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L'attore del buio
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E-book101 pagine1 ora

L'attore del buio

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Info su questo ebook

Un'anima distorta che compie il suo destino, che si muove come un'ombra lungo campi e stradine, tra pietre e paesi antichi.
LinguaItaliano
EditoreBrat
Data di uscita7 lug 2020
ISBN9788835860471
L'attore del buio

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    L'attore del buio - Alberto Niccoli

    © 2020 Alberto Niccoli

    Grafica ed impaginazione: Alberto Niccoli

    Copertina: Alberto Niccoli

    E-mail: panicbrat@gmail.com

    Mente oscura,

    seme nero: nel gelo

    guarda la luna.

    1

    Da troppo tempo la mia vita è fatta di pagine ingiallite di un diario non scritto, se non dentro di me. Frane di parole che dimentico o do alle fiamme, beandomi nell’odore di fuoco che sente solo il mio naso e nel vedere che si dissolvono in cenere nel caminetto del mio cuore per poi espirarle dal naso o dalla bocca, allontanandole da me.

    Illuso di poter essere l’inceneritore dei miei ricordi, sono incapace di bruciare quelli stipati nel giardino che non apro mai, che non ha luce e stanno lì erbe infestanti dell’anima e non le posso strappare per curare le piante che volevo far crescere, rigogliose, e le erbacce hanno invaso tutto e non c’è fiore in me, lo steccato è rotto e sverniciato, i chiodi aguzzi e arrugginiti attendono solo che un dito li sfiori per infettarlo con il tetano del dolore che non passa mai e che disgrazia vedere com’è ridotto ciò che di me dovrebbe essere meraviglia, che patema sapere che il pozzo è senza acqua e pieno di rottami che ci ho buttato dentro negli anni mentre aspettavo nascosto di esser davvero solo, mentre sognavo una libertà che non arrivava mai e mi trasformavo in ragno senza tela e senza fame di mosche e zanzare, nel tempo in cui imparavo il silenzio e l’attesa e dimenticavo la fame, la sete e la speranza.

    Mi piace osservare, fin da bambino.

    All’inizio era una questione di sopravvivenza che poi, col tempo, è diventata una consuetudine di cui non posso fare a meno.

    Anzi è ancora sopravvivenza ma di un tipo diverso, in cui non sono passivo.

    Ogni giorno passeggio per le strade del paese dove abito, spesso di sera, cullato dal buio. A volte mi sposto in qualche paese vicino, li conosco tutti fin da piccolo; è rilassante camminare senza essere osservato, quando tutti sanno chi sei e nessuno fa caso a te. Ci sguazzo in questa noncuranza tipica della provincia, dove le persone hanno sempre qualcosa di cui parlare ma mai riguardo alle persone giuste. Una buona reputazione è fondamentale, se sei un farabutto da bambino lo sarai da grande, lo stesso se viceversa avrai fatto il bravo. Avranno tutti timore di te oppure si fideranno a scatola chiusa e questa seconda possibilità è molto utile per chi, come me, ha bisogno di esistere senza far notare i suoi passi, senza note di merito talmente grandi da obbligare le persone a un saluto o una semplice chiacchierata, senza fiumi di caffè offerti e da offrire, una semplice ombra in mezzo ad altre mille che non potrà mai essere notata nell’indifferenza atavica di paesino di provincia coperto di nebbia nell’autunno perpetuo in cui vive, dove la gente capisce l’ora dai rintocchi del campanile e puoi sapere in che giorno della settimana sei in base ai profumi che escono dalle cucine mentre passeggi, come faccio io, per le stradine fin troppo pulite e curate e sai perfettamente che è domenica perché senti odore di ragù oppure venerdì per il profumo di pizza e così via, perché il tempo qui ha deciso di procedere a singhiozzi, concedendo ai vivi solo pochi lampi effimeri di modernità ma condannandoli al tiepido ciclo di ripetitività dal quale non fuggiranno mai, cullati dal sopore di voci di paese soffuse, dalla quiete di sere profumate di aria umida e legno di camino, anestetizzati da chiacchiere fintamente innocue, sempre le stesse, in questo limbo che sa di caffè corretto, vino forte e onesto e colpi di carte da gioco seguiti da urla di vittoria e bestemmie di sconfitta.

    In questi luoghi io prospero, tra muri di pietra e giardini verdi come la speranza, tra fiori e piante aromatiche, tra alberi antichi e monumenti ai caduti un’ombra più scura delle altre serpeggia indisturbata ché gli occhi non son capaci di distinguere la differenza, non vogliono vederla e quindi procedo, guardingo e indisturbato, tra rumori di bottiglie gettate nella campana per il riciclo e la consapevolezza di essere solo.

