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La versione di Barbie
La versione di Barbie
La versione di Barbie
E-book171 pagine3 ore

La versione di Barbie

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Info su questo ebook

Fin da piccole ci hanno imbottito la testa di favole, ma non ci vuole molto a rendersi conto che, più che una fiaba, la vita di una donna è un horror! Quando ce ne accorgiamo, però, è troppo tardi: ci troviamo alle prese con un lavoro che magari ci piace ma ci stressa (oppure ci fa schifo e quindi ci stressa ancora di più), dei mocciosi che pretendono da noi l’inverosimile e, palla al piede finale, sposate finché morte non ci separi (tiè). Soprattutto, alla faccia di sessant’anni di femminismo, viviamo ossessionate dalla linea e dallo scorrere del tempo, in preda ai sensi di colpa perché non assomigliamo neanche un po’ a lei, a Barbie, l’inarrivabile e biondissima Principessa dalle scarpe rosa shocking, modello di perfezione imposto a generazioni di bambine. Ma, come non si stanca di ripeterci Alessandra Faiella in questo esilarante, dissacrante e anche un po’ pungente libro, essere felici non è un optional: dobbiamo riscrivere queste benedette favole. E se per farlo bisogna mandare affan*** qualcuno, pazienza: sono i vaffa che aiutano a crescere.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2015
ISBN9788868991500
La versione di Barbie
Autore

Alessandra Faiella

Alessandra Faiella (Milano 1962), attrice, comica e autrice di testi per la tv e il teatro. Tra le sue pubblicazioni: Il brutto delle donne (con Giovanna Ramaglia, Garzanti 2005), Dizionario Lei-Italiano. Italiano-Lui (con Giorgio Ganzerli, Vallardi 2006) e Il lato B (Fazi Editore 2010). Ha debuttato al cinema con il film La grande prugna (1999), con Luciana Littizzetto, Ale e Franz, Enzo Iacchetti; tra i suoi spettacoli teatrali di maggior successo, Stasera non escort e Il Burqa e la Velina. Il disagio femminile tra oriente e occidente.

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    Anteprima del libro

    La versione di Barbie - Alessandra Faiella

    Introduzione

    Forse a noi donne ci hanno rovinato le favole. C’è una scena stupenda nel film Shrek III: alcune principesse delle fiabe vengono fatte prigioniere. Alla domanda: E adesso che facciamo?, una di loro risponde: Niente, siamo principesse, aspettiamo che qualcuno venga a salvarci!. Ecco, è arrivato il momento di capire che dobbiamo salvarci da sole.

    La Bella Addormentata, si sa, era imbottita di Xanax e non si può pretendere che fosse molto lucida, ma noi, come abbiamo potuto non capire che quando il Principe Azzurro ci ha promesso di farci scopare tutto il giorno non alludeva al letto, ma al pavimento?

    E la Sirenetta? Ha dato la voce per avere le gambe. Chissà che cosa le chiederanno per avere le tette!

    La principessa sul pisello: quarant’anni sempre sul pisello, sempre sul pisello, sempre, sempre sul pisello… che palle! Sarà diventata lesbica!

    E Biancaneve? Per secoli ci hanno fatto credere che fosse felice di fare la schiava per sette nanerottoli, probabilmente nemmeno superdotati! Francesco che parlava ai lupi e agli uccelli è diventato santo, come mai la fanciulla con le gote bianche e rosse che canticchia con leprotti e cerbiatti ci appare una ragazzina mal cresciuta e un po’ demente? E perché la Bella deve sposare una bestia e non avviene mai il contrario?

    Più che una favola, la vita di una donna è un horror! Quando ci accorgiamo che la fiaba è una gigantesca presa per i fondelli è già troppo tardi: abbiamo un lavoro che magari ci piace ma ci stressa (oppure che ci fa schifo quindi ci stressa ancora di più), dei mocciosi che pretendono da noi l’inverosimile e la bestia di cui sopra, palla al piede finale.

