Eravamo soli
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Anteprima del libro
Eravamo soli - Fulvio Di Sigismondo
AltreStorie
Fulvio Di Sigismondo
Eravamo
soli
Proprietà letteraria riservata
©2020 AltreVoci Edizioni srls
ISBN: 9791280100054
Prima edizione digitale: ottobre 2020
Realizzazione grafica: Creativita Agency
Per accedere ai contenuti extra di Eravamo soli
fai la scansione del codice o visita il seguente indirizzo:
www.altrevociedizioni.it/qr/eravamo-soli
Luca
Quando non so più come fare, me ne vengo qua.
Metto le cuffie e parte la mia playlist preferita, quella più dura, quella che non darebbe scampo a nessuno, quella che ha il potere di portarmi via da momenti come questi.
Non penso, non sento. È a questo che mi aggrappo, come un naufrago in mezzo alla tempesta, quando non ce la faccio più e mi affaccio sull’orlo del baratro.
E la mando a palla la musica, fino quasi a farmi esplodere i timpani, e poi me la faccio scendere sempre più in basso, a riempirmi i polmoni di ossigeno, a farmi scoppiare il cuore e indurire il cazzo.
Ed è proprio mentre la ascolto che mi chiedo come sia possibile che queste parole non le abbia scritte io, perché è proprio così che mi sento, perché è proprio questo, quello che vorrei dire e urlare: di queste cose è fatto il mondo che vorrei conquistare.
Adesso preferisco fare così.
Prima, invece, preferivo scappare e correre fino quasi a farmi schizzare fuori il cuore dal petto. Come mi era successo qualche mese fa, dopo che mio padre e mia madre avevano litigato di nuovo e lui le aveva mollato un ceffone, mentre lei gli gridava di smetterla con quella troia schifosa
.
Mi ero spaventato, ero schizzato fuori di casa e avevo iniziato a correre lungo il vialone che costeggia il fiume, ma non le vedevo nemmeno le sue acque grigie e tristi. Non vedevo nulla al di fuori di me. Correvo verso una linea di orizzonte indefinita, senza una meta. Sentivo a tratti il vento gelido che mi bruciava la faccia, fino a renderla insensibile, fino a rattrappirmi il volto in una maschera di dolore e rabbia. Poi ricordo il vomito, che aveva sporcato le mie Nike nuove di pacca, e il muco che mi colava dal naso e che asciugavo con la manica del mio bomber nero. Non sapevo cosa fare, non sapevo dove andare, mi guardavo intorno, smarrito, senza sapere quale decisione prendere.
Nemmeno il pensiero di Margherita, la mia ragazza, riusciva a consolarmi in momenti come quelli. Nemmeno il pensiero di potermi rifugiare tra le sue braccia, bianche e profumate di quel profumo con quel nome strano che inizia con la p. Non so nemmeno pronunciarne il nome, di quel cazzo di profumo, ma mi piace sentirne l’odore sul suo collo, mentre le accarezzo i capelli castani, fissandola nei suoi occhi azzurri come il cielo.
Ma quando il malessere diventava così forte, anche il pensiero di Margherita sbiadiva. Non sapevo bene quello che provavo in momenti come quelli: un buco nero alla bocca dello stomaco, una vertigine che mi procurava la nausea e alla fine una sensazione di vuoto che copriva tutti gli altri sensi, come il vomito aveva ricoperto la plastica e la stoffa delle mie scarpe nuove. Cazzo!
Di quei momenti ricordo solo di aver girato per ore e di aver fatto tardi dopo aver tenuto, apposta, il cellulare spento. Mi era costato spegnerlo, ma volevo che almeno si preoccupassero per me e che anche loro vivessero una parte di quel vuoto che vivevo io, volevo che mi immaginassero morto, magari nel modo più atroce possibile. Volevo che immaginassero di ritrovarmi in una pozza di sangue con le vene dei polsi tagliate o, peggio ancora, sbudellato da una banda di rumeni o affogato, a galleggiare faccia in giù nelle acque gelide di quel fiume di merda. E allora, ero io a immaginare i miei genitori. Distrutti e piangenti, finalmente disperati, urlavano il mio nome, ma io non avrei più potuto sentirli, non avrei potuto ascoltare il loro strazio, esattamente come loro, che non si accorgevano più del mio.
Poi alla fine ero rientrato a casa.
Mio padre, come al solito, non c’era e mia madre mi aveva accolto con la solita sigaretta tra le dita ingiallite, gli occhi spenti e l’alito che puzzava di alcool. Aveva tentato di abbracciarmi, ma io mica glielo avevo permesso.
Dove sei stato? Tuo padre è fuori. Credo a cercarti
, mi disse, mentendo. Vai a letto, ora.
Mi infilai nella mia camera, i vestiti umidi e freddi, le scarpe zozze e puzzolenti. Buttai tutto in un angolo e mi rintanai a letto. Mio padre non entrò in camera quella notte e quando lo rividi, il giorno dopo, non disse una parola su quanto era accaduto.
