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Manifesti femministi.: Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1966-1977)
Manifesti femministi.: Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1966-1977)
Manifesti femministi.: Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1966-1977)
E-book340 pagine4 ore

Manifesti femministi.: Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1966-1977)

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“Radicale”, a partire dal ‘68 e fino alla fine degli anni Settanta, fu soprattutto il “soggetto imprevisto” del femminismo. Con la sua peculiare combinazione di rabbia e proiezione utopica, il manifesto politico è il genere che meglio si presta a restituire la complessità di quella straordinaria stagione che segnò la presa di coscienza delle donne, attraverso un drastico ripensamento delle relazioni tra loro e della forza che da questo deriva. Riletto attraverso i suoi manifesti, il femminismo radicale sconvolge la banalizzazione corrente di ciò che è stato per riconsegnarci la testimonianza della sua verità e un’immagine in movimento di ciò che potrebbe essere.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2018
ISBN9788868993504
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    Anteprima del libro

    Manifesti femministi. - Deborah Ardilli

    Introduzione

    Deborah Ardilli

    Le temps de la colère, les femmes,

    Notre temps est arrivé,

    Connaissons notre force, les femmes,

    Découvrons-nous des milliers

    Levons-nous femmes esclaves

    Et brisons nos entraves

    Debout, debout, debout!

    L’hymne des femmes, 1971

    1.

    Che cosa è stato il femminismo radicale? Perché ha trovato in tutto il mondo un canale di espressione privilegiato (ancorché non esclusivo) nella gemmazione multipla di manifesti firmati ora collettivamente, ora individualmente? Attraverso quali linguaggi ha preso forma quella singolare combinazione di insubordinazione e tensione utopica che ha alimentato il rinnovamento del movimento femminista negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso? Quali tabù hanno dovuto essere infranti per lasciare venire a galla quello che Carla Lonzi nel 1971 avrebbe battezzato come il «soggetto imprevisto» (cfr. 2010a, p. 47)? Fino a che punto le femministe si sono riconosciute nella prescrizione lonziana di «muoversi su un altro piano» rispetto alle forme del conflitto sociale innervate dalla dialettica signoria-servitù e animate prevalentemente da collettività maschili? E fino a che punto hanno invece avvertito la necessità di un intervento puntuale nella storia, in forza dell’estensione della dialettica servo-padrone al territorio inesplorato delle classi di sesso? Quali resistenze è stato necessario vincere per poter strappare il velo di naturalità che avvolgeva (e in larga parte continua ad avvolgere) il rapporto di genere? Con quali argomenti è stata giustificata la scelta separatista? Quali solidarietà occorreva spezzare per ricostruirne di nuove, più adeguate alla comprensione del mondo che andava prendendo forma? Intorno a quali motivi si è coagulata la critica del modello di emancipazione femminile promosso nel quadro del compromesso fordista-keynesiano del secondo dopoguerra? E quali sono state, viceversa, le linee di frattura interne al movimento che hanno dato luogo all’elaborazione di spiegazioni rivali del perdurante dominio patriarcale nelle società a capitalismo avanzato? Come è stata affrontata la questione della complicità delle donne alla propria subordinazione? In che modo è maturata la politicizzazione del lesbismo all’interno del movimento delle donne e con quali effetti di ritorno sull’insieme della problematica femminista? In quale misura l’oppressione su base sessuale è stata vissuta e tematizzata nel suo intreccio ad altri assi di subordinazione – a partire da razza e classe – che toccano direttamente la vita delle donne?