    Cominciano a snervarci a sei anni con i corsi di danza, le Barbie e il dolce forno, poi diventiamo adolescenti anoressiche o obese a seconda delle nevrosi materne e dei modelli mediatici in voga, attraversiamo l’età adulta sospese tra fax, tex, mex e botox, per poi finire, come tutti, in un comodo loculo vista cipresso. Quando riesumeranno il cadavere, ci troveranno intatte: con tutto il botox, il collagene, l’acido ialuronico che ci siamo sparate e i conservanti che abbiamo mangiato, se aprono la nostra tomba trent’anni dopo la morte sembreremo delle star di Hollywood: decrepite sì, ma perfettamente conservate.

    Più di sessant’anni di femminismo sono stati buttati nel cesso se ancora passiamo la nostra vita in preda ai sensi di colpa, ossessionate dalla linea e dallo scorrere del tempo, annichilite dall’ansia di diventare perfette e di dover fare tutto a tutti i costi.

    Questo è peggio della schiavitù ai tempi dei servi della gleba! Fermiamoci in tempo! Quando ti accorgi che stai stirando i bambini e accompagnando le camicie a scuola vuol dire che hai esagerato. Bloccati! Prima che il tuo cervello faccia la fine della lana in lavatrice: infeltrito e inutilizzabile!

    È venuto il momento di riscriverle queste benedette favole, perché tentare di vivere felici non è un optional. E se per fare questo dobbiamo mandare affa*** qualcuno, pazienza: sono i vaffa che aiutano a crescere.

    1

    Infanzia e adolescenza

    In principio era la Barbie

    Quando ero bambina, le mie amichette giocavano tutte con la Barbie. Io no. Preferivo le macchinine al dolce forno e per questo le mie compagne mi guardavano con sospetto: Quella lì è proprio strana pensavano. Loro non lo dicevano, ma io glielo leggevo negli occhi. D’altra parte anche con i maschi non andava molto meglio: se tentavo di inserirmi nei loro giochi, dal calcio ai cowboy, non avevano problemi a tagliarmi fuori. Quella lì è proprio strana pensavano, e quel che è peggio lo dicevano pure, perché essendo maschi non avevano problemi a essere assertivi.

    «Perché non giochi con le Barbie?» mi chiedevano maschi e femmine insieme, determinati nell’intento di farmi sentire una disadattata.

    «I miei genitori non vogliono» rispondevo, cercando vigliaccamente di addossare la responsabilità della mia stramberia a chi aveva commesso l’imprudenza di mettermi al mondo.

    «E perché non vogliono?» insistevano quelli, ben decisi a farmi provare la stessa sensazione che patisce un extracomunitario a un raduno della Lega Nord.

    «Perché i miei genitori sono comunisti» rispondevo, cercando stupidamente di fare colpo con qualcosa di trasgressivo.

    A questo punto i miei amichetti mi voltavano sdegnosamente le spalle dopo avermi stigmatizzato con un: Poveraccia, che si imprimeva sulla mia anima come un marchio a fuoco sulla pelle pezzata di una mucca frisona.

    Soltanto quando andavo a passare l’estate al lago, a casa della nonna materna, potevo finalmente sfogarmi. Col mio amico Andrea avevo messo subito le cose in chiaro: «Quando giochiamo a nordisti e sudisti siamo entrambi soldati, ok?».

    Domanda retorica: il mio tono non ammetteva repliche.

    Anche Andrea, inizialmente, aveva provato a relegarmi in un ruolo marginale, consono, secondo lui, alla mia appartenenza di genere: «Io faccio il soldato e vado in guerra» aveva esordito un giorno, «e tu sei mia moglie che sta a casa con i bambini ad aspettarmi».

    «Col cazzo!» avevo ribattuto con prontezza, fiera del turpiloquio che da qualche mese infarciva il mio linguaggio. Anche così, riempiendosi la bocca con espressioni scurrili, si celebra l’ingresso nella preadolescenza.

    Andrea aveva accettato di buon grado la mia defezione dai compiti muliebri: si divertiva molto di più anche lui ad avermi come commilitone, piuttosto che come appendice disutile dedita a immaginari quanto improduttivi lavori domestici.

    Dopo le vacanze estive però, si tornava all’ordinaria routine dei giochi sessisti: maschi da una parte, femmine dall’altra. Barbie e bambolotti da un lato, macchinine e cowboy dall’altro.