    Passando accanto al luogo dove sono state gettate le bottiglie inevitabilmente vengo colpito da una puzza che tutti conoscono. Il fetore di vino stantio mi getta in un vortice di ricordi che non posso affrontare ora, mi scaraventa in uno stato mentale che potrei non controllare e adesso non ne ho bisogno, devo stare tranquillo, mantenere la calma, ignorare il cuore che cerca di sfondare il petto per fuggire da quella gabbia che lo impaurisce, da quell’anima squartata che lo tormenta fino a farlo sanguinare e continua finché non la sazio, continua finché non è appagata, continua finché la sua sete non è soddisfatta.

    Mi allontano in fretta da quell’inconsapevole pozzo di ricordi indesiderati e proseguo a camminare, non sono a caccia, non posso lasciare che un semplice odore mi faccia perdere la ragione, devo solo camminare, non pensare e lasciare che insieme a quel fetore se ne vada via anche l’istinto, che torni a dormire, che la smetta di graffiare la porta dove lo tengo chiuso e della quale io solo posseggo la chiave, che vada nell’angolo dove può sdraiarsi aspettando il momento giusto, quello in cui lo chiamo, lo accarezzo e lo lascio uscire per compiere il dovere che per lui è un piacere e per il quale sa che non lo abbandonerò mai, però sa anche che deve obbedirmi, che deve ascoltare i miei consigli e che anche se mi chiama codardo, stupido, coglione, io non ci casco e continuo a ignorarlo, perché in fondo lo sa lui come lo so io che siamo indispensabili l’uno all’altro e senza saremmo solo un altro ingranaggio inutile nell’orologio che chiamiamo mondo.

    Passeggio verso le scuole che frequentavo da piccolo, sono sempre uguali a quando poggiavo il sedere su quelle sedie; piccole, squallide e piene di spifferi con le scritte sui muri di ragazzine innamorate che non si firmano, frasi contro i professori e le solite stronzate che si possono trovare in luoghi del genere. Li trovo innocui, in un certo senso anche in questo modo si può percepire come nulla cambi e nulla cambierà mai, qui.

    Mi siedo su una panchina umida anch’essa coperta di scritte, il buio, mio amato buio, aiuta a controllare il cuore che entro breve dovrebbe rallentare il battito e tornare calmo e placido come preferisco che sia, osservo gli alberi, ascolto le risate di qualche adolescente che fa scherzi stupidi oppure le chiacchiere di vecchie signore inutili che commentano qualche insulso programma televisivo di pomeriggi noiosi perfetti per questo autunno perpetuo di paese di provincia. Ma me ne servo. Queste cose che normalmente odierei mi distraggono da quell’odore, da quei ricordi e allora le accolgo, accetto il male minore fino a quando posso, fino all’inevitabile.

    Scende la guazza sui prati e sui cespugli immobili e tranquilli, li veste di un’acqua leggera e li rende ancora più belli ed eterei, l’inverno inoltrato sembra un velo da sposa leggero adagiato su membra inermi e addormentate in un letto antico, mi tranquillizzano al punto di permettermi di alzarmi e proseguire il mio cammino casuale in questo luogo insignificante per finire chissà dove prima che mi accorga di essere così stanco da dover tornare nel luogo in cui dormo, tra quelle mura fredde che contengono i miei segreti, così stanco da poter finalmente essere tranquillo, senza pensieri, adagiandomi su quelle lenzuola anonime di letto provvisorio, poggiando la mia testa falsamente libera sul cuscino morbido dei tormenti assopiti, sperando nel silenzio, nell’oblio che può donarmi, senza voci indesiderate di persone che non conosco, fino al mattino, fino ad un’alba identica a mille altre che si mischierà in un brodo di giorno identico a mille altri e che colmerà in un’ennesima sera in cui camminerò, fino a straziarmi, per poi tornare tra quelle pareti che mi servono così tanto e a cui non vorrei dover tornare.

    Mi soffermo su pietre su cui chissà quanti occhi si sono posati, su cui chissà quanti piedi hanno camminato, mi lascio rapire dai fiori che crescono nelle crepe di questi muri silenziosi e ruvidi, ascolto il nulla che mi invade con forza e me ne disseto, lo faccio entrare quasi fosse il nettare più dolce che il mondo possa offrire, mi soffermo e rimando ancora un po’, un’altra goccia, anche un singolo minuto in più riesce a fare miracoli quando vuoi rimandare l’inevitabile ma ecco che già devo andarmene, già devo abbandonare questo luogo insignificante e meraviglioso perché sento voci che non mi piacciono, sento stupide grida di beoni e non posso affrontarle adesso che mi sono appena placato, cazzo, quindi sono costretto a fuggire da questa fittizia e minuscola oasi di pace momentanea e a correre verso casa, più lontano possibile da quelle urla, da quei

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