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Di Stanze: 7 nuovi autori bolognesi dal Navile
Di Stanze: 7 nuovi autori bolognesi dal Navile
Di Stanze: 7 nuovi autori bolognesi dal Navile
E-book626 pagine8 ore

Di Stanze: 7 nuovi autori bolognesi dal Navile

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Info su questo ebook

Una cosa è osservare la pelle delle cose, un’altra è andare in cerca del fantasma che quella pelle nasconde e anima. Fra l’una e l’altro ci siamo noi, con lo sguardo e il corpo: sulla pelle delle cose posiamo le nostre emozioni, il nostro sentire, illusi di ritrarre un’oggettività che si sposta continuamente oltre – possiamo solo alludere al ritratto, e accettarlo nella sua parzialità, se siamo consapevoli delle nostre proiezioni; il fantasma possiamo accoglierlo, facendo di noi stessi la casa per le parole e le narrazioni, uno strumento perché l’immaginazione si riveli.
Nel primo libro sul Navile siamo andati a trovare il famoso Quartiere cercando di rappresentare la sua ricca complessità e di comporre la guida a quella che è una parte importante della Bologna contemporanea. In questo secondo libro è il Quartiere – la Città – che esce dai suoi confini materiali e viene a incontrare i lettori: per citare – in omaggio ideale – Ceserani e De Federicis, nel primo libro abbiamo de-scritto l’aspetto materiale della città, in questo secondo siamo andati a raffigurare l’immaginario della città, dissennatamente convinti che il ritratto narrativo – i racconti che i luoghi hanno suscitato – restituirà un’immagine ugualmente fedele, se non di più, della città contemporanea. Una città multiculturale, venata di solitudini senili e infelicità giovanili, di nevrosi, paure e inquietudini, di rabbia, ma anche di impreviste solidarietà, di persone in cerca di amore, ancora capaci di memoria e piene di speranze ecologiche.
Anche se questo volume, dunque, è più autonomo e più dichiaratamente letterario, idealmente i due libri si integrano e si compenetrano nell’intento che ci riconosce Franco Farinelli e che sempre ci anima: quello di tenere di nuovo insieme la città materiale – l’urbs – e lo spirito della città – la civitas – componenti che il Settecento separò e che oggi dobbiamo tentare di riunire se vogliamo avere un futuro.

a cura di Gianni Cascone

Navigadour è l’autore collettivo nato dal laboratorio di scrittura che Gianni Cascone tiene dal 2012, per conto dell’Oasi dei Saperi, presso la Biblioteca di Corticella. Questo volume è la seconda opera che il collettivo dedica al Quartiere Navile di Bologna dopo Il Navile – portolano di città. Racconto di una navigazione dentro al Quartiere Navile (Giraldi 2015).
Navigadour 2017 è composto da: Angelo Amaduzzi, Bruno Carrozzieri, Valentina Cavallini, Giovanni Cozza, Stefano Dalmonte, Alba Guizzardi, Simona Lipparini, Domenica Mafrica, Alessandro Nuzzatti, Chiara Orrù, Roberta Sibani, Diana Tosi, Mauro Trigari, Manuela Zuzolo.
 
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2023
ISBN9788861559554
Di Stanze: 7 nuovi autori bolognesi dal Navile

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    Anteprima del libro

    Di Stanze - AA.VV.

    7 nuovi autori bolognesi dal Navile

    a cura di Gianni Cascone

    NAVIGADOUR

    DI STANZE

    Collana: ScritturaCollettiva

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-955-4

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2023

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    stanza di Brenda Birello

    D’inchiostro

    Queste mura mi vanno strette.

    Lenta mi muovo e, attenta, ascolto il silenzio che da fuori entra.

    Il sole tiepido riscalda i miei piedi nudi sul pavimento, immobile resto. Ferma, il silenzio attorno.

    È mattina, tarda mattina: dove respira il mondo?

    Un fermo immagine che dura da giorni, tutto immobile, il silenzio attorno, dentro e fuori.

    Una osmosi ininterrotta senza esito apparente: silenzio, quiete, vuoto, immobilità. Di uomini e di donne, di bambini, cani, panettieri e impiegate. Di treni, aerei, dello scorrere quotidiano che da sempre ci accompagna e, ora, immobile, congelato, è fermo in un equilibrio instabile, forse cade ma non cade. Barcolla, sorride, mente. Ma non cade.

    Lenta mi muovo fra queste mura e lo respiro, il silenzio.

    Lo annuso, mi avvicino.

    Guardinga mi abbasso sulle ginocchia e lo marco, a uomo a zona, lo marco. Con le mani nel vuoto lo inseguo.

    Lenta mi muovo fra queste mura.

    Strette.

    Strette sono queste mura. Sempre più strette.

    Eppure sfugge, entra ed esce da queste mie finestre aperte, spalancate. Forse neppure gli uccelli cinguettano più.

    O forse sì, loro sì.

    Cinguettano, si inseguono, si accoppiano, bisticciano sui tetti, si beccano e scappano. Si rincorrono e occupano gli spazi con i loro nidi.

    Loro sì, cinguettano.

    Respiro e canto. Canto?

    Respiro e guardo il fiume scorrere, azzurre le acque, lente si muovono e scendono a valle. In silenzio. Accarezzate dalle prime foglie primaverili, accompagnate dai detriti raccolti a monte, non so dove rubati, arginate da terra inferma. Che oggi tace.

    Oggi la terra tace, anche gli argini tacciono.

    Tace il mondo, tace questa terra inferma e io, lenta, fra queste strette mura mi muovo.

    Cerco spazi che non ho, cerco appunti, appigli, foto, ricette. Cerco libri non letti o già letti da rileggere, cerco l’infanzia nei ricordi, cerco i giorni felici e quelli meno, cerco un senso, un’origine, un obiettivo.

    Cerco la farina che gli scaffali del supermercato mi hanno negato, zampetto con il cane sul sentiero e mi fisso, in ascolto.

    Sventolano bandiere in un’afa non nota. È aprile, è maggio? Le finestre decorate con lenzuola decorate, con messaggi inquietanti. Non andrà tutto bene, come leggo.

