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PARTENOPE: Storia di una brigantessa
PARTENOPE: Storia di una brigantessa
PARTENOPE: Storia di una brigantessa
E-book441 pagine6 ore

PARTENOPE: Storia di una brigantessa

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Info su questo ebook

1860, Giovanni Cesareo di Borbone, nonostante la sua discendenza, decide di schierarsi con l’esercito Sabaudo, diventandone uno dei più importanti e valorosi ufficiali. Quando, però, stabilisce di rientrare a casa, nella sua bella Sicilia, il suo più caro amico lo pugnala alle spalle, facendolo arrestare come disertore.
Gli eventi precipitano e la famiglia di Giovanni è costretta ad abbandonare la casa e l’isola, per fuggire a Napoli: Annarella, sua moglie, e le due figlie, Lucia e Partenope, si rifugiano in una dimora storica, nascondendosi nell’attesa e nella speranza che la situazione si calmi. La giovane Partenope è affascinata, quasi rapita dalla città, così come sarà rapita dagli occhi di Carmine, figlio di uno dei più spietati boss della zona, in una storia d’amore tanto travolgente quanto impossibile. Ma Partenope non sa ancora che questo sarà solo il primo passo della nuova vita che l’aspetta, perigliosa, infida e terribile, ma piena di coraggio, una vita che farà di lei la madonna brigantessa e la renderà famosa in tutta l’Italia unita.

Francesco Lutri nasce a Piedimonte Matese, provincia di Caserta, nel 1996. Dopo la laurea in Scienze Politiche presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”, si cimenta nella recitazione, nel doppiaggio e nella regia cinematografica. Contemporaneamente coltiva la sua passione per la scrittura, con la sua prima opera, la trilogia di Partenope, come frutto del suo amore per il mare e come omaggio alle sue amatissime origini siculo-napoletane.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9788830680708
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    Anteprima del libro

    PARTENOPE - Francesco Lutri

    piatto.jpg

    Francesco Lutri

    PARTENOPE:

    Storia

    di una brigantessa

    trilogia

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7445-5

    I edizione marzo 2023

    Copertina di Giulia Lutri

    Finito di stampare nel mese di marzo 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    PARTENOPE: storia di una brigantessa –

    trilogia

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    I LUOGHI DI PARTENOPE

    PARTENOPE AGONIA DEL MARE

    Capitolo 1

    FANGO E SANGUE

    È il 1860. In una zona anonima della Calabria una feroce battaglia imperversa. I garibaldini stanno subendo grosse perdite contro l’esercito borbonico, su quella che prima era una campagna verde e rigogliosa, ma che oramai è stata resa impervia e brulla dai crateri lasciati dalle cannonate. Soccombono sotto i colpi dell’artiglieria, falciati dai fendenti delle baionette, investiti dalle cariche dei cavalli, mentre le effigi duosiciliane sventolano, già vittoriose. Il frastuono furente dello scontro echeggia fin sopra un’altura, lì dove una camicia rossa, lercia ed insanguinata, corre anelante verso la tenda comando di Garibaldi. Conferitagli la scabrosa notizia delle ingenti perdite, il generale non ha scelta: si reca da Giovanni, grande guerriero e comandante della cavalleria. Questi, non appena lo vede, capisce immediatamente il motivo della sua presenza. Gli è infatti capitato più volte che quell’uomo, corrugato e barbuto, si recasse presso di lui per chiedergli aiuto nei momenti più difficili. Non lo ha mai deluso, ha sempre portato i suoi uomini alla vittoria. Tuttavia, stavolta Giovanni non può che sospirare. È reticente e restio a combattere: – Mi avevate promesso che non avrei più combattuto, che sarei tornato dalla mia famiglia.

    – Hai ragione, Giovanni, e credimi, sono desolato. Capisco il peso della mia incoerenza, ma questa è l’ultima volta che chiedo il tuo aiuto, lo giuro! Dopo questa vittoria la strada per Napoli sarà nostra. E allora avrai dato tutto quello che avresti mai potuto dare.

    – Stando così le cose... eseguirò l’ultimo ordine del mio liberatore.

    – Hai la mia parola.