Fu in quel momento che compresi tutta l’inutilità delle mie corse disperate, di quanto avevo fatto e, in cuor mio, immaginato. Non so nemmeno se fu, la mia, una decisione, una strategia, o una resa, ma cambiai registro. Se non altro avrei smesso di vomitarmi sulle scarpe nuove.
Per questo adesso sono qui, con la musica che mi rimbomba nella testa, gareggiando con questi pensieri che non riesco del tutto a scacciare, anche se lo vorrei.
Il posto è sempre lo stesso: parto dal centro e imbocco la circonvallazione che aggira l’intera città abbracciandola con le sue curve, che affronto con il motorino, e la musica nelle cuffie che copre ogni altro suono o rumore. Giunto all’apice della strada, arrivato allo spiazzo da cui si può osservare il panorama dell’intera città, giro a destra e salgo ancora, spingendo a palla con la mia Polini truccata in questa salita, sempre più stretta in mezzo alle case, sempre più rade. E godo, compiaciuto, se mi becco il vaffanculo di qualche passante a cui poter mostrare, con fierezza e orgoglio, il mio dito medio.
Poi arrivo alla vecchia chiesa isolata, dedicata a quale santo non lo so, e nemmeno mi frega. Non vengo di certo quassù a pregare. Vengo fin qua per stare da solo.
Mi siedo sul muretto del piccolo piazzale, all’ombra di questi alberi così alti, e mi rannicchio, stringendo forte le ginocchia tra le braccia, fino quasi a farmi male.
Qui nessuno mi vede, ma io domino sull’intera città.
Appoggiato contro questo vecchio albero e schiacciato contro il suo tronco, alzo ancora il volume e mi rollo una nuova canna.
Ecco, ora parte di nuovo, posso lasciarmi andare.
Stacco, quando non ne posso più.
Parto, è la musica che mi porta al largo.
Calmo, seguo con lo sguardo
la linea della vita sul mio palmo.
Stacco quando non ne posso più,
lascio che l’ansia scivoli giù.
Calmo, seguo con lo sguardo
la linea della vita sul mio palmo
Notte blu, Frank Siciliano, 2004
Margherita
Adoro il patchouli.
E mi diverte un sacco quando Luca si incasina nel pronunciarne il nome, finendo sempre con lo sbagliarlo. Ci tengo troppo a Luca, il mio ragazzo. Lo so che ha un sacco di problemi, lo vedo spesso così tormentato, triste e a volte sfiduciato, ma è proprio per questo che mi piace e non potrei mai fare a meno di lui.
Mi piace questa sua fragilità, anche se fa di tutto per mostrarsi forte e duro. Mi piace il suo volto lungo e magro, quel ciuffo nero che gli copre gli occhi, un po’ tristi e un po’ vivi, a volte saettanti, e il piercing sul sopracciglio sinistro. Mi piace il suo fisico magro, asciutto, nervoso. Quelle sue spalle strette e curve di chi procede contro il vento e ne incassa le folate, anche quelle più violente. Luca è un misto di forza e debolezza.
Mi piace quando stiamo abbracciati, dopo aver fatto l’amore. Rimaniamo lì, vicini, e parliamo, parliamo, parliamo. Veramente dei due sono io quella che parla di più, Luca mi ascolta. Mi piace fantasticare insieme: di noi, di quello che faremo quando finalmente potremo andarcene.
Lui da casa sua e io dalla comunità.
Qui, nella comunità, ci sono finita nove mesi fa. Io dico sempre, e a tutti, che stare qua dentro mi fa schifo, in realtà arrivarci è stata una liberazione perché a casa, negli ultimi tempi, non ce la facevo più. Eppure ci avevo sperato. Avevo sperato che finalmente Cristina, mia sorella, ce la facesse a smettere. Anche lei aveva accettato di entrare in comunità dopo anni di promesse, bugie, tentativi e insuccessi.
Papà e mamma si erano consumati, nella loro incapacità e nel loro fallimento. Forse era stato proprio per provare a riscattarsi e a prendersi una rivincita che ero nata io, non troverei altri motivi.
Alla fine, erano stati due genitori troppo giovani per mia sorella e troppo vecchi per me. Quindici anni mi separano da Cristina, ma alla fine la maggiore, delle due, sono sempre stata io.
Per questo trovo ingiusto essere qui, io che di problemi non ne ho mai dati a nessuno e sono pure riuscita, in mezzo a mille casini, a prendere il diploma all’Istituto tecnico, indirizzo grafico-pubblicitario, quello del terzo anno.
Quando mia sorella si è ripresentata a casa, ovviamente strafatta, dopo undici mesi e dopo aver lasciato la comunità terapeutica in Toscana, il mondo mi è crollato addosso. Tutto è ricominciato da capo, come sempre: le finzioni, le menzogne, le tensioni, i pianti