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Il piccolo libro per la cura della pelle
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E-book237 pagine4 ore

Il piccolo libro per la cura della pelle

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Segreti di bellezza coreani per una pelle sana e splendente.
Ne Il piccolo libro per la cura della pelle, Charlotte Cho, fondatrice di Soko Glam, un famoso sito web di bellezza e stile di vita coreano, ci guida attraverso la celebre routine coreana in dieci passi, e non solo, per aiutarci a ottenere la pelle più luminosa e radiosa possibile. Il tutto accompagnato da tutorial passo-passo, consigli e indicazioni sui migliori prodotti, oltre a interviste esclusive con esperti di bellezza di fama mondiale. Impareremo quindi a prenderci cura della nostra pelle così come i segreti dietro al trucco “senza trucco” che sfoggiano le donne per le strade di Seoul. Unendo le conoscenze di un esperto e la sincerità di un'amica, Charlotte ci accompagnerà in un viaggio attraverso la cultura della bellezza coreana e ci insegnerà una beauty routine quotidiana che trasformerà la nostra pelle per sempre. Perché la bellezza comincia dalla pelle! In Corea, una pelle sana e luminosa è l’espressione ideale di bellezza, e questa filosofia sta rapidamente prendendo piede anche in tutto il resto del mondo.
“Questa è la lettura perfetta per chiunque sia incuriosito dall’improvviso boom dei prodotti di bellezza coreani attualmente sul mercato. Il libro di Charlotte è un mix di memorie, guida pratica e un ottimo compagno di beauty shopping.” - Fashionista.com
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2019
ISBN9788830505629
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    Anteprima del libro

    Il piccolo libro per la cura della pelle - Charlotte Cho

    volto coreano, mentalità californiana

    Per i primi ventuno anni della mia vita sono stata la tipica ragazza di Los Angeles: abbronzata, con i colpi di sole e in infradito tutto l’anno. Indossavo i pantaloncini di Abercrombie & Fitch, sorseggiavo milkshake alla vaniglia mangiando hamburger e patatine fritte e, ovviamente, andavo in spiaggia. Appena presa la patente, uscivo con la berlina dei miei genitori per andare al centro commerciale, a fare compere con i soldi che guadagnavo lavorando come cassiera in un ristorante di sushi.

    In fatto di cosmetica ero un’autodidatta, mi facevo influenzare dalle riviste e dalle persone attorno a me. Al liceo, portavo tagli asimmetrici e mi piegavo sul lavandino del bagno per tingermi grosse mèche bionde con kit per tintura confezionati. A un certo punto ho fatto una permanente – che poteva essere considerata più o meno brutta, dipende dalla persona a cui lo chiedete, l’unica cosa certa era che fosse a tutti gli effetti una permanente. Quanto al make-up prediligevo uno stile tutt’altro che naturale: eye-liner nero pesante ed esagerato e sopracciglia sfoltite al massimo nel tentativo di ottenere quella sottile arcata all’Angelina Jolie.

    Grazie al lavoro part time mi concedevo il lusso di spendere in quelli che consideravo prodotti di bellezza essenziali, ossia palette di ombretti, eye- liner, lucidalabbra fruttati e bronzer, per ottenere l’effetto baciata dal sole. Mia madre mi assillava perché mettessi la crema solare, ma, ahimè, non le davo ascolto. La tintarella era di moda, perciò invece della protezione solare mi spalmavo l’abbronzante al cocco, per essere sicura di sfruttare al massimo ogni ora che passavo in spiaggia.

    Spaghetti con contorno di kimchi

    Come coreana di seconda generazione – nata e cresciuta in California da genitori coreani – sono sempre stata a cavallo tra i due mondi. Le cene a base di spaghetti avevano un contorno di kimchi; festeggiavamo l’anno nuovo il primo gennaio e anche il capodanno lunare; parlavo inglese a scuola e coreano in casa; durante le lezioni settimanali di danza indossavo il classico tutù rosa, ma il sabato frequentavo una scuola coreana e facevo piroette sventolando i tradizionali buchae colorati con tutti gli altri bambini di seconda generazione come me.

    A volte, di solito il sabato pomeriggio dopo la scuola, mia madre mi trascinava al centro benessere coreano, dove ce ne stavamo nude insieme a un mucchio di sconosciute. Michelle, mia sorella maggiore, si godeva l’esperienza delle terme, ma io non ce la facevo. La nudità mi causava imbarazzo: il seno iniziava appena a spuntare e l’ultima cosa che volevo era metterlo in mostra.

    Spesso mia madre ci faceva la predica sull’importanza di non esporre il viso al sole, di idratarlo e di detergerlo adeguatamente. Mia sorella era più fissata di me con la cultura coreana – adorava le boy band K-pop – e ci si atteneva diligentemente, ma io, in quanto secondogenita, facevo tutto l’opposto. Ero determinata a seguire una strada tutta mia, e andare a dormire senza idratare il viso o addirittura (gasp!) senza lavarlo, era il mio must.

    Il regime di non-cura della pelle che seguivo non valeva granché – non sorprende direi – e al secondo anno di liceo iniziai ad avere l’acne. Secondo un detto coreano l’acne è un chiaro indizio del fatto che qualcuno ha una cotta, perciò quando mio padre mi vedeva la fronte piena di brufoli mi