    Io in mezzo come una demente, sola e sociopatica. Mi sentivo una sfigata, ma le Barbie continuavano a farmi schifo.

    Non riuscivo a capire che cosa ci fosse di tanto affascinante in un’orripilante bambolina di plastica col naso rifatto, le tette finte, e il quoziente intellettivo di uno gnu (con tutto il rispetto per gli gnu). Più che vestirsi, spogliarsi e flirtare con Ken, il suo fidanzato tronista, la Barbie non faceva. Una noia mortale.

    Un giorno, spinta da mia madre (che non solo non era comunista, ma era anche terrorizzata dal timore che diventassi del tutto sociopatica), accetto l’invito di una compagna di scuola a giocare con l’odiato mostro di plastica. Il programma era divertirsi come matte giocando a Barbie e la magia della moda, una delirante sfilata di top model anoressiche.

    E guardate che parlo di anoressia non a caso: se Barbie fosse una persona reale, facendo le debite proporzioni sarebbe alta 1,75, peserebbe 50 kg, e avrebbe come misure seno-vita-fianchi: 100-45-85. Siamo in piena patologia anoressica.

    Dunque, quel giorno, decido di accettare l’invito e mi reco a casa di Ludovica, una bambina ricca e simpatica come un avviso di sfratto, che i miei mi obbligavano a frequentare ogni tanto perché suo padre lavorava nello stesso ufficio del mio.

    Appena entrata nella cameretta della rampolla della Milano bene, vengo colta da malore: pareti rosa shocking, moquette rosa shocking, mobili rosa shocking, anche lei, Ludovica, era rosa shocking, accessori, scarpe, fascia per i capelli, persino la sua paffuta faccia ebete era color rosa shocking. Superfluo dirvi che sin da allora amavo tutti i colori tranne il rosa shocking. Mentre osservo con malcelato disgusto la cameretta, con la coda dell’occhio sbircio Ludovica e rifletto sul fatto che non ha certo il fisico delle sue bambole preferite, probabilmente si ciba di panini imbottiti di sugna a giudicare dai rotoli di ciccia, messi in evidenza dalla tutina da ginnastica in lycra color rosa confetto.

    Mi guardo intorno basita e noto con orrore che da ogni anfratto della cameretta si affacciano miriadi di Barbie abbigliate nei modi più disparati, ma sempre con la stessa identica espressione da pirla.

    Al centro della stanza campeggia immensa, dotata di ogni comfort, una gigantesca casa di Barbie, una roba che a Ibsen gli faceva un baffo. Un appartamento perfettamente miniaturizzato dove non manca nulla, c’è persino la micro palestra e una minuscola Jacuzzi. Nessuno, infatti, potrebbe mai immaginarsi una Barbie povera, con la cucina in fòrmica e il bagno sul pianerottolo.

    Palla di lardo mi osserva socchiudendo gli occhi porcini, studiandomi con un misto di curiosità e disgusto, poi afferra velocemente una, due, tre, cento Barbie e me le rovescia ai piedi con aria di sfida. «Cominciamo la sfilata» mi intima.

    Stende sulla moquette un red carpet in miniatura, infila nel mangiadischi la hit del momento, Pop corn, e comincia con fare disinvolto ad armeggiare con le bamboline simulando un improbabile défilé di alta moda.

    Di fronte al mio sguardo attonito sfilano miriadi di Barbie abbigliate in modo diverso, tra cui spiccano: Barbie Modella (tautologico), Barbie Infermiera, Barbie Atleta olimpica, Barbie Chirurgo, Barbie Insegnante e Barbie Hostess. Manca solo Barbie Zoccola, ma anche quella, forse, sarebbe una tautologia.

    Dopo i primi attimi di stupore, mentre Ludovica muove con le mani grassottelle le sottili gambe di plastica delle bambole, io vengo colta da una sensazione di tedio incontenibile e poco dopo crollo nel sonno più abissale. Come di fronte all’evento più noioso del mondo, tipo una gara automobilistica in tv, sprofondo pesantemente nella morbida moquette rosa shocking della cameretta di Ludovica, l’odiata amica.

    Quando la biondissima, firmatissima e slanciatissima madre di Ludovica mi viene a svegliare, penso con orrore di trovarmi di fronte a una mostruosa Barbie parlante, alta 1,75.