    Sono queste alcune delle domande che potrebbero orientare la lettura dei testi confluiti nella raccolta che avete tra le mani. A ben vedere, sono pure le questioni intorno a cui il movimento delle donne nel corso del tempo si è diviso, su cui continua a dividersi e che, retrospettivamente, seguitano a dividere le memorie. Anche per questo motivo la forma interrogativa si presta, meglio di quanto potrebbe fare una rappresentazione della storia del femminismo dettata da criteri di omogeneità ideologica, a delimitare un territorio di pratiche politiche e teoriche che ha contribuito come pochi altri a illuminare le zone lasciate in ombra dalle storie ufficiali. Non basterà pertanto sostenere – come accade di consueto, con il rischio di cadere nell’anacronismo – che gli anni del femminismo radicale sono quelli in cui la differenza femminile asserisce per la prima volta il proprio diritto all’esistenza. Per qualificare il senso di una simile affermazione bisognerà, contestualmente, porgere orecchio a quello che hanno pensato le femministe – in un’epoca in cui politicizzare la propria identità di genere equivaleva a scoprire una comunanza di oppressione – ossia al modo in cui la differenza è stata costruita da una controparte patriarcale che si è sempre riservata il monopolio dell’universale confinando le donne nel recinto della specificità sessuale. Sarebbe un errore, insomma, pensare di decifrare la complessità della vicenda femminista degli anni Sessanta e Settanta del Novecento privilegiando il punto di vista del pensiero della differenza sessuale, che avrebbe invece guadagnato influenza e visibilità nel decennio successivo.

    La polifonia a cui ho scelto di dare spazio – fatta salva la necessità di operare delle scelte su un corpo di materiali che non poteva essere riprodotto integralmente in un unico volume – non soltanto non esclude, ma richiede di collocare le voci che si succederanno nelle pagine a seguire sullo sfondo di un orizzonte comune. La varietà delle posizioni rappresentate, in altri termini, impone di acquisire dimestichezza con l’idea che il femminismo radicale non è una cosa, congelata in assiomi fuori dal tempo, ma una modalità storicamente (e geograficamente) situata di pensarsi, di agire e di pensare il proprio agire. Accedervi comporta anche, di conseguenza, armarsi della pazienza necessaria a soppesare le ricadute su tutta un’area del linguaggio politico-sociale di un campo di tensioni tra esperienza e aspettativa – tra soggettività date e anticipazione di soggettività possibili – puntualmente trascurato dalla critica propensa ad associare radicalità ed essenzialismo, spesso con l’obiettivo di disfarsi della prima per mezzo della censura del secondo. L’equivoco, deliberato o involontario, consiste nello squalificare come essenzialista ciò che appartiene per intero al campo della produzione storica e della costruzione politica del movimento di liberazione delle donne, non per caso evocate al plurale dalla maggior parte dei documenti dell’epoca.

    Ritornare a questo campo di tensioni ha significato, per me, riprendere e ampliare un ragionamento avviato in occasione dell’edizione italiana degli scritti di Valerie Solanas, che ho curato insieme a Stefania Arcara, contribuendo anche alla nuova traduzione di Manifesto SCUM (Arcara Ardilli 2018). Non è un caso che, anche in quella circostanza, la riflessione prendesse le mosse da un manifesto. Un manifesto che per di più, come sottolinea Arcara, ha segnato «un punto di svolta nella storia del femminismo: [Solanas] affermò che fosse legittimo odiare il proprio oppressore. La sua rabbia espressa pubblicamente servì da catalizzatore per la rabbia repressa di tante donne alla fine degli anni Sessanta: per la prima volta produsse quel discorso apertamente antagonista per la liberazione delle donne, poi messo a tacere in favore del discorso rispettabile dei diritti e della parità» (ivi, p. 9).