    Giovanni raduna i suoi cavalieri. Brandendo la sua spada ricurva, li guida alla carica calando lungo le pareti della montagna. L’obiettivo: accerchiare le truppe duosiciliane. E mentre cavalca seguito dal frastuono dell’incedere di trenta cavalli alle sue spalle, Giovanni si volta. Dietro di lui, Tommaso, suo grande e fedele amico, gli sorride, fiducioso che anche questa volta vinceranno. Garibaldi viene issato su un cavallo da due dei suoi. Quell’uomo, solido e fermo, resta sulle alture a godersi lo spettacolo, all’altezza di pochi malconci cannoni, che continuano a sparare freneticamente ed incessantemente sul nemico. Così quella schiera di cavalieri sorprende alle spalle i borbonici, irrompendo nella mischia e sbucando fuori dai cespugli. Le camicie rosse, che erano già presenti sul campo, avevano aspettato per tutto il tempo quella visione: Giovanni e i suoi, la più grande garanzia di vittoria. Si sollevano dal fango e alzano i loro vessilli in alto. I tricolori ondeggiano, avanzando tra i colpi e i detriti della battaglia. Insieme a Giovanni, stringono i nemici in una morsa mortale. Questi cadono a terra, uno dopo l’altro. I loro ufficiali cascano giù dai cavalli rampanti, terrorizzati, sporchi degli umori dei soldati e dei loro simili. Giovanni ad un tratto è lì, nel fango, così come lo è anche il suo cavallo, agonizzante e ferito. Una volta alzatosi, scorge davanti a sé una guardia borbonica corrergli incontro, incurante di tutto il resto, con la parte inferiore dell’asta del suo vessillo, appuntita, rivolta verso di lui, pronta a trafiggerlo. Giovanni aveva visto tante volte la morte in faccia e sempre era riuscito ad ingannarla. Questa volta non avrebbe fatto eccezione. Prende l’asta del tricolore e allo stesso modo corre verso il suo nemico. Ma all’improvviso, tutto viene oscurato da un’ondata di detriti, insieme ad un enorme frastuono: una granata è appena esplosa in mezzo ai due. Subito dopo, la polvere lascia spazio ad un fumo denso e sporco. Tutti gelano nell’immaginare, una volta dileguatosi, cosa potrebbero vedere: due cadaveri maciullati, compreso quello di Giovanni. Ma da quel fumo emerge una sola bandiera, il tricolore, con la croce sabauda. In basso, l’uomo che la regge: Giovanni, rannicchiato, lurido, stracciato, ma miracolosamente vivo, illeso, fatta eccezione per una ferita all’occhio destro, reso vitreo e cieco per via di una scheggia. Tutti lo acclamano, tutti lo adorano. Lo tirano su, in piedi, e ricominciano a sventolare quella bandiera, in un campo disseminato da carcasse, umane ed equine, tutti uguali, morti, dilaniati, come le divise e le effigi che recano, rese ormai scialbe e prive di ogni valore e significato dall’orrore della guerra. Garibaldi, da lassù, non vede i cadaveri, ma solo quella bandiera, danzante, gioiosa, colorata, unico segno di vita in quell’inferno di morte. E sorride, prevedendo la sua prossima avanzata. Giovanni sente ancora echeggiare il suo nome, che viene inneggiato vigorosamente dai suoi uomini. Ma lui non offre soddisfazioni, non sembra importargliene. Non sorride, non esulta, non si compiace. Neanche gli occhi e il sorriso di Tommaso possono distrarlo da ciò che sta osservando: il vessillo borbonico della sua controparte sconfitta, strappato e spezzato, giacente sul fango impregnato di viscere e sangue. Il giglio che vi è rappresentato non gli è sconosciuto. Anzi, gli è familiare, molto familiare: quello stesso giglio è inciso sul ciondolo di corallo che porta con sé. Ricorda ancora vividamente il giorno in cui sua moglie gliene cinse il collo, di fronte al cortile della sua villa in Sicilia, prima della sua partenza, quando sua figlia era rivolta di spalle... e si rifiutava di salutarlo.