    L’arcobaleno sorgerà, prima o poi riapparirà dopo un temporale burrascoso, ma non andrà tutto bene.

    La gente perde il respiro e se ne va.

    Tanta gente sta morendo in quest’afa silenziosa.

    E io cammino. Cammino fra le colline vuote, verdi, fresche, brillanti. Colline che sventolano i propri capelli in un azzurro cielo silente.

    Le cantine chiuse, i macchinari fermi sotto le tettoie. I tubi avvolti sulle griglie, le tende alzate.

    Un cerbiatto mi guarda.

    Vorrei abbracciarti. Sorriderti e baciarti.

    Vorrei stringerti addosso il mio profumo per annusare il tuo e affondare il mio viso fra la tua pelle morbida e densa. Densa di vita che ora tace, densa di sguardi che ora dormono, densa delle parole dette e svanite. Densa di cibo, vino e lenzuola.

    Bagnata dagli schizzi del mare e dal sudore sui sentieri che, sempre, ci hanno portato sulla cima.

    Ma tutto tace.

    E io, lenta, fra queste mura mi muovo, mentre qualcosa muore dentro, mentre il tuo respiro rimbomba e il passato ritorna.

    Cosa? Cosa muore dentro? Cosa rimbomba? Cosa toccano le tue vecchie parole? Dove colpiscono, dove affondano?

    Perché racconti, perché mi investi con un passato che è passato, con un fiume ora arido? Ma sei tu che racconti? Dove sei, dietro quale sipario chiuso ti celi? Perché ora, perché in questo baratro di silenzio?

    Un cumulo di parole mi investe, mi sovrasta, affanno e cerco aria.

    Non ne esco, mi aggrappo, cerco di aggrapparmi, scivolo, barcollo, cerco aria, trovo lacrime, le mie lacrime, stringono in gola. E io soffoco.

    Fra queste mura soffoco. Insieme a te soffoco. Le tue parole mi sovrastano, sempre più spesso mi sovrastano e sferzano dentro, tagliano senza incollare, eliminano, si accumulano, ma non altrove, non lontano. Sopra di me si accumulano.

    I tuoi silenzi soffocano, la tua presenza soffoca.

    La tua interminabile assenza soffoca.

    Soffoca l’inevitabilità del non ritorno, della morte che ci accompagna e ci affianca lungo il percorso di vita. Fino a ieri altri, altri siamo stati, oggi, in questi spazi obbligati, ogni parola è una lama, ogni gesto è fastidio, ogni rumore è inopportuno.

    E io, in tutto ciò, soffoco.

    Soffoco e ti guardo, le lacrime chiudono la gola e io ti guardo.

    Ascolto, attonita ascolto, ti guardo e ascolto, sposto la tazza sul tavolo e ti ascolto, stringo gli occhiali al naso e ti ascolto, soffoco e ti ascolto.

    Ora la casa tace, fuori il mondo tace. Non una tapparella che si muove, non un fiore che cade. Immobile, il mondo immobile ascolta. Ascolta questa umanità che soffoca, ora in silenzio, finalmente in silenzio, questo cazzo di umanità soffoca. E io con lei. Io come lei, come tutti. Attonita soffoco.

    Scivolo, barcollo, cerco aria, apro la porta e lenta scendo le scale, timorosa, in attesa, incerta, scendo e piano mi metto in ascolto. Apro il portone e, cauta, guardinga, giro gli occhi intorno, sui tetti e sulle case, in strada, questa strada incredibilmente vuota, sulle terrazze e lungo il fiume, raggiungo con lo sguardo le colline. Tutto soffoca in questo lancinante silenzio, in questo bagliore soffocante, nello stridio del vuoto che mi circonda.

    E anche tu perdi di senso, le tue parole svaniscono, non volano, svaniscono. Il passato il presente il noi e il nostro, tutto svanisce, quasi senza dolore, senza rancore, c’eravamo amati non ci amiamo. Chissà se mai ci siamo amati.

    Sei morto. Indolore, il silenzio annulla il dolore, il silenzio invade e avanza, una nebbia densa, incolore ma, se annusi, un odore ce l’ha. Un odore se lo porta dietro, anzi dentro. L’odore di ciò che lì rimane e, lento, marcisce. Dolciastro, blu. Come l’inchiostro, l’odore dell’inchiostro nel calamaio del banco di scuola. Il contenitore scuro sulla destra del banco di legno con il piano inclinato verso la panca, che ogni mattina il bidello passava a riempire. La carta assorbente, nuova e ruvida, grumosa, spuntava dal quaderno a righe con la copertina di plastica rossa e l’aletta trasparente a contenere le pagine, evitando che gli angoli potessero piegarsi. Quell’odore lì, di quell’inchiostro lì, che era blu, rimasto nel calamaio dal giorno prima e che io annusavo sulla carta assorbente ora usata, ora macchiata. Quella carta odorava di inchiostro blu, del silenzio della notte che l’aveva conservato.

    E di blu dipingo queste mura, di blu dipingo le mie giornate, di blu canto le poche note note.

    E soffoco.

    Stalle

    Le mani sul volto ad accarezzare l’ispida barba di neve e carbone. Ti pizzichi i baffi mentre mi parli e sorridi. Stropicci gli occhi con il palmo delle mani, lisci all’indietro il ciuffo di capelli sulla fronte e, ancora, ritorni ad accarezzare la barba sulla guancia sinistra.

    Ti seguo, quasi rapita, ti osservo e scruto i pensieri che vedo passare nei tuoi occhi ma le tue parole tacciono. Ti ascolto e navigo sulle acque meste di questa nostra serata lontani; ti guardo nella foschia dello schermo e mi interrogo su chi e su cosa rimarrà, passati i giorni della pandemia.