    In effetti, la propagazione per contagio della follia custodita da un testo incendiario come Manifesto SCUM si presta particolarmente bene a mettere in risalto l’affiorare di una razionalità alternativa a quella storicamente egemone. Per parte mia, nel saggio intitolato Effetto SCUM (ivi, pp. 35-60), ho provato pertanto a ragionare sull’impatto esercitato da Solanas – su entrambe le sponde dell’Atlantico – su una serie di attiviste e pensatrici a lei contemporanee che sarebbero andate ad animare gruppi, collettivi e periodici del femminismo radicale: sicuramente una minoranza, rispetto alla composizione di un movimento che ha raggiunto dimensioni di massa; ma pur sempre una minoranza particolarmente attiva sul fronte dell’innovazione teorica e della creatività militante. Quasi tutte le figure a cui mi sono interessata, al momento del loro incontro con la persona o con gli scritti di Solanas, si trovavano ancora alla ricerca di una propria definizione legittimante, sia in rapporto al filone riformista del movimento delle donne, sia in relazione a quel frastagliato territorio politico, culturale e comportamentale che il linguaggio dell’epoca indicava come nuova sinistra. Per alcune era stato soprattutto il contatto con l’irriverenza sulfurea di Solanas nei confronti del mito della Grande Arte a liberare energie fino a quel momento soffocate, o a fornire una convalida a scelte di rottura con l’establishment culturale già effettuate per conto proprio. Per altre Solanas è stata colei che ha reso oggettivamente evidente come anche il meglio intenzionato fra gli oppressori non possa cogliere, nelle parole dell’oppresso, altro che un rumore incodificabile, a riprova della consistenza extra-discorsiva di una dissimmetria di potere che non si lascia correggere sul piano puramente simbolico.

    Ciò che mi premeva, nel complesso, era tentare di restituire qualcosa della folgorante scossa elettrica prodotta da una scrittrice che, senza potersi o volersi appoggiare a una tradizione pregressa, e senza volersi o potersi unire al movimento che avrebbe preso corpo poco dopo l’apparizione di Manifesto SCUM, aggrediva frontalmente la riluttanza delle donne a riconoscere di avere un nemico e, di conseguenza, un proprio fronte di lotta. Soprattutto, mi colpiva la drastica sproporzione tra la marginalità sociale e l’isolamento di Solanas da un lato e, dall’altro, l’attivazione di un meccanismo di identificazione collettiva che, in quella precisa fase storica, aveva messo donne di diversa provenienza nella condizione di riconoscersi nel suo grido e di fondare in quel gesto la propria soggettivazione politica – come se in quella peculiare sproporzione si delineassero il paradosso generativo del femminismo che definiamo radicale e, in definitiva, la sua misura più autentica.

    Anche per questa ragione, in quella sede, ho ritenuto indispensabile saldare l’indagine sulla ricezione di Solanas a una ricognizione di quelli che la femminista francese Colette Guillaumin (1981) ha definito gli «effetti della collera degli oppressi». Per Guillaumin tali effetti, indotti dall’attivazione politica di soggetti minoritari, vanno misurati anzitutto in termini di ristrutturazione dei quadri teorici adibiti alla conoscenza della società. Tuttavia, prima ancora di soppesarne le ricadute sul piano della teoria, mi era parso importante collegare quella collera a uno scatto collettivo di coscienza propedeutico a una delle acquisizioni più tipiche e caratterizzanti del femminismo di quegli anni, vale a dire la convinzione che «le persone non si radicalizzano combattendo le battaglie degli altri». Questo era stato senz’altro il nocciolo della traiettoria solitaria di Solanas, la molla propulsiva del suo partire da sé. Ma molte altre, nel giro di poco tempo, sarebbero approdate a una conclusione analoga.

    «Le persone non si radicalizzano combattendo le battaglie degli altri» è una frase che si legge in uno degli scritti inclusi in questa raccolta, Verso un movimento di liberazione femminile, il documento di congedo dalla SDS, la principale organizzazione studentesca statunitense, scritto nel 1968 da Beverly Jones e Judith Brown e generalmente conosciuto con il nome di Florida Paper. Che quel rilievo abbia un valore più generale in ordine alla decifrazione dello spirito del tempo è attestato in modo convincente dallo spostamento semantico che in quegli anni interessa l’aggettivo radicale. Fino alla seconda metà degli anni Sessanta, infatti, per una giovane donna nord-americana in rotta con l’ambiente circostante, essere una radical woman, o una radical female, significava gravitare nell’orbita della controcultura e della nuova sinistra (Cartosio 2012). Alla fine del decennio lo stesso aggettivo qualifica le componenti del movimento di liberazione delle donne che rifiutano di considerare la propria oppressione come una ricaduta secondaria delle contraddizioni di classe, che parlano di donne e di uomini come di classi di sesso antagonistiche, che dichiarano a voce alta la propria indisponibilità a subordinarsi alla sinistra maschile, che articolano le critiche più provocatorie della famiglia, del matrimonio, dell’amore, della norma eterosessuale (Echols 1989).