    Capitolo 2

    UN’AMARA NOTIZIA

    In Sicilia, lo stesso ciondolo è tenuto legato al bracciale di una ragazza. Ondeggia mosso dalle lievi correnti del mare, mentre costei è immersa in acqua. Apre gli occhi: sono rivolti verso la superficie, una distesa liquida e mobile, attraverso cui i raggi del sole irrorano la loro luce prorompente tra le lievi increspature dell’acqua. Penetrano nel blu fino ad accarezzare, tremolanti e repentini, le superfici ruvide delle rocce sommerse, ricoperte da chissà quali e quanti tipi di crostacei, conchiglie, alghe. E tutt’intorno, i pesci amano danzare. La fanciulla sente di essere come una fibra del mare, una creatura al pari di quegli esseri, e a rompere quell’onirica, dolce e sospesa illusione, c’è solo un repentino arco di tempo, quanto basta per lasciarsi portare su, in superficie. È come se le delicate braccia invisibili del mare la portassero in alto. Esce fuori dall’acqua. Un velo sottile e bagnato aderisce alla pelle del suo corpo, ricalcandone ogni sinuosa e sensuale curva. I suoi capelli bruni calano sulle spalle e davanti ai suoi occhi, occhi che si aprono ridenti, vitali, luccicanti al sole, proprio come il mare. Dopo aver fatto il bagno, si mette a passeggiare lungo le scogliere, lasciandosi asciugare con la brezza marina, coadiuvata da quel calore di metà luglio. I suoi capelli e la sua pelle, leggermente bronzea, ora sono asciutti, pregni di un aroma di sale. Si pone addosso delle vesti più consistenti, vesti regali, eleganti, setose, colorate, ricamate. Prende il suo cavallo e corre lungo la costa diretta verso casa. Attraversa le steppe dalle erbe essiccate, maculate dalle fronde di olivi e carrubi, forti, robusti, mentre gli zoccoli del suo equino calpestano gli arbusti incastonati nella roccia. Infine arriva a destinazione, alla sua villa di famiglia, una immensa costruzione di pietra rosa. Oltrepassa il suo cortile: una distesa di siepi, aranci, limoni e vitigni, seguendo il vialetto in sterrato, verso il portone d’entrata, semiaperto. Posato il cavallo, piena di vitalità, si reca all’interno. Vede sua sorella, Lucia, che scende di corsa le scale. L’abbraccia forte, baciandola su entrambe le guance. Ecco che, più in là, dinnanzi alla porta dell’ufficio di sua madre, vi è la figura di un uomo retto, baffuto, composto: Roberto, il maggiordomo fidato della sua famiglia, l’uomo più buono e disponibile della casa. Lei lo saluta, e lui ricambia dandole il solito pizzicotto sulla guancia, al quale la fanciulla ha sempre risposto con un sorriso.

    – Mamma è dentro? – gli chiede, vedendo la porta dell’ufficio chiusa.

    – Sì, cara, meglio non disturbarla. Annarella sta sbrigando questioni importanti.

    Proprio in quel momento, la porta della stanza si apre e vi escono delle facce losche. Tra le tante è subito riconoscibile quella di Don Calò, famoso e temuto signorotto del paese. Ai suoi lati due camicie rosse armate e dietro di lui un gruppo di suoi scagnozzi. Lei guarda dritto nei suoi occhi, freddi, soffocati dalle rughe flaccide delle sue palpebre. Roberto lo saluta imbarazzato. Il signorotto siciliano ricambia con un cenno del capo e con un ghigno, per poi andarsene insieme ai suoi picciotti. La ragazza allora entra nell’ufficio. Sua madre Annarella è lì, assorta in chissà quali pensieri, rivolta di spalle verso la finestra, a vedere i suoi ospiti ritirarsi verso una carrozza, in sosta fuori dal muretto del cortile. Sentiti gli inconfondibili passi di sua figlia, la donna si volta. La fanciulla non vede nulla di rassicurante in quei suoi occhi, occhi cupi e chini.

    – Mamma…

    – Ciao, Partenope.

    – Cosa c’è?

    La donna esita. Non riesce a parlare.

    – Mamma, ti prego, parlami. Ho visto Don Calò, cosa è successo? – insiste la figlia.

    Piena di amarezza in petto, la donna risponde, con un filo di voce, tremolante e mortificato. – Dobbiamo andare via.

    Partenope non crede alle sue orecchie.

    – Cosa?

    – Hai capito bene, dobbiamo lasciare la nostra casa, lasciare la Sicilia. – Partenope tiene gli occhi aperti dallo sgomento e scuote la testa incessantemente, mentre Annarella continua a spiegarle la cosa: – La dittatura di Garibaldi ci ha completamente spodestato. Don Calò ci ha intimato di lasciargli la casa. I garibaldini sono con lui. Dobbiamo andarcene, via, dove la nostra giurisdizione non è ancora discutibile.