    Forse neppure noi, oggi preoccupati dei contagi a noi vicini che ci costringono lontani, dei contagi dei nostri figli, dei fratelli e dei loro amici, forse neppure noi, mi dico, saremo in grado di raccontare queste lontananze, queste distanze che ci avvicinano, che ci raccolgono dentro gli schermi, come al caldo delle stalle, a raccontarci e narrare, a condividere canti e aperitivi, a corteggiarci, a dirci le cose che di presenza sembrano non riuscire a emergere mai, a fissare sorrisi, gesti, mani, stanze adibite a questi incontri improvvisati, ai baci che non possiamo scambiarci.

    Non è inchiostro su carta, non c’è attesa della bicicletta a portarci la busta da aprire. Non c’è l’odore e il colore del tempo trascorso a recarci la testimonianza e la notizia, non c’è la foto da stringere a sé e conservare, neppure il naso sulla carta da annusare per fissare i chilometri percorsi, i luoghi sfiorati, svanite le mattine impazienti con il naso appiccicato al vetro della finestra o della porta sul cortile nell’attesa di uno scampanellio.

    Ci sei tu, e ci sono io, nella foschia dello schermo. Ci sorridiamo in silenzio. Io taccio e ti osservo, scruto i pensieri timidi che si negano e che la carta, probabilmente, avrebbe accolto.

    Distanti, senza odori. Il tempo che viviamo ci ha privato persino degli odori della condivisione. Dei sapori dei baci divertiti nel trafficare serale fra le pareti domestiche. Non posso annusare la tua pelle, non posso sentire il profumo del cibo che arriva dalla cucina mentre chiacchieriamo con un calice di vino in mano, ed è proprio l’aroma del vino versato nel bicchiere, che ora reggi oltre lo schermo, che mi si nega all’olfatto.

    Distanti, nelle stalle della rete, ognuno nella sua, in queste aie prive di pollame e terra, con il grigio che non è della nebbia ma del monitor, accovacciati sui divani, davanti a falò fatui privi di fiamma e di calore, senza lo sbuffare dei buoi, ad annusare ognuno il suo respiro, ognuno il suo silenzio attorno, ognuno l’immobilità che sembra debba infrangersi da un momento all’altro in rumorosi nubifragi di vetro.

    Le mani sul volto ad accarezzare l’ispida barba di neve e carbone. Pieghi di lato la testa e, in silenzio, mi osservi mentre un dolce sorriso ti distende le labbra.

    In silenzio ti guardo e pigio un tasto per offrirti in pegno al buio della notte. Attendo.

    Attendo e lenta, anch’io, mi incammino verso il torpore notturno.

    Incerta osservo fuori, riposiziono gli occhi sulle pareti di casa. Mute. Inesorabilmente mute.

    Non manchi solo tu, manca la parata dell’idiozia quotidiana, dell’insensatezza del nostro agire futile dentro al quale abbiamo palpitato fino a ieri, del rincorrere febbricitante e stolto le ore e i giorni, dell’alterazione crescente delle cadenze e dei ritmi onesti, puliti.

    Ora rigide, quelle giornate convulse, appese a seccare. Prive di respiro, sopraffatte dall’ineluttabile quieto manifestarsi di questi nostri giorni nuovi, appena inseminati, all’apparenza vuoti, raccolti e quieti, protetti nell’ovulo ingravidato, prima di essere presto partoriti e accolti dalle braccia morbide di una levatrice florida.

    The silver sky

    ovvero Condolence di Benjamin Clementine

    Da giorni l’acqua dal cielo non dava tregua. Silver sky, argento piombo, polvere da sparo che scoppiava oltre le colline. A tratti compariva un affaccio di arcobaleno sbiadito poi, di nuovo, nuvole scure, blu intenso, nere, e scrosci di fontane. Il battere dell’acqua sul tetto, sulla terrazza e sull’albero immenso su cui si affacciava la sua camera da letto.

    Quel giorno, in quel momento, si accingeva a preparare alici e salmone, le une con un intingolo di olio, limone, poco aceto, aglio e prezzemolo tritati; l’altro disposto su un piatto ovale con accanto l’oliera, il pepe da macinare e, per chi avesse voluto, succo di limone.

    Geoffrey Oryema rastrellava note e malinconiche melodie sulle corde di una chitarra, come cantilene, forse ninne-nanne nere, che uscivano dalla sua voce intensa e radicata.

    Un tessuto celeste, ricami sottili e non che cadevano ininterrottamente a infrangersi in specchi lucenti al suolo. La realtà dentro a essi ribaltata e scolorita.

    Osservava lo scorrere immobile di quelle ore, respirava l’attesa, ne godeva l’emozione. Piccoli passeri cercavano riparo tra i rami privi di foglie. Un fiocco rosa era apparso da poche ore sulla porta di entrata della villetta al piano terra. La stessa porta dalla quale, poco prima, due bambini accompagnati dal papà erano usciti saltellando con stivaletti e mantellina da pioggia sotto ombrelli rana e pinguino. Un micio rosso era corso fra le loro gambe, guizzando sul muretto della casa di fronte e andandosi a riparare sotto la tettoia in legno adorna di amuleti tintinnanti.

    Due ragazzi sul campo da tennis vicino sbeffeggiavano lentamente una palla completamente indifferenti al diluvio che li fagocitava. Neppure correvano, semplicemente restituivano l’un l’altro una palla zuppa e stanca.

    A breve l’impresa di costruzione avrebbe preso possesso dell’appartamento dove abitava per i lavori di ristrutturazione.

    L’idea di una casa definitiva, l’ennesima casa definitiva, ora la inquietava. Gli ultimi tre anni li aveva trascorsi in un monolocale sdrucito, l’intonaco delle scale sgretolato sul pavimento umido e sporco, le finestre con l’affaccio sui tetti del vecchio vicolo di paese prive di un, pur piccolo, spazio all’esterno.

