blu si erano mischiate, ma quelle bianche sciamavano dagli spalti sempre più numerose.

    Si era all’atto finale. La battaglia si sarebbe decisa dentro la ridotta.

    Abbandonò il moschetto scarico, estrasse la sciabola da ufficiale e si buttò nel mezzo della mischia.

    Si fece strada gridando come un pazzo. Cercò di riunire i soldati per riorganizzarli, imprecò sino a rimanere senza voce, li afferrò per le braccia quando indietreggiavano. Inutilmente. I suoi non potevano dargli ascolto. Pressati dal numero, stavano inesorabilmente cedendo.

    Era finita, pensò. O la morte o la cattura. Da quel che aveva visto, era meglio morire che cadere nelle mani della milizia o crepare di stenti sulle navi prigione di Cadice.

    Poi lo spiazzo si riempì di divise blu. L’aria fu attraversata da secchi ordini in francese e dal battere del tamburo, che segnava la marcia con la cadenza a lui così famigliare.

    Come un miracolato fissò le compagnie ben inquadrate del suo battaglione, giunte in soccorso proprio all’ultimo minuto. Volti conosciuti, alcuni anche di amici. Almeno per quel giorno avrebbe continuato a vedere il sole splendere. Non sarebbe morto e non sarebbe finito sulle navi prigione ad attendere la fine.

    La stanchezza passò di colpo. Radunò i suoi, quelli rimasti, per condurli all’assalto finale insieme ai rinforzi. Voleva farla finita per potersi dissetare.

    I fanti spagnoli furono travolti. Si ritirarono verso il muraglione, demoralizzati, circondati, spinti dalle punte delle baionette, alla ricerca di una via di salvezza. Qualunque via di salvezza, anche la resa.

    Molti buttarono i fucili e si inginocchiarono, con le mani alzate, spiccicando le poche parole di francese che conoscevano. Altri riuscirono a scavalcare le mura con la forza della disperazione. Appena toccata terra si misero a correre disordinati nella piana che li separava dal forte, inseguiti dalla moschetteria francese.

    I tiratori inglesi rimasero al loro posto per proteggere la ritirata, poi, due o tre alla volta, si unirono agli spagnoli, finché non lasciarono libero il campo. Non tutti. Alcuni corpi biondi in divisa verde rimasero sul terreno, immobili, con le dita rattrappite sui fucili. Avevano compiuto il loro dovere fino alla fine.

    Il crepitare secco della sparatoria cessò del tutto. Ogni rumore fu coperto dalle grida di vittoria. I soldati in blu si accalcavano sugli spalti, si abbracciavano e ridevano eccitati. Incominciarono subito a girare fiaschette di cordiale che si svuotarono in fretta.

    In un angolo, altri soldati con i moschetti puntati controllavano un gruppo di prigionieri spagnoli. Ragazzi con i capelli neri, impauriti. Erano seduti a capo chino, ma sul viso si leggeva anche il sollievo di esserne usciti vivi. Qualcuno guardava impietosito i corpi senza vita dei compagni riversi nello spiazzo, con le divise bianche inzuppate da larghe chiazze vermiglie.

    Probabilmente compagni di bevute, di scherzi ideati insieme, di malinconiche passeggiate nelle libere uscite con il pensiero verso casa.

    Il fumo, lentamente, iniziò a disperdersi. Permase solo il puzzo di zolfo che faceva lacrimare gli occhi e bruciava la pelle.

    Julien si tenne in disparte. Questa volta se l’era vista così brutta da non avere nessuna voglia di esultare. Avrebbe solo voluto dell’acqua fresca per spegnere il fuoco che gli divorava la gola.

    Vide il capitano avvicinarsi, pallido sotto la coltre di fuliggine. La sciabola che impugnava gocciolava di sangue.

    Lo accolse con un saluto quando gli si fermò accanto. Il viso da ragazzo cresciuto mostrava tutte le sue emozioni. Era orgoglioso, stanco, teso e sfinito.

    Laboise viveva nell’esercito da anni e aveva combattuto diverse battaglie. Conosceva quello stato d’animo. Lo aveva provato anche lui, tanto tempo prima.

    – Abbiamo vinto! – esclamò il capitano, quasi stupito.

    Aveva parlato per rompere il silenzio, ma era evidente che voleva dire qualcos’altro.

    Fremeva per dirlo.

    – Grazie, tenente – aggiunse, con una sincera riconoscenza. – Senza di lei non credo che sarei riuscito a reggere.

    Julien lo guardò. Questa volta fu lui a essere stupito per il riconoscimento. Non era così scontato riceverne da un superiore.

    – Non deve dirlo, capitano. Era lei al comando. Diciamo che siamo stati tutti bravi, ciascuno ha fatto il proprio dovere.

    Lavelle appariva confuso, come se non si capacitasse della vittoria. Julien pensò che forse non aveva ancora compreso il concetto più semplice e importante.

    Ci pensò lui a spiegarglielo. Il capitano doveva imparare in fretta. La guerra non aspetta.

    – Le battaglie non sono diverse fra loro, capitano – gli disse, con amarezza. – Seguono tutte la medesima regola. Vince chi ammazza di più. Vedrà che alla prossima le sembrerà tutto naturale.

    Capitolo 3

    Il termine paese era ridondante. In realtà quell’agglomerato era poco più di un villaggio, un pugno di case bianche sulla strada diretta a Cadice, costruite attorno alla chiesa modesta. Un borgo con un emporio per i contadini del circondario, una bettola sporca e fumosa e una specie di locanda per i viandanti più poveri, che non avevano mezzi sufficienti per trovare ospitalità nella città.