    Partenope serra la bocca, poi sputa fuori ogni sua riserva: – È colpa tua... è colpa tua! Hai lasciato che papà partisse con quel nano nordico barbuto. Hai lasciato che ci tradisse, a te e a me, sua figlia... sai bene che se stiamo facendo questa fine è perché tu l’hai lasciato andare. Quel brutto traditore del suo sangue!

    In quel momento Partenope nota un cambiamento di espressione sul volto di sua madre. I suoi occhi mutano forma. Cominciano a fremere di rabbia. Immediatamente Annarella le si fa vicino, svelta, infuriata. Partenope trema, sa cosa significa l’espressione di sua madre in quel momento, ma non retrocede. La fissa negli occhi in segno di sfida, impassibile di fronte al suo incedere. Basta un attimo impercettibile, che il bruciore sulla sua guancia non tarda a farsi sentire… il bruciore dello schiaffo che Annarella le ha appena dato. Ma non passa un secondo che costei, ancora una volta, cambia totalmente atteggiamento: ora le sue braccia la avvolgono, le sue mani le strofinano la guancia rossa per addolcirne e allenirne il bruciore, le sue dita asciugano le prime lacrime che le calano dalle palpebre. Ora il suo volto esprime… rimorso: – So che è difficile capirlo per te, ma io amavo tuo padre... ah, Giovanni. Non è stato facile neanche per me lasciarlo andare, sai? Ma ho pensato che fosse la cosa giusta da fare, ho dovuto farlo! Non c’è amore se non si rispettano le libertà di chi si ama.

    – L’hai lasciato libero di renderci schiavi!

    Partenope si svincola dall’abbraccio si sua madre. Corre via, fuori dalla porta della sua villa, trascinando con sé sua sorella per mano. Annarella resta lì assorta nei pensieri, finché Roberto non le si accosta.

    – Signora, non vi rammaricate, vedrete che tutto si sistemerà. Vi faccio vedere che quando arriveremo a destinazione, la ragazzina sprizzerà gioia da tutte le parti.

    – Lo spero. Grazie del conforto, Roberto, voi siete un brav’uomo – sorride lei.

    Partenope prende il suo cavallo e con Lucia esce fuori per godersi l’ultima giornata nella sua cara Sicilia.

    Capitolo 3

    DISERTORE

    Ora è proprio arrivato il momento, il momento tanto desiderato. Dopo tanto lottare, dopo tanta violenza, adesso arriva il ben meritato riposo. Giovanni saluta il suo fedele amico Tommaso, una volta per sempre, per il suo congedo. Quella guerra aveva forgiato tra i due una lunga solidarietà, una ferrea fiducia, che brilla nei loro stessi sguardi.

    – Giovanni, fai buon ritorno a casa, è stato un onore combattere con te, sotto la tua guida.

    – Grazie, Tommaso, l’onore è stato mio, amico. Non ti dimenticherò.

    I due si stringono vigorosamente in un fraterno abbraccio, per poi separarsi. Ma le cose non sono mai semplici: Giovanni in realtà sa che deve ancora accertarsi della sua facoltà di partire, ma considera la cosa come una mera formalità. Così si reca dall’ufficiale di Garibaldi, nella tenda di comando, per averne conferma.

    – Allora, è tutto pronto per la mia partenza, posso andare?

    L’ufficiale sorride e lo saluta: – Oh, il grande Giovanni Cesareo, il borbonico che combatte contro i borbonici. La gloria della guerra fa brutti scherzi, eh?

    – Io combatto contro i borbonici ma non tradisco la mia famiglia. Loro sono una cosa a sé. E adesso vorrei raggiungerla. Il mio compito è finito qui, no?

    – Be’, sì... ma... – tentenna l’ufficiale.

    – Ma cosa?

    – Siete sicuro di voler fare ritorno a casa vostra, in Sicilia? Ormai è una terra bruciata, non c’è nessuna attività produttiva o speranza di progresso. Hai presente le fabbriche di seta? O le reti di comunicazione telegrafica? Stiamo per chiuderle, tutte quante. Insomma, uno come te... è un vero peccato che non abbia nessun’altra scelta se non di fare il pescatore o il raccoglitore di limoni, ti pare?

    Giovanni si mostra sempre più impaziente e irrequieto.

    – Vorrei tornare dalla mia famiglia. Di come gestirò la mia vita lì è affar mio.