    Più volte gli amici le avevano chiesto come poteva continuare a vivere in quella situazione. Lei da tempo lo sapeva: non sopportava l’idea di avere a che fare con uno spazio suo, solo suo, pieno di giorni e di notti di una vita che era stata la sua altra vita, non sopportava l’idea di affrontare foto, vestiti da sposi, vestiti da battesimi, vestiti da comunioni e cresime, vestiti da spiaggia e vestiti ‘fanculo non ne ho più voglia’, i sorrisi fra loro che sparivano con il trascorrere dei giorni. Centinaia di vinili l’attendevano al varco, aperto il basculante del garage, il suono di sax che ti strappa lo stomaco fuori dalla pelle, loro poco più di quarant’anni in due, gatti, libri, caffè, teatri, vestiti da domenica. Viaggi e risate, scoperte e silenzi.

    Abbracciami questa notte per tutte le notti che non l’hai fatto, abbracciami anche se preferirei mentire. A lungo ho cercato le mie ali.

    «Manderò le mie condoglianze alla paura» ruggiva Benjamin Clementine con una voce di sasso che sbatte contro la corteccia ruvida di un grande albero.

    Così l’ennesimo appartamento suo l’aveva nuovamente comprato e ora si accingeva a ristrutturarlo. Le mura sarebbero crollate sotto i colpi potenti e rumorosi di muratori bercianti, candidi divani l’avrebbero arredato, una libreria ricca di volumi e vinili l’avrebbe farcito, il camino acceso l’avrebbe colorato di rosso e fuoco, un letto nuovo e fresco avrebbe schiaffeggiato le ore insonni, un ruvido parquet grezzo le avrebbe ricordato che la notte non è fatta per girovagare per casa in preda agli ideogrammi che affollano la mente.

    Oyasuminasai, così si augura il riposo alle persone amate in Giappone. Fai bei sogni pensava sistemando le fette di salmone sul vassoio, spremendo il limone e versandolo nella piccola ciotola rossa e gialla presa al Gran Bazar di Istanbul pochi mesi prima; fai bei sogni e avvisami quando arrivi. Io lì non ci sono mai stata, altrove sì, ma nel tuo cuore ancora devo arrivare.

    Echeggia l’eco delle foglie autunnali che cadono sotto le lame di acqua.

    Chi uccide chi?

    Norma

    Cara mamma,

    oggi ho contato le piastrelle nel muro del corridoio.

    Le piastrelle sono cinque, uno due tre quattro cinque, poi c’è la riga, uno due tre quattro cinque, poi c’è la riga, questa piastrella è azzurra, dopo una bianca e poi, ancora, una azzurra.

    Uno due tre quattro…

    L’orologio segna un’ora, quando la lancetta grande e quella piccola puntano il soffitto, entra la luce.

    Se non piove entra la luce. Se piove entrano l’acqua e l’aria fredda.

    Quando la lancetta grande e quella piccola puntano il soffitto tu vieni sulla porta e mi porti le mele.

    Cara mamma, le ultime erano rosse, proprio quelle che mi piacciono, quelle che il nonno raccoglieva dall’albero e mangiavamo insieme.

    Ieri mi hanno passata nella corrente, il dottor Carli dice che si porta via i cattivi pensieri.

    È vero, i miei se ne sono andati. Ma se ne vanno via anche gli altri, quelli che non sono cattivi. Il dottor Carli non lo sa ma non glielo dico.

    Cara mamma, tu lo sai, non volevo picchiarti, né picchiare il nonno.

    Il dottor Carli mi tiene legata al letto, nella stanza buia. Dice che la mente deve riposare.

    Ma io vorrei la luce e vorrei andare a ballare. Quando viene la luce vorrei andare a ballare.

    Tu non mi facevi andare a ballare, e mi tenevi chiusa al buio nella mia camera. Senza legarmi.

    Perché tu, cara mamma, sei buona.

    Ma quando mi veniva il sangue, chiudevi a chiave la porta e chiudevi strette strette le imposte.

    Vienimi a prendere, mamma cara. Sarò brava e non ti chiederò di andare a ballare.

    La testa mi brucia, ogni volta che il dottor Carli mi passa nella corrente, la testa mi brucia, gli occhi mi bruciano.

    Ma i cattivi pensieri se ne vanno. Anche gli altri se ne vanno, quelli che non sono cattivi.

    Le cinghie mi stringono i polsi e il buio si infila sotto le coperte.

    Uno due tre quattro cinque, poi c’è la riga. Questa piastrella è azzurra. Anche il pavimento rosso ha tante righe, uno due riga, non devo pestare le righe, uno due riga.

    Il pavimento rosso del corridoio ha tante righe, è difficile non pestarle.

    C’è odore di minestra nel corridoio, ci sono luci basse nel corridoio, gialle, grandi ma gialle.

    Cara mamma, la lancetta piccola punta la finestra, ancora un po’ e la porta si apre e tu mi porti le mele.

    Portami a casa, mamma cara, devo cucire l’orlo del mio abito giallo, quello che indosserò per andare a ballare.

    Qui ballo con Babuche, io ho la camicia da notte ma io e Babuche balliamo lo stesso. Lo tengo in braccio e giriamo. Lui ha quattro zampe di pelo, finto, il pelo è finto mamma, e mi abbraccia mentre giriamo. Il naso è nero e le orecchie piccole. Insieme balliamo, io in camicia da notte.

    Oggi ho raccolto tante briciole in terra e lo ho messe in un sacchetto, così le puoi bruciare nel camino.

    Mamma cara, ti aspetto. Di’ al dottor Carli che sono guarita e che mi porti a casa con te.

    Dai un bacio al nonno.

    Norma

    Cammino scalza

    canto della solitudine

    Socchiude lentamente gli occhi, una debole luce penetra dall’abbaino del soffitto, nevica?

    Sposta le gambe fuori dalle lenzuola e appoggia i piedi a terra. Fa salire la schiena e scrolla i capelli, l’indolenza si arrampica, anche lei lenta e assonnata.

    Il silenzio indugia: nevica? Un cinguettio lieve le dà esito: no, non nevica.

    Scende i gradini dalla camera alla cucina, il cane la precede con il ticchettio delle sue unghie sulla pietra, conosce i gesti quotidiani, le movenze, sa gli spazi che deve percorrere e che ogni mattina insieme percorrono.