    Uno slittamento semantico analogo coinvolge, in area francofona, l’aggettivo révolutionnaire, come si potrà osservare leggendo il documento delle Femministe rivoluzionarie, il gruppo animato da Christine Delphy e Monique Wittig. Anche in questo caso rivoluzionarie (impiegato come sinonimo di radicali) cessa di segnalare l’affiliazione a uno dei tanti gruppi dell’estrema sinistra o lo sforzo acrobatico di far quadrare marxismo e femminismo in una sintesi teorica contraddetta, all’atto pratico, dalla distribuzione clamorosamente differenziale del potere tra compagni e compagne. L’aggettivo indica invece la determinazione delle femministe a prendere in carico la propria liberazione e, contestualmente, a mettere in discussione i presupposti gerarchici su cui era stato edificato l’obbligo della solidarietà all’interno del movimento misto. Sono questi alcuni degli esempi che mostrano come, per poter dire qualcosa della collera che ha ridisegnato la fisionomia del movimento delle donne con una potenza d’urto che stenta a trovare equivalenti nello scenario attuale (Hamilton 2018), sia necessario rivisitare l’archivio che ne reca le tracce. Salvo dover immediatamente riconoscere che, fuori da cerchie ristrette, quell’archivio è come sigillato.

    Nel corso degli scambi con il pubblico durante le presentazioni di Trilogia SCUM ho in effetti avuto modo di rendermi conto che buona parte dei riferimenti disseminati nel mio discorso era scolpita nella memoria delle donne presenti che avevano partecipato direttamente al movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta. Alle più giovani, o anche soltanto alla generazione nata a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, molti di quei nomi e di quei documenti – eccezion fatta per Carla Lonzi – non dicevano invece quasi più nulla. In quest’ultimo caso a fare difetto non era la memoria, che per ragioni evidenti non avrebbe potuto agganciarsi a ricordi di prima mano, ma supporti testuali facilmente reperibili a cui potersi richiamare per ricostruire una trama significativa di pensieri. Sono molti e complicati i motivi che hanno contribuito a far ingiallire l’immagine di quella stagione agli occhi delle nuove generazioni e a promuovere una narrazione che fissa gli anni Sessanta e Settanta come un’epoca felicemente trascesa da visioni più scaltrite del soggetto femminista, al punto da non avere neanche più bisogno di essere conosciuta e discussa. E tuttavia troppo spesso si trascura il peso del più banale, ma non per ciò meno influente, fra questi motivi: e cioè che una densa coltre di sentito dire ha occupato lo spazio lasciato vuoto dalla scarsa circolazione dei testi, dando talvolta luogo a curiosi effetti di post-datazione del proposito di «disfare il genere», per riprendere la fortunata espressione di Judith Butler (2004). «Molti credono che la storia sia cominciata negli anni Novanta», mi disse sconsolatamente una donna a margine di una presentazione, inducendomi peraltro a domandarmi che cosa sia stato fatto, e che cosa si potesse ancora fare, per provare a correggere quella credenza erronea. Pertanto ho accolto volentieri, nella speranza di fare cosa utile, la sollecitazione dell’editrice a continuare a lavorare nel solco aperto dalla ricerca su Solanas e a curare una selezione di manifesti e scritti programmatici del femminismo radicale.

    2.