    – Giovanni, riflettete! Voi siete un grande combattente, avete vinto e fatto vincere tante battaglie. Potreste entrare nei libri di storia! Volete lasciare la gloria solo a quel vecchio pazzo di Garibaldi? Detto fra me e voi…

    – Perché? Cosa mi si nasconde qui? Cosa avete in serbo per me?

    L’ufficiale sospira e indugia per un po’, facendo cadere un silenzio tombale nella tenda, prima di dare la risposta: – Non puoi più tornare dalla tua famiglia!

    Giovanni resta sbalordito e incredulo: – Cosa?!

    – Hai capito, non puoi tornare dalla tua famiglia. Il governo piemontese conosce le tue gesta e ha richiesto la tua investitura come ufficiale dell’esercito italiano.

    – Non c’è nessun esercito italiano.

    – Oh ma ci sarà! Questione di qualche mesetto. La strada per Napoli è libera. Qualche battaglia senza di te si può fare. Un po’ di manovre corruttive e Garibaldi vi arriverà tranquillamente in treno.

    – Dite al governo che ringrazio dell’offerta, ma non posso accettare.

    – Forse non ci siamo capiti... non è un’offerta. È un ordine, proveniente direttamente da Torino.

    Giovanni allora inizia ad aumentare il tono della sua voce, terribilmente irritato: – Per quel che mi riguarda, l’Italia non è stata ancora fatta e Torino non ne è ancora la capitale. Ho avuto la parola che sarei tornato a casa, ebbene, io tornerò a casa, con o senza autorizzazione!

    Giovanni si volta e si incammina a capofitto verso il suo cavallo, ormai già pronto, equipaggiato di ogni approvvigionamento per il lungo viaggio. Vi sale in groppa, indossando ancora la divisa da garibaldino con la sua spada, dopodiché incita il cavallo a partire. L’ufficiale esce fuori dalla tenda. Non mostra resistenza alla partenza di Giovanni e lo lascia andare. Lo segue con lo sguardo, mentre cavalca via, fino a scomparire. Allora si dirige verso Tommaso. Lo vede sistemare le armi e parlare insieme ad altre camicie rosse. Lo chiama a gran voce. Questi si volta e l’ufficiale fa cenno di seguirlo. Tommaso esegue.

    Capitolo 4

    LA MADRE E LA FIGLIA

    La sera stessa, Partenope e sua sorella restano sedute fuori, sul terrazzo della loro dimora.

    – Ci credi, Lucia, che questo panorama non lo vedremo più?

    – Lo sai, sorella, che non ho mai dato importanza alla bellezza della natura come fai tu. Per me un luogo vale un altro.

    – Ti invidio tanto, Lucia.

    Poi Partenope si alza e si poggia sulla ringhiera, senza distogliere la vista dal paesaggio. Inizia a commentarlo bisbigliando, come un’intima preghiera: – È l’ultima volta che ti vedo, Sicilia mia. Vedo per l’ultima volta le luci scintillanti del paese da questa terrazza, la campagna silente ed immensa che si estende fino al mare d’argento, sereno alla luce della luna.

    Rimane lì per un po’, senza muoversi, senza dire nulla. Stavolta sono solo i suoi pensieri a parlare, tanto profondi da non poterli pronunciare. Poi si volta verso sua sorella.

    – Io vado a letto, Lucia.

    ***

    Partenope resta a singhiozzare seduta sul letto, guardando la luna dalla finestra, mentre la sua luce d’argento irrompe dentro la camera, rivelando ogni mobile. Ecco che la porta si apre dolcemente, senza un filo di rumore: Annarella entra dentro. Partenope non si volta, non contesta, non parla, mentre sua madre si siede accanto a lei. Le pone dolcemente le dita sotto il mento e le volge la testa verso di lei, in modo che la guardi. Vede gli occhi di sua figlia, occhi rassegnati, occhi piangenti, lucidi e scintillanti, dalle pupille nere come il fondo della sua tristezza. La ragazza cede all’abbraccio, si accascia completamente sul petto di sua madre, accarezzata dalle sue mani: – Non piangere. Non piangere – sussurra. – Scusami se sono stata dura ma…

    – No, mamma, scusa tu. Io… voglio solo rivedere mio padre.

    – Lo so. Manca anche a me, sai? Ma un giorno lo rivedrai. Ti prometto che lo rivedrai... e ti prometto anche che... il posto in cui andremo ti piacerà tanto, proprio come la Sicilia. Vedrai che anche se questo regno dovesse finire, noi ce la caveremo.