    La cucina dà sulla vallata e lo spettacolo la commuove. Si ferma in piedi oltre il vetro della portafinestra e rimane immobile a guardare, a chiedersi come può, ogni mattina, ripetersi un miracolo diverso.

    Basse nuvole accarezzano i pendii delle colline coltivate a uva, discese verdi brillanti nonostante il calendario dichiari inverno.

    Gira la chiave per aprire la porta sul giardino terrazzato, l’aria gelida avvolge il pigiama di seta e, improvvisa, lo attraversa per sfiorarle la pelle.

    Il caffè sta già filtrando nella caraffa e l’aroma la invita a rientrare, a spalmare due fette biscottate con la marmellata di fichi preparata a settembre e ad accoccolarsi sulla sedia a sdraio sotto il plaid, in attesa del primo raggio di sole che già vede sbirciare in un varco fra le nubi.

    Sciacqua tazza e bicchiere, ingurgita le pillole della mattina, risale lenta le scale con il cane che ora la precede. In bagno apre il rubinetto della doccia e si infila sotto il getto bollente, accarezza i capelli intrisi di balsamo, si accarezza la pelle e tiene il viso rivolto all’acqua per qualche secondo, lasciando che le scorra sul collo e sul seno.

    Dentro l’accappatoio ogni mattina si sente bambina e un po’ ci si perde. L’aria calda del phon sui capelli le piace, le piace vederli sventolare nel vuoto mentre lei, a capo chino, osserva le piastrelle del pavimento.

    Olio sul corpo e crema sul viso, forcine a imbastire un improvvisato chignon sul capo e già si sta lavando i denti. Sistema il bagno, le cose usate, le spazzole e i barattoli, ripone forcine, forbici e lime e distrattamente sfugge allo specchio.

    Di nuovo scende, di nuovo il cane la precede, ora incerto sul da farsi, da questo momento ogni mattina potrebbe avere un esito diverso. Esce in giardino e inizia a rastrellare le foglie che nelle ultime settimane si sono accumulate sotto gli alberi, dalla cassa Bluetooth appoggiata sul muretto escono le note di un pianoforte che rincorre sé stesso in un crescendo che sembra non avere fine.

    Anche questo isolamento sembra non avere mai fine, pensa.

    Intorno il silenzio non dà tregua, di tanto in tanto l’abbaiare lontano di un cane o il cinguettio di pochi uccelli. A cadenze precise il suono delle campane dalla parrocchia appena di là dalla strada. Oltre: silenzio. Silenzio e nubi che accarezzano le colline verdi.

    Il rastrello pettina il prato non tagliato e ci si incespica dentro, la pioggia degli ultimi giorni ha intriso le foglie e, ora, raccoglierle è più faticoso.

    A tratti erge la schiena e si ferma a guardare il cielo, oggi azzurro terso, si appoggia al manico del rastrello e ascolta la musica. Le lenzuola appena stese al sole profumano di fresco.

    Silenzio.

    Silenzio e sole,

    silenzio e cielo terso,

    colline coltivate a uva,

    il prato non tagliato,

    le lenzuola che odorano di bucato.

    Quiete. Silenzio e quiete. Qui è diverso, il silenzio qui è diverso, è quiete. Quello della città angosciava, toglieva il respiro, faceva sbarrare gli occhi in cerca di un rumore. Questo silenzio, al contrario, rassicura, abbraccia, accoglie. Anche questo sole è diverso, è caldo e sereno, quello in città splendeva a sé stesso inondando le strade inspiegabilmente deserte, tormentava spavaldo fra i tetti. Un sole quasi freddo, sicuramente ironico.

    Cola acqua dai rami, la pioggia li ha intrisi, fredda una goccia le cade sul collo e scende sulla schiena facendola rabbrividire e sorridere al contempo.

    Quando finirà tutto questo? Non solo il mio isolamento, si dice, ma questo guardarsi intorno sospettosi, questo vigilare reciproco. Questo girare per strada mascherati che neppure a carnevale, i gel disinfettanti, i guanti… mai più sarà come prima, prima di questo virus pandemico che ha già segnato la storia, non di un paese ma del pianeta intero.

    Percepisce le sue mani come mai era successo, ora portatrici di germi. Anche prima lo erano, ma in questi giorni l’assillo del contagio che possono arrecare condiziona ogni gesto, l’approccio agli oggetti, la loro igiene quotidiana divenuta ossessiva.

    Gira per casa indossando guanti e mascherina di protezione, recupera dal davanzale esterno della finestra la spesa recapitata dall’addetto del Comune, passato a consegnarla indossando anche lui guanti e mascherina.

    A tratti irreale, questa quotidianità improvvisamente era balzata sul mondo e, ora, sembrava che nessuno avrebbe più potuto liberarsene.

    Il contatto stretto con caso confermato l’aveva costretta a questa quarantena altrimenti detta "permanenza domiciliare con isolamento".

    Con riferimento all’oggetto, si dispone nei Suoi confronti, in quanto contatto stretto di caso confermato, l’obbligo di quarantena, ovvero la Sua permanenza a domicilio presso…

    La conclusione di tale periodo sarà oggetto di apposita comunicazione.

    In questo periodo Lei è tenuto a osservare le seguenti misure:

    a) mantenere lo stato di isolamento

    b) evitare contatti sociali

    c) evitare spostamenti e/o viaggi

    d)

    rimanere raggiungibile per le attività di sorveglianza sanitaria

    e)

    seguire le raccomandazioni di cui al documento allegato.

    Questa la comunicazione ricevuta dal Dipartimento della Sanità Pubblica, e "evitare contatti sociali" era la frase che maggiormente l’aveva colpita a una prima lettura.

    Tempo poche ore dalla segnalazione di positività del caso confermato al virus SARS-CoV-2 ovvero Covid-19 – Corona Virus Disease 2019 (anno della sua prima rilevazione in Cina) –,

    tempo poche ore era scattata la macchina di isolamento e gestione dell’elemento positivo e di coloro che ne erano venuti a stretto contatto.