    Questo volume contiene testi composti in Italia, in Francia e negli Stati Uniti lungo un arco temporale che va dalla seconda metà degli anni Sessanta alla seconda metà degli anni Settanta del Novecento. Alcuni scritti non avrebbero bisogno di presentazione, mentre altri vengono qui tradotti per la prima volta o presentati in una traduzione riveduta, resasi necessaria a causa dei tagli e degli errori riscontrati nelle versioni precedenti. Nonostante le riserve espresse da alcune specialiste sull’opportunità di strutturare la rappresentazione della storia del femminismo attraverso la metafora delle waves (cfr. per esempio Hewitt 2010), per comodità espositiva ci atteniamo alla convenzione in uso identificando il decennio coperto da questa raccolta come l’epoca della seconda ondata femminista nei paesi a capitalismo avanzato, in anni segnati dalle contestazioni studentesche, dalla rivoluzione sessuale, dalla controcultura, dai movimenti per i diritti civili e dalla protesta contro la guerra in Vietnam, dalla ripresa del conflitto operaio, dalla formazione e dalla crisi dei gruppi della nuova sinistra.

    La distinzione tra una prima e una seconda ondata femminista non ha, d’altronde, una valenza puramente cronologica: non si limita cioè a descrivere una successione nel tempo spezzata da un intervallo di latenza protrattosi per mezzo secolo. E non soltanto perché la metafora delle ondate si è insediata stabilmente nell’uso comune che sarebbe vano cercare di farne a meno in questo frangente. Il fatto è che, ferma restando la necessità di tenere presente la complessità dei contesti storici nel cui ambito hanno preso forma le strategie di conquista dei diritti proprie del suffragismo, con la seconda ondata si produce uno scarto rispetto all’orizzonte moderno dell’emancipazione femminile. Se è infatti intorno alla rivendicazione del diritto di voto e alla possibilità di utilizzarla come leva per altre battaglie che si producono le azioni più spettacolari della prima ondata femminista negli Stati Uniti e nei paesi europei tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX, di segno diverso è lo slancio che mette i gruppi femministi radicali della seconda ondata nella condizione di chiudere i conti con quella che, fino a quel momento, era stata riconosciuta come la questione femminile.

    Radicale è il femminismo che fonda le proprie ragioni di esistenza non già sulla richiesta di un allargamento della cittadinanza democratica giocata intorno al paradosso differenza sessuale/uguaglianza politica (Scott 1996), bensì sul riconoscimento dell’impossibilità sociale dell’uguaglianza all’interno di un sistema patriarcale o, per meglio dire, etero-patriarcale (Fougeyrollas-Schwebel 2004, p. 140). Precisamente intorno a questo rovesciamento di prospettiva si determina, negli anni Sessanta e Settanta, la differenziazione dell’ala radicale del movimento delle donne dalle organizzazioni femminili di impronta emancipazionista come la NOW (National Organization of Women) negli Stati Uniti, l’UFF (Union des femmes françaises) in Francia o l’UDI (Unione Donne Italiane) in Italia.

    Italia, Francia e Stati Uniti non sono, naturalmente, gli unici paesi del mondo occidentale investiti dal rinnovamento del femminismo nel secondo dopoguerra. Sono tuttavia quelli che hanno dato luogo alle elaborazioni più influenti e sui quali, pertanto, mi è sembrato opportuno concentrare l’attenzione. Ma esiste pure un altro motivo che concorre a rendere criticamente rilevante, anche se non storicamente vincente, l’esperienza del femminismo radicale nelle aree geografiche su cui ho scelto di soffermarmi. Tutti i paesi sopraelencati sono stati attraversati, nel periodo considerato, da cicli di riforma significativi: in parte dettati dalla necessità dello sviluppo, in parte stimolati dalla protesta sociale, in parte finalizzati a sedarla e a convogliarla nell’alveo istituzionale. E tutti vedranno fiorire gruppi femministi inappagati dalla logica di inclusione differenziale sottesa alla modernizzazione.

    È precisamente all’insegna dell’«opposizione al concetto di integrazione della donna nell’attuale società» che si muove il Manifesto programmatico del primo gruppo femminista italiano di cui sia documentata l’esistenza, il DEMAU (Demistificazione autoritarismo patriarcale), che assume questa denominazione dopo essersi identificato prima come Lilith, quindi come DACAPO (Donne contro l’autoritarismo patriarcale). Il Manifesto vede la luce nel dicembre del 1966, a due anni di distanza dalla redazione del Documento per un’apertura di dibattito in cui la fondatrice del gruppo, Daniela Pellegrini, delinea le premesse della discussione che si propone di intavolare a partire dalla questione dell’«estraneità» assunta dalle donne «nel contesto dei problemi che rendono attivo l’individuo nella storia» (Pellegrini 2012, p. 26).