    Restano lì, strette tra le braccia, inamovibili e silenziose.

    Capitolo 5

    ADDIO, SICILIA

    Le coste e le colline della Sicilia si allontanano sempre di più, mentre il vascello si inoltra nel mare progressivamente più aperto ed immenso. Partenope guarda quella terra salutarla per sempre. Si sente vuota, scialba. Sa benissimo che sta lasciando un pezzo del suo cuore: quella terra non è solo un ammasso di roccia e terreno in mezzo al mare, è una spugna che ha assorbito la sua vita, la sua essenza, il suo spirito, fin da quando era piccola. Quei monti paglierini, levigati dalla brezza di quel mare che aveva da sempre amato, sembrano piangere anche loro, con il sole che tinge i loro zigomi con pennellate dorate. Le spighe di grano, mosse dal vento, ondeggiano lungo le pareti dei colli, come in un saluto, come per dirle addio: è così che lo interpreta Partenope. Nei suoi pensieri lei ricambia. Sua madre la guarda, impotente di fronte a quel triste spettacolo: sua figlia appoggiata al ponte della nave, immobile, con la sua veste e i suoi capelli sbatacchiati dal vento, un vento che si fa sempre più forte quanto più aumenta la velocità del vascello, accompagnato dall’incessante sbuffare del vapore dei suoi fumaioli. Dietro di sé lascia una lunga scia di spuma bianca, che si stringe sempre di più ad imbuto verso l’orizzonte, dove oramai della Sicilia non resta che una sottile striscia di terra, sospesa tra cielo e mare.

    Capitolo 6

    TRADIMENTO

    Sono passati diversi giorni da quando ha lasciato il fronte. Adesso, finalmente, Giovanni vede da lontano la sua vecchia dimora. Immediatamente il suo cuore si riempie di euforia e gioia. Dimentica subito le fatiche che ha accumulato durante il viaggio ed incita il cavallo a correre verso la villa. Attraversa il vialetto del cortile, sorridendo, impaziente di abbracciare sua moglie e le sue figlie, aspettandosi la loro reazione di gioia e commozione. Arrivato davanti al portone d’ingresso, scende da cavallo e vi si fionda bussandovi vigorosamente con il pugno.

    – Annarella, Annarella sono qui, sono tornato! – urla Giovanni, pregno di contentezza, ridacchiando, senza smettere di battere la porta. – Partenope, Lucia, aprite! Sono papà, sono tornato! – continua imperterrito.

    Quando però la porta tarda ad aprirsi, Giovanni smette di ridacchiare e si riempie di sospetto. Nota il tombale silenzio circostante: solo il leggero fruscio delle piante del giardino mosse dal vento. Stavolta non bussa più alla porta, ma comincia a sbattere forte, con l’intenzione di forzarla, di sfondarla. Poi nell’aria si solleva una risata, grave, macabra e rauca. Giovanni inorridisce quando la riconosce. Alza lo sguardo sopra di lui, da dove proviene. Le sue paure in un attimo si concretizzano: sul terrazzo, Don Calò lo fissa con aria sprezzante.

    – Giovanni, siete tornato! Che bella notizia. Volete trasere? E vi faccio trasere io…

    – Dove sono mia moglie e le mie figlie? – lo interroga Giovanni, ma ciò che sente è ancora la risata del signorotto, mentre rientra all’interno del balcone.

    Quando la porta principale si apre, Don Calò gli si presenta davanti con i suoi picciotti. Giovanni si butta nel tentativo di superarli ed entrare, ma gli scagnozzi lo trattengono e lo respingono fuori.

    – Calma, calma. Vossia è troppo irrequieto... qui non c’è nuddu. È casa nostra, ora – dice Don Calò col suo solito ghigno sulla faccia.

    – Come sarebbe a dire? No, no, questa è casa mia!

    – Non vi allarmate, il governo ha già pensato a una nuova casa per vossia. Mica la lasciamo a piedi?

    E da dietro, una voce, a lui molto conosciuta, lo chiama per nome. Giovanni si volta. Un nuovo sconcerto lo pervade: Tommaso è lì, in veste di ufficiale piemontese, con una divisa nuova, pulita ed una spada sul fianco, all’interno di un fodero ricamato. Ma non è solo: dietro lui una schiera di bersaglieri attende i suoi ordini.

    – Tommaso… cosa ci fai qui?

    – Ho preso il tuo posto, quello che hai rifiutato con tanta arroganza e stoltezza.