    E lei lì, appoggiata al rastrello, ad ammucchiare foglie e pettinare il prato nel silenzio delle colline. Ammucchiava foglie e pensieri, cercando di placare la confusione che in parte la governava.

    Stavano tutti accettando l’ordine di isolamento e di coprifuoco serale – così veniva chiamato: coprifuoco, come nei paesi in guerra – come se nulla fosse, anzi, come se tutto fosse normale.

    Il freddo la convinse a rientrare. Salì nello studio, aprì il computer, collegò la cassa Bluetooth al Wi-Fi interno in attesa di inserire le credenziali di accesso e lasciò che le dita scorressero sulla tastiera.

    Cammino scalza, mi chiedo dove. Respiro l’aria tersa, l’azzurro del cielo, le colline verdi che macchiano gli occhi, dal trifoglio allo smeraldo, dal ginepro al pistacchio, dal lime al coccodrillo. Verde coccodrillo, un coccodrillo giace sulle colline remote.

    Silenzio.

    Silenzio immoto, ignoto,

    silenzio illusorio, ingannevole.

    Non un suono, non un lamento,

    non un latrato, un nitrito, un belato.

    Non un rumore di trattore, un’auto, una moto,

    un bambino che piange, un vecchio che guarda,

    un cigolio di cancello, una caciara di gente, un gatto che passa,

    un uscio che s’apre, una fontana che goccia,

    un cuoco che parla, una vecchia che tace.

    Fermo, il mondo è fermo in questa folle pandemia, in questa insana demenza dove l’uomo giace e si adegua, si plasma e sottomette alla natura che ai suoi occhi esplode, graffiante erompe sugli alberi e nell’odore dei prati, beffarda ride dalle corolle profumate. E i rami che danzano le loro nuove foglie, tenere e verdi.

    Di nuovo i passeri che battibeccano volando, un attimo si posano sul comignolo della casa abbandonata e poi, stizziti, se ne vanno.

    Mi siedo sulle sterpaglie appuntite, avvolgo il collo nello scialle per l’aria che sbuffa mentre tendo lo sguardo lontano, dove un segnale di fumo sale: indiani Arapaho al mio cospetto, il capo fasciato nella corona di penne d’aquila e i simboli di forza dipinti sul volto, al cielo immortalano i loro alfabeti fatui.

    O, forse, un mite falò di potatura a propiziare il nuovo raccolto.

    Seduta, osservo e respiro. Canto la melodia nel vuoto e attendo.

    Lo sguardo si appanna, mi arrendo e… eccomi in volo!

    La terra dall’alto, come tessere di un puzzle alternate a macchie di acquerello sulla carta ancora bagnata.

    Ciuffi di nuvole sospese, simili a greggi di batuffoli di cotone in transumanza nel vuoto.

    Le strade, come fili, appoggiate sul verde e marrone di monti e colline in attesa che la mano della ricamatrice li raccolga in un trine prezioso.

    Ed ecco il mare, le spiagge vuote, l’acqua cristallo.

    Le onde, sbavature bianche abbozzate sulla rena dalla spatola del pittore.

    L’erba si piega sotto il sole acceso di rosso e i campi di granturco ciondolano pigri al vento come una melodia blues frizzante, dove la spiga di sorgo stona, quasi volgare, a fianco delle alte onde di mais.

    Nei luoghi dove non sei nata né cresciuta, nelle vie strette ora asfaltate, un tempo polverose e assolate strade di campagna, a fianco di canali pingui di acque lorde; dove le donne di paese il pomeriggio della domenica passeggiano a gambe nude con le spalle al sole e i capelli tutt’uno con il sudore e il riso di chiacchiere sciocche; dove altere le ciliegie adornano i lobi dei rami estivi e dignitosi i grappoli autunnali attendono la spremitura, lì una chiesa celebra la tua morte.

    La tua veste terrena costretta nella cassa, le sue panche rigide colme dei sederi di chi ti ha amato e ti ama e di chi solo ti ha conosciuto o semplicemente incontrato; oppure no, ma quel tempo deve presidiarlo, quel momento registrare non per custodirlo ma per farlo custodire.

    Il luogo del dolore e degli sguardi, l’istante dell’arresto, del tracollo, dello stupore, dell’ipocrisia.

    Ognuno il suo culo appoggiato, ognuno le sue mani in mano, ognuno la sua vita prima e ora, al tuo cospetto.

    Tre rose rosse appoggiate sulla bara, il vocio sommesso del mi ricordo quando e di quella volta che e aveva appena trovato pace o non trovava più pace da anni.

    E tu costretto nella cassa, un pezzo della tua vita a chiunque, non il pezzo che hai scelto o avresti scelto tu ma quello che ognuno si è preso o ha tenuto di essa.

    Tu, con la tua vita prima e basta.

    Il dopo sarà nel ricordo di chi vuole ricordare o vuole dimenticare ma non riesce, l’ora è ora e le lancette scandiscono nel vuoto il dondolio del fumo di incenso che annebbia le lacrime.

    Il pezzo della tua vita che mi scalfisce è seduta al mio fianco, una a destra e una a sinistra, e io le abbraccio sorridendo queste figlie che hanno artigliato le nostri notti e, festa di compleanno su festa di compleanno, ci siamo trovati ignari a percorrere sentieri diversi, un vetro a separare i due distinti cammini, di tanto in tanto un affaccio nel vuoto per tirare il fiato e illudersi che, dove l’impegno avesse trovato fine, il percorso si sarebbe ricongiunto.

    Dove i cannoli vomitano ricotta e canditi, dove le teste di cavallo decapitate vengono gettate di notte oltre la recinzione dei cantieri, pronte ad accogliere i muratori del mattino sonnacchioso quando le strade luride si affollano di solitudine umana nella sua indegna babele di macchine imbizzarrite.

    Dove il mare è mare ma la spiaggia è discarica, dove il pesce è fresco solo qui e l’estraneo è così estraneo che non può permettersi di pagare. Lì la tua spina si è staccata, qualcuno ha tranciato il filo e se ne è andato, dopo avere tolto la corrente.