    «Tua madre ti è venuta a prendere» sibila la Barbie gigante con una smorfia di disgusto dipinta sul viso di plastica. E non solo il viso: sotto la camicetta di seta svettano due bocce al silicone da fare invidia a quelle che, di lì a poco, avrebbero popolato i programmi delle tv commerciali.

    Un prototipo all’avanguardia del Drive in.

    Ho fatto come al solito la mia figura da disadattata: addormentarsi nel bel mezzo di una sfilata d’alta moda, a casa di una famiglia in vista della high society milanese. Non si fa, questo proprio non si fa.

    Ancora intontita dal sonno, m’infilo rapidamente il mio montgomery da sfigata, una specie di coperta militare color verde bottiglia, con vistosi alamari di finto corno, un cappottino orrendo che solitamente mi vergognavo profondamente di indossare. Le mie compagne avevano il loden, simbolo delle giovinette moderne e alla moda, io invece indossavo quel sacco informe di lana ruvida con i bottoni di plastica. Eppure quel giorno, a casa della ciccio-bomba Ludovica, per la prima volta godevo a essere vestita male, in rivoluzionario spregio all’arroganza delle due borghesi bastarde e Barbie-dipendenti. Nascevano in me i primi segni del fervore ribelle che avrebbe agitato la mia tumultuosa adolescenza.

    «Mamma, se mi porti ancora a giocare da quella cretina faccio harakiri con il trinciapollo» ho minacciato. Mia madre non ha chiesto nemmeno il perché, ma Ludovica è scomparsa dalla mia vita.

    Sono passati più di trent’anni e io sto invecchiando. La Barbie no. Nel frattempo, sono comparsi sul mercato altri tipi di pupazze, come le Braz per esempio, simili alle Barbie, ma ancora più zoccole. Le Braz sono bamboline con la testa enorme, occhi grandissimi, nasi piccolissimi e gambe spaventosamente lunghe, in una parola dei cessi, ma riportano grande successo. Che le Braz siano una versione ancora più orrenda e sessista delle Barbie l’ha constatato anche l’autorevole Daily Telegraph, che le ha definite «quelle che hanno l’aria di una ragazzina che vive sul marciapiede e sta aspettando il suo magnaccia che arriverà in limousine per farle sniffare un po’ di coca».

    Nuovi modelli nei cartoni animati? se Mulan e Rapunzel hanno fatto qualche passo avanti, ci pensano le Winx a riportare l’orologio indietro: capelli fluenti e vitino di vespa, labbra carnose come quelle di una pornostar, svolazzano come noiosi calabroni nonostante il peso di gravosissimi sandali con enormi zeppe luccicanti e tamarre.

    Comunque sia, Barbie, Braz, o Winx, le tette di plastica resistono al cambiamento delle mode e dei costumi e la bambolina imputtanita è ancora il prototipo della femmina del terzo millennio, tuttora dotato di appeal sulle giovani generazioni, pronte a identificarsi col suo stile di vita falso e demente. La new Barbie, oggi come ieri, ci insegna a inseguire il suo intramontabile modello di donna: una ragazza moderna e superefficiente, rigorosamente eterosessuale, impegnata nel lavoro, che riesce a conciliare perfettamente carriera e famiglia, restando sempre bella, giovane, priva di rughe e di cellulite. Bambine e ragazzine ne vanno pazze.

    Mia nipote Gaia, dodici anni, m’invita a vedere il meraviglioso sito di Barbie, tutto un trionfo di fiocchi rosa e paillette, dove ci si può godere il video Barbie e l’Accademia delle principesse. Nel filmato musicale, Barbie entra all’Accademia delle principesse, un corso di fondamentale importanza per tutte le giovani donne che fanno il loro ingresso nello spietato mondo del lavoro. Con sano realismo, i costruttori del mostriciattolo di plastica spiegano alle bambine che il loro futuro sarà sicuramente quello di diventare una principessa. Be’, lo sanno tutti, la principessa è il mestiere più accreditato per una donna di oggi e soprattutto il più diffuso: ovunque sui giornali si trovano quantità sterminate di annunci che offrono impieghi come principesse.

    Nel video che Gaia mi mostra, Barbie si

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