    – Dov’è la mia famiglia?

    – Pensavi davvero che sarebbe rimasta qui in Sicilia? Sembrerebbe che tua moglie sia anche più intelligente di te! Sono in viaggio per Napoli, adesso.

    – Devo raggiungerli!

    – Oh no… tu non vai da nessuna parte.

    – Che vuoi dire?

    – Lo sai quello che hai fatto? Hai disertato! Hai violato un ordine del governo italiano!

    – Non c’è nessun gov...

    Giovanni viene interrotto dal pugno di Tommaso in pieno volto. Sente il sapore salato e ferroso del sangue che stilla dal labbro spaccato.

    – Oramai l’Italia è fatta, Giovanni, convinciti di questo. È vero, tu rispondevi agli ordini di Garibaldi, ma lui non è altro che un galoppino, uno strumento di Vittorio Emanuele. Questo fa di te altrettanto. Io ora rappresento il governo e devo eseguire gli ordini che mi impone.

    Ad un cenno di Tommaso, i bersaglieri gli si buttano addosso e lo immobilizzano. Uno di loro gli sfila la spada di dosso e la rende all’ufficiale: – Adesso questa è sequestrata!

    I tentativi di svincolarsi da quella presa si dimostrato totalmente inutili per Giovanni: – Tommaso, cosa vuoi farmi? Io e te siamo amici, lo hai dimenticato?

    Tommaso lo guarda intensamente. Non dice nulla. Poi gli sorride. Giovanni non comprende quel gesto. Si dimena sempre di più e questa volta mette in difficoltà i bersaglieri. Tommaso si volta e, senza dire una parola, va verso il suo cavallo. I bersaglieri, per domare l’agitazione di Giovanni, lo buttano giù a terra, lo calpestano violentemente, fino a fargli perdere i sensi. Poi lo trascinano via.

    ***

    Giovanni si risveglia a bordo di una nave. È stordito, sballottato dalle onde. Vede intorno a sé tanti uomini, sporchi, malandati e puzzolenti, legati con catenacci a mani e piedi. Anche lui sente la pressione ai polsi e la tensione dei catenacci che lo tengono legato e gli impediscono ogni movimento.

    – Salve, capo, ti ricordi di me? – gli chiede uno dei prigionieri.

    Giovanni aguzza la vista e riconosce l’uomo, uno dei garibaldini che ha combattuto al suo fianco. – Bartolomeo?

    – Esatto.

    – Dove siamo?

    – Stiamo solcando il Tirreno, direzione Genova.

    – Genova? Perché?

    – Non lo so, ma non penso sia l’ultima destinazione. In ogni caso ti avverto, non prevedo un buon trattamento per noi. Io sono un disertore, come te. Questi altri, invece, sono prigionieri di guerra borbonici – e con la testa indica gli uomini attorno a sé.

    Capitolo 7

    NAPOLI

    Una mattina, alle prime ore dell’alba, Partenope è nella cabina, sdraiata sul letto, interrotta improvvisamente nel sonno: Lucia è lì che la chiama con esultanza, mentre la agita di continuo, esuberante: – Forza, alzati, siamo quasi arrivati, c’è uno spettacolo fuori che ti piacerà, vieni a vedere!

    Subito la voce di Roberto echeggia dal ponte della nave incitando Partenope a fare lo stesso. Allora la ragazza si alza e in fretta e in furia, con poca attenzione per l’estetica, si cambia per rendersi presentabile. Sua sorella l’assiste, poi le due si recano fuori, verso il ponte. Sua madre e Roberto sono lì a fissare il paesaggio con sguardo ammaliato. Si voltano verso di lei e le sorridono.

    – Partenope, benvenuta… a Napoli!

    Come fa un presentatore di teatro, Roberto, nel pronunciare tali parole, accompagna con la sua mano gli occhi della ragazza, indicando il panorama, che con tanto rapimento tutti stanno osservando.