    Il fruttivendolo ambulante che ogni mattina ti salutava, ora mi guarda attonito e la barista dei tuoi caffè zuccherati ci offre dolciumi e fritti come se l’unto potesse riempire l’assenza, potesse ridare corrente, potesse far scivolare via lo sgarbo che questa città ti ha riservato.

    Il vento sulla terrazza dell’aeroporto annebbia la mente e dipinge i ricordi: un lapis di legno a punta grossa blu, blu intenso forte e denso, colora Marina di Campo e Scopello e le baie di Ponza, uno rosso vinaccia le foglie cadute sui colli dove camminiamo con la mia pancia incinta, uno bianco le tende dei templi shintoisti che sventolano ampie, lente e ariose davanti agli edifici rossi dei monaci e un aereo parte e tutto trascina con la punta 0,5 japan di china nera indelebile.

    Il giallo oro sono le tende di seta che chiudevo la sera, tutte le sere, quando mi rassegnavo al tuo mancato rientro e prima di dormire accarezzavo le teste tonde e profumate del nostro pezzo di vita, e riaprivo la mattina, sorridendo alle fette di crostata posate nei piatti annaffiando di cacao le tazze colme di latte.

    Ti sei perso prima, molto prima, che la vita ci mescolasse nel suo bianco cappello di velluto bianco e decidesse di farci estrarre a sorte da una mano impazzita.

    Braccia estranee mi cingono con parole di consolazione e stupore, di vicinanza temporanea, quella che fatica a reggere nel tempo, fuori di qui.

    La cattedrale vuota, i lapis di legno con la punta grossa spuntata gettati in strada ai piedi del carretto ambulante. La barista l’ho pagata.

    Mi chiedo con chi bevi i tuoi vini pregiati, con chi condividi la tua musica ricercata e se la tua veste è una tunica di raffinato lino bianco.

    Sulla consolle in alluminio i tuoi occhiali con la sottile montatura in metallo leggono le mie giornate.

    Cammino scalza, mi chiedo dove e, nel mentre, ascolto la tua voce che fa eco alle sirene. Incessanti, pure loro, urlano alla vita.

    Nihon

    «Ma perché non riprendi il giapponese, non ti piacerebbe?».

    Si era intestardito che lei dovesse riprenderla quella lingua e, spesso, dall’altra parte del video la esortava in questo senso.

    Lei rimaneva in silenzio, alcune volte sorrideva pacata, altre rimaneva con il viso appoggiato sul palmo delle mani, i gomiti sul tavolo, conscia dell’impossibilità di spiegare a chiunque cosa il giapponese avesse per lei significato, il mondo che le aveva aperto, i sogni attraverso i quali aveva veleggiato, le certezze che aveva coltivato seduta alla canteen della Waseda University chiacchierando con professori e studenti. Conscia della sua incapacità di riesumare quel tralcio di vita che da anni aveva reciso.

    C’erano stati anni in cui il giapponese era stata una lingua praticata, una scelta precisa di vita, un impegno universitario assiduo, un obiettivo dichiarato da raggiungere e di fatto raggiunto quando venne invitata come ricercatrice ospite retribuita presso una della università più prestigiose del Giappone.

    Aveva preparato le valigie come se dovesse rimanere fuori casa un mese o poco più. Solo all’aeroporto di Fiumicino, alla barriera della sicurezza sembrò rendersi conto che stava compiendo un vero front walkover, una bella rovesciata in avanti. Le prese il panico, girò il viso e si incamminò verso il gate.

    Il salto in avanti durò diciotto mesi e qualche giorno, poco meno di due anni. Anni ora rinchiusi in cartoni identificati con un pennarello bordeaux: libri Nihon, ceramiche Nihon o, semplicemente, Nihon. Semplicemente Nihon perché, quel Nihon, Giappone, non racchiudeva oggetti appunto, ma pezzi di carne che si era strappata di dosso, una mattina che sembrava come tante, dopo avere furiosamente sbattuto la porta in faccia alle notti di studio con gli occhi e la bocca impastata, alle birre e alle pizze ingurgitate al faro con lo sguardo sulla laguna e nel delirio costante del ripetere le differenti pronunce di ogni ideogramma, che solo a memoria si possono imparare, al su e giù su treni sudici e puzzolenti con le sedute in sky marrone, le Lucky Strike sempre accese, alle trenta ore di viaggio fra i cieli dell’Europa e dell’Asia con un nodo in gola ma determinata a raggiungere la meta a lungo fantasticata durante le corse in bicicletta lungo l’arenile, con la gonna che si alzava a salutare il mare e gli occhi che si arrendevano al declino rubino della sera.

    Lacerò orizzontalmente il nastro adesivo che sigillava uno dei cartoni Nihon, lo incise lentamente e con precisione lungo la fessura di unione dei due lembi e, come intimorita, iniziò a esplorare fra fogli imbellettati di ideogrammi, libri che le risultavano illeggibili ma era certa fossero stati la sostanza organica viva, palpitante e appassionata del suo lavoro nei due anni là trascorsi.

    Iniziò ad accatastare tutto a terra e, fra pennelli, depliant, agende e foto, si ritrovò tra le mani un biglietto ferroviario datato luglio 1988: era Showa in Giappone.

    Si vide scendere dalla Shinkansen¹ con i capelli ricci permanentati che tanto distraevano quel popolo caparbio dagli occhi ad asola, mentre nella mente ripercorreva la relazione che avrebbe dovuto tenere nel pomeriggio a una conferenza fuori Tōkyō.

    In Honshū il caldo estivo, esasperato da un’umidità spossante, snerva i pensieri e le gambe. Lo schiaffo bollente che la colpì di fuoco non appena la porta automatica del treno si aprì, la fece tentennare nella discesa e sostare una frazione in più prima di appoggiare il piede destro sul binario. Ciò fu sufficiente ad attirare la sua attenzione sulla delegazione di accoglienza che si identificava a lei con un cartello che riportava il suo nome in katakana²: i sei professori in giacca e cravatta che iniziarono a prostrarsi in ripetuti ojigi³ in qualche modo la imbarazzavano, in realtà la infastidivano, sebbene la folla intorno sembrava non fare caso a quella parata di inchini.