    Da quando era iniziato l’assedio il borgo era stato occupato dai soldati dell’armata francese.

    Era divenuto la sede del Comando e una zona senza legge, un punto di ritrovo nel quale era possibile reperire quello che serviva.

    Alcuni spagnoli non troppo patriottici avevano allestito un mercatino ben fornito, dove i soldati scambiavano e barattavano quanto avevano saccheggiato. Erano sorte altre due bettole per gli occupanti, meno sordide di quelle locali, che offrivano cibo decente e vino mediocre che non mandava all’ospedale.

    I soldati non erano gli unici clienti. Vi bazzicavano anche pendagli da forca che passavano la giornata a bere e giocare a carte, in attesa di piazzare la loro merce. Una merce molto ricercata. Ragazze giovanissime dagli occhi neri già smaliziati, trecce lunghe sulla schiena e la pelle morbida scurita dal sole.

    A dire dei loro papponi erano tutte sorelle, cugine o nipoti rimaste sole, con un bambino da mantenere. I soldati fingevano di credervi e la compravendita appariva quasi uno scambio di generosità. La Francia era lontana e la solitudine era una brutta bestia per tutti.

    Julien incrociò un uomo, un artigiano a giudicare dal vestito non dimesso, che si schivò al suo passaggio.

    Julien non vi diede peso. Era abituato ormai. L’atteggiamento degli abitanti era rimasto ostile come il primo giorno dell’invasione, senza alcun segno di apertura o di amicizia.

    Si mostravano poco per non avere a che fare con gli occupanti della loro terra. Quando proprio erano costretti ad avere contatti con loro si limitavano a rispondere a monosillabi, senza preoccuparsi di nascondere il disprezzo.

    Il tenente si diresse verso la locanda, riconoscibile grazie alla bandiera francese che pendeva, floscia, da un pennone fissato sopra la porta d’ingresso.

    Era la costruzione più grande del paese. Per questo motivo era stata confiscata con l’idea di sistemarvi il comando del reggimento.

    Faceva caldo. Un caldo asciutto, sabbioso sotto il sole cocente della piena mattinata.

    Laboise si asciugò la fronte sudata. Moriva dalla sete. La bocca sapeva ancora di terra e polvere da sparo, residui della battaglia del giorno prima.

    In più era stanco. Aveva dormito male, per il caldo e la tensione. Quando cercava di chiudere gli occhi il buio si riempiva di fiammate e di facce stravolte.

    Nella ridotta aveva temuto di dovere fare i conti con gli ultimi istanti della sua vita. Il destino però aveva deciso in altro modo, seguendo la sua logica incomprensibile.

    Due piantoni armati di moschetto, con la divisa impolverata, scattarono sull’attenti mentre attraversava la porta d’ingresso.

    Laboise cadde nella malinconia, come sempre appena metteva piede nella stamberga.

    Il piano terra era adibito a corpo di guardia, dove i soldati di servizio ciondolavano annoiati. Si era cercato di renderlo più accogliente. Il pavimento veniva lavato e spazzato di frequente, quadretti erano appesi alle pareti scrostate, alternati ai grandi fogli stampati con le disposizioni di servizio, ma senza grandi risultati. L’ambiente restava spoglio e squallido, impestato dal puzzo di fumo e di cibo rancido che ancora impregnava i muri.

    Gli venne da rimpiangere il periodo di guarnigione passato in Germania. Lì era tutto ordinato, le bettole erano pulite, sapevano di buona birra, di polli allo spiedo, di pane appena sfornato e di tabacco. E le cameriere avevano quelle belle tette grosse e bianche che straripavano dai corpetti.

    Cercò di accontentarsi dell’accenno di refrigerio originato dalle pareti spesse, che bene o male mitigavano la calura. Salutò il sergente seduto alla scrivania, poi affrontò la scala che portava al piano superiore. Sopra si trovavano quattro grandi camere, che in tempi migliori venivano utilizzate per stipare i viandanti in letti di fortuna, e un paio di stanze più piccole.

    Adesso erano diventate uffici per gli ufficiali e i sottufficiali del comando. Ripulite e imbiancate, arredate con scrivanie, stampe e tappeti, offrivano un’immagine decorosa alla quale non erano abituate.

    Bussò alla porta socchiusa dell’ufficio del Comandante. Alla risposta si affacciò discreto e incrociò lo sguardo di Duprès, Capo di Battaglione, un uomo forte e sicuro di sé. Anche lui era abbastanza giovane, non più di una quarantina d’anni. Un ufficiale in gamba, con un sano equilibrio di coraggio e prudenza.

    Negli ultimi tempi però era cambiato, come molti altri. L’atteggiamento serioso si era mutato in un fare paterno che non lo lasciava mai. Julien in merito si era fatto una sua convinzione. Forse nei coscritti spediti a centinaia dalla Francia, ragazzetti privi di addestramento confusi e spaventati, Duprès vedeva i figli adolescenti rimasti a casa.

    – Mi ha fatto chiamare, Comandante?

    Duprès era seduto alla scrivania, autorevole nella divisa regolamentare, priva dei vezzi in uso fra molti ufficiali.

    Interruppe i tentativi di rimettere ordine fra i fogli sparpagliati sul ripiano. Con un cenno innervosito gli fece cenno di entrare.

    – Sì, tenente – brontolò. – Il mio sergente ha la scrivania sempre in perfetto ordine. Io sposto i fogli da una parte per metterli dall’altra e il risultato è sempre quello. Sposto solo

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