    Rinchiuse a forza nella propria sfera, secondo Pellegrini, le donne vanno a costituire quella parte di umanità a cui sono stati imposti compiti e funzioni che, sul piano ideologico, impongono di interpretarle come esseri esclusivamente sessuali. Soltanto le donne sono il sesso, soltanto loro sono tenute a «significarsi in una trascendenza costruita sul sentimentalismo della riproduzione e del richiamo sessuale» (ibidem). Certo, ammette Pellegrini, la società non è un corpo immobile sempre identico a se stesso e sarebbe futile affermare il contrario: indubbiamente per le donne sono cadute alcune restrizioni, le opportunità si sono ampliate sul fronte dell’istruzione e dell’inserimento professionale. Ma, e questo è il punto decisivo, «l’ignoranza stessa di questi cambiamenti e il costume retrivo insito in una psicologia incancrenita dalla tradizione e dalle paure, ostacolano un effettivo allargamento e rafforzamento di queste possibilità» (ivi, p. 27). Fare il proprio ingresso in ambienti extra-domestici non equivale in alcun modo a conquistare autonomia o a erodere il dualismo gerarchico di ruoli e funzioni, tanto più che la richiesta di riconoscimento delle donne continua a essere indirizzata agli uomini, con effetti distruttivi sulla solidarietà con le proprie simili.

    Di qui la necessità d’indagare, intanto, i modi del condizionamento esercitato sulle donne, tenendo conto dell’apporto di varie discipline (antropologia, sociologia, pedagogia, psicoanalisi). E sempre di qui l’esigenza d’individuare percorsi di autocoscienza idonei a riannodare i fili di una solidarietà basata sulla consapevolezza del fatto che ognuna «può pensare e vivere per se stessa in quanto donna in una trascendenza propria che non la definisca semplicemente femmina del maschio» (ibidem). Un’autocoscienza delle donne, puntualizza Pellegrini, «che deve assumere carattere di massa e nel cui ambito deve maturare una forza politica con prospettive di potere reale. Una forza politica che agisca e abbia valore determinante e, sia ben chiaro, non solo nella sfera del femminile» (ivi, p. 28).

    Su questi assi, improntati alla ricerca di un nuovo umanesimo, si innesta il Manifesto del 1966, attraverso il quale il gruppo – composto da una ventina di donne, prevalentemente casalinghe con interessi intellettuali, di diversa provenienza politica e religiosa – si propone di dare diffusione alla problematica esposta attraverso la propaganda e il dibattito pubblico, dichiarandosi disponibile alla collaborazione con associazioni, femminili e non, centri culturali, organizzazioni studentesche, sindacati, partiti e singole personalità interessate. Pur costituito da donne, il gruppo non rinuncia infatti a organizzare incontri su temi specifici aperti agli uomini nella speranza di poter indurre, se non una modificazione, almeno un avvio di autocritica in un soggetto maschile percepito come «ridotto, immiserito e in crisi» (ivi, p. 37). Almeno per un certo periodo, il proposito di portare il dibattito all’esterno del gruppo si concretizza anche nell’apertura di un difficile confronto con l’UDI sul terreno delle leggi di tutela della maternità e, più in generale, sul significato stesso delle leggi di tutela: tentativo che, tuttavia, naufraga rapidamente contro il muro di una tradizione emancipazionista impermeabile alla critica dei ruoli di genere che la legislazione in oggetto andava a confermare e a rafforzare.