    Si velò della timida necessità di riposare per riprendersi dall’afa e, girando tacchi e permanente, si accomodò sul sedile posteriore del taxi che la nascose fra le tendine del lunotto posteriore e la condusse alla residenza universitaria.

    Osservando la piccola cittadina scorrere oltre il finestrino, ancora una volta si chiese come potessero coesistere in quel paese anime così diverse e, all’apparenza, tra loro disarmoniche, le une eredi di un passato appena trascorso, le altre già evidenza di un futuro che, in quegli anni, non aveva ancora raggiunto l’Occidente.

    Appuntò nella mente quanto quell’autovettura verde a strisce bianche e gialle con il copri-volante di pizzo bianco stonasse al cospetto dei megastore che affollavano i larghi marciapiedi con beni tecnologici fra i più avanzati del pianeta; e prese nota, una volta per tutte, di quanto i suoi lunghi capelli permanentati contrastassero il coro femminile di caschetti neri, rigorosamente lisci e lucidissimi; così come i suoi tailleur verde acido, neri o blu con le scarpe a tacco alto abbinate, in qualche modo stonassero nella parata di scarpe basse bianche e gonne nere al ginocchio.

    Nel pomeriggio, seduta al tavolo dei relatori, esaminò con lo sguardo la platea compostamente e silenziosamente seduta davanti a lei, oltre le bottiglie dell’acqua e la tazza di the, in attesa di accogliere la sua relazione. Era l’unica donna presente, nel suo tailleur oggi blu, giacca e gonna aderenti, la consueta scarpa a tacco alto. Una camicia di seta bianca con rouches. Calza velata blu.

    Iniziò a esporre in un buon inglese. Non leggeva neppure, gli argomenti erano stati oggetto dei suoi studi già da alcuni mesi, spostava lo sguardo sul viso di uno e dell’altro dei professori presenti per carpirne l’attenzione e cercare di evitare che cadessero tutti quanti nel noto torpore a occhi chiusi che, come aveva più volte sperimentato in quel periodo, fosse consuetudine accadere in quelle occasioni.

    Al termine non si accese alcun dibattito, semplicemente un coro di sillabe, di ‘ah’ e ‘oh’ oltremodo stupefatti, di ‘uhm’ rapiti, di soodesune⁴, di omoshiroi⁵ e via dicendo, nel goffo tentativo di esprimere un’ipocrita ammirazione per l’impegno che una giovane donna dedicava a studi storici sul sistema educativo giapponese e sull’influenza dell’occupazione americana su una società devastata, arsa, ancora in parte succube e annichilita dal fungo atomico.

    La realtà dei fatti raccontava che: uno gli occidentali erano e rimanevano gaijin⁶; due lei era donna; tre lei era una donna occidentale; quattro lei era l’unica donna in quella stanza; cinque lei era l’unica gaijin donna in quella stanza.

    Terminata la presentazione venne informata dell’orario della cena e invitata a trascorrere il tempo rimanente, un paio d’ore circa, nell’onsen⁷ al piano terra.

    Più e più volte, in quei primi mesi, era stata invitata a cene ufficiali allestite in prestigiose stanze, i vassoi da portata in file ordinate appoggiati sui tatami⁸, ognuno con il suo cuscino per la seduta del commensale. A ogni cena veniva sottoposta a un elenco, sempre uguale, di domande sulla mafia, sulla pornostar che in quegli anni sedeva alla Camera dei Deputati in Italia, su quale fosse il vestito tradizionale della sua città, se potesse cantare una strofa, una sola, di O sole mio, se sapesse suonare il violino, se gli spaghetti vanno arrotolati sulla forchetta o nel cucchiaio. Una volta le chiesero che lingua si parlasse in Italia. All’inizio rispondeva divertita, spesso stupita che l’immagine del suo paese fosse così stereotipata, come se lei avesse pensato del Giappone solo geisha, samurai, teatro No, yakuza e kimono. Col tempo iniziò ad annoiarsi di queste futilità, prendendo atto che non c’erano argomentazioni che distraessero i suoi interlocutori dalle loro convinzioni.

    Parlarti mi incalza a parlarmi, a leggermi. Parlarti urge su un silenzio durato anni.

    Arzigogoli sul video, scarabocchi neri che si formano nella mente e saltellano fra i tasti per apparire sullo schermo, rincorrendosi se agito le dita sulla tastiera o estinguendosi se li ripercorro al contrario.

    Parlarti supporta la certezza fatua, eretica, della tua presenza, dei tuoi abbracci lunghi, del tuo costante solleticarti la barba e tormentarti i capelli in una altalena di gesti irrequieta, a tratti ansiosa.

    Parlarti mi aiuta a scrivere, a rivolgere lo sguardo a ciò che la mia mente farnetica nella sua inquietudine e a dare respiro a questo sentimento che insiste, oggi, su ogni momento delle mie giornate.

    Nel riposo dei tuoi silenzi tersi, nell’infanzia dei tuoi semplici sorrisi, io trovo pace; la mente mi dà tregua, posso accoccolare i piedi sotto le gambe, accovacciata nella quiete e nella luce evanescente e impalpabile di queste giornate che, timide e titubanti, a tratti confuse, affacciano all’alba.

    Di sera, sonnecchio davanti al camino, la stanza buia punzecchiata dall’alito della fiamma sotto il tizzone quasi arso, il cane accovacciato ai miei piedi che di tanto in tanto, pigro, alza lo sguardo a chiedere un gesto, una carezza, un semplice sbuffo sul pelo irsuto.

    Il silenzio interrotto dal crepitare mesto del fuoco, un fruscio costante che fa da sottofondo ai pensieri.

    Le pareti tinte di fresco dell’appartamento ristrutturato si chiedono quanto a lungo adotteranno i miei respiri, esaudiranno le mie esitazioni, custodiranno le serate con gli amici, riservate faranno da cornice alla nostra intimità.

    Soffio lenta e costante sul rosso che zampetta

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