    Lo sguardo di Partenope, da curioso che era, diventa ricolmo di meraviglia. Si avvicina lentamente alla ringhiera del ponte, per poggiarsi ed ammirare meglio quello spettacolo: da lontano il Vesuvio si staglia imponente, vestito dei raggi del sole, sospeso tra il cielo e il mare dorato di prima mattina. Dalle alte e possenti coste di Sorrento, i contadini e i pescatori alzano la vista e osservano il vascello solcare dritto verso Napoli. Partenope resta assorta: quel vulcano si fa sempre più grande e possente man mano che la nave vi si avvicina, e sotto di lui lascia vedere sempre più nitida la città di Napoli, enorme, multiforme, stiracchiata e adagiata sul suolo. Il Castel Sant’Elmo massiccio, con la certosa di San Martino, arroccati sul colle, sovrastano tutta la zona. Una volta attraccati e scesi al porto, Partenope osserva un via vai continuo di persone, di tutti i tipi: donne, uomini, vecchi e scugnizzi. Chi è più agiato e chi lo è di meno, tutti agiscono in quello stesso luogo, con la stessa vitalità, pervasi dal frastuono del chiacchiericcio e dalla musica di un dialetto armonioso e melodico. Ecco che Partenope lascia cadere le sue valigie e si avvicina per ammirare meglio il Maschio Angioino, enorme, imponente con le sue antiche mura dalle torri merlate. Sua sorella non tarda ad imitarla. Ed è così che Annarella mostra il suo disappunto: – Ma cosa pensate di fare? volete lasciare tutto a me? – si lamenta indicando le valigie.

    Ma le sue figlie non le danno retta.

    – Ma no, signora, ci sono gli altri maggiordomi che possono aiutarvi. Penso piuttosto che alle ragazze un bel giro per Napoli farebbe molto bene – suggerisce Roberto.

    – Sì, hai ragione – acconsente Annarella. – Badate, Roberto, le lascio a voi – si raccomanda la donna.

    – Annarè, me ne occupo io, le accompagnerò per la città con una carrozza e le riporterò alla villa verso il tramonto. Voi nel frattempo recatevi a casa. Non vi preoccupate, avete la mia parola! – la rassicura Roberto.

    La signora sorride e acconsente.

    – Ma... Annarè, siamo tornati nella nostra città d’origine, non siete contenta? – le domanda infine Roberto.

    – Uà, nient’ ‘e meno… mo pozz’ n’ata vota parlà ‘o dialetto mijo – dice Annarella scherzosamente, sfoggiando il suo idioma napoletano. Partenope e Lucia restano disorientate in quella confusione e in quella meraviglia. Non staccano gli occhi dal castello, finché Roberto non richiama la loro attenzione con un fischio. Le due si voltano: l’uomo è sopra una carrozzina con le redini in mano. Le due sorelle si guardano e sorridono. Non indugiano a salire a bordo del cocchio. Roberto mostra loro ogni cosa, accompagnandole verso l’interno della città, nella zona storica dei Decumani.

    – Ué, guardate, stanno ‘e Burbone! – gridano le persone indicando le bandiere duosiciliane poggiate sulla carrozzella.

    Un gruppo di scugnizzi si accosta al veicolo. Roberto fa di tutto per cacciarli, ma non ci riesce.

    – Uà, principè e comme site bbona! – affermano i ragazzini rivolgendosi a Partenope, affacciata alla finestrella del cocchio.

    – Pucchiacchè, che facite dint’ a chello sciarabballo? Scinnite, ascite fore! – continuano imperterriti gli scugnizzi.

    – Non dargli retta, Partenope, questi sono solo dei fetenti! – avvisa Roberto.

    Ma quando agli scugnizzi si aggiunge il consenso delle altre persone, Partenope non sta più nella pelle: ha voglia di immergersi nella confusione del popolo. Ridacchiando, apre lo sportello e scende in strada, per poi inoltrarsi nella folla.

    – Ué, dove vai?! Torna qui! – cerca invano di richiamarla Roberto, che subito si fionda giù dalla carrozza nel tentativo di recuperarla.

    – Partenope, brutta screanzata! – grida dall’interno sua sorella.

    Gli scugnizzi creano un cerchio intorno alla ragazza. Le si intrufolano sotto le gambe, alzandole la gonna, nel tentativo di spiarle le sottane. Partenope cerca di tenerli a bada, ma senza successo, fino a quando, a quel punto, un signore interviene facendoli disperdere: – Ma guarda sti quatt’ chiavichi, accussì se tratta ‘a signurina?!

    Ma Partenope sembra dimenticarsi subito dell’inconveniente appena avvenuto. Semplicemente è troppo catturata da quello spettacolo: un vico lungo il quale la brezza sbatacchia il bucato profumato e appeso, penzolante da palazzo a palazzo. Sui terrazzini e i balconcini, le donne calano

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