    Il Manifesto esce tuttavia da Milano e arriva a Torino, tramite i canali del dissenso cattolico. Maria Teresa Battaglino, che all’epoca collaborava con una scuola per assistenti sociali diretta da un salesiano, racconta di aver ricevuto il testo dalla moglie di un sindacalista torinese della FIM-CISL proveniente dall’Università Cattolica di Milano: iniziano così alla fine del 1966, nella sede della scuola di servizio sociale dell’ONARMO (Opera Nazionale di Assistenza Religiosa e Morale degli Operai), riunioni che proseguono per alcuni mesi con un nucleo fisso di 7-8 donne, in cui si comincia a discutere di patriarcato come di una forma di autoritarismo. «Il DEMAU», ricorda Battaglino, «è stato per me la scoperta di poter far pace con tutta una serie di disagi che provavo e riconoscere che non erano paturnie, fissazioni mie» (Zumaglino 1996, pp. 34-35). Il sollievo di scoprire che il disagio non è imputabile alla propria insufficienza personale bensì alla costituzione del rapporto tra i sessi non determina, tuttavia, un passaggio automatico all’azione collettiva.

    Con l’esplosione planetaria del Sessantotto studentesco, da più parti interpretato come la prima manifestazione del moderno mondo globale (cfr. Ortoleva 1988; Revelli 1995; Massari 1998), le donne stanche di una battaglia puramente culturale all’interno del DEMAU scelgono di abbandonare il gruppo per dedicarsi all’attività politica nel movimento. L’ambito di massa entro cui maturare una forza politica disponibile a mettere in discussione l’assetto complessivo della società pare essersi finalmente materializzato fuori dai canali tradizionali di socializzazione politica. In Italia, dopo aver a lungo relegato le azioni degli studenti in coda fra le cronache dei principali quotidiani, i media si accorgono della forza degli studenti soltanto nel marzo del 1968, dopo la cosiddetta battaglia di Valle Giulia, che vede deflagrare lo scontro violento tra il movimento romano e le forze dell’ordine. Fino a quel momento in pochi avevano notato o preso sul serio «quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa / a Firenze e un po’ anche a Roma» a cui Pier Paolo Pasolini chiede perdono, esonerandoli dalla reprimenda antiborghese riservata ai dimostranti romani, nella famigerata poesia in prosa ispirata ai fatti di Valle Giulia.

    Di fatto, dopo aver debuttato, nel 1967, con le occupazioni delle università di Pisa, Venezia, Trento, Torino, della Cattolica di Milano e dopo aver cominciato a sperimentare le prime forme di alleanza studenti-operai, già nei primi mesi del 1968 il movimento prende quota e comincia a piantare radici fuori dalle aule universitarie: l’anno si apre con metà dei trentasei atenei italiani coinvolti nelle occupazioni; a settembre si svolge a Venezia il primo convegno nazionale delle avanguardie studentesche, dove si misurano una corrente movimentista intenzionata a proseguire sulla linea delle lotte portate avanti fino a quel momento e una tendenza operaista che dà per acquisita l’omogeneità sociale tra operai e studenti; in autunno si assiste a una svolta significativa e gli studenti cominciano a presentarsi in massa di fronte ai cancelli delle fabbriche, contribuendo ai picchetti e partecipando attivamente all’organizzazione delle lotte. L’ondata di opposizione studentesca al riformismo parlamentare tende ad assumere, nel contesto italiano, i connotati di un’eresia comunista in qualche modo prefigurata da alcuni dei documenti elaborati nel corso delle occupazioni degli atenei (Lumley [1994] 1998, p. 81). A Trento, dove si organizzano contro-corsi ed è fortissima l’influenza della kritische Universität di Berlino, nel novembre 1967 esce il Manifesto per una Università Negativa, concepito con il proposito di «sottrarre al flusso tecnocratico potenziali forze antagoniste» e delineare «i fondamenti, le tattiche e la strategia per il passaggio dall’antiautoritarismo alla contestazione globale del sistema capitalistico» (Balestrini e Moroni [1988] 2005, pp. 212-13).

    Nel complesso, con la sua apertura sul mondo esterno e il rifiuto di vincolarsi a rivendicazioni corporative, il Sessantotto studentesco mobilita le soggettività, come ha osservato Anna Bravo (2008, p. 85), sulla base di un «universalismo per sottrazione»: apparentemente, ai fini del coinvolgimento politico non contano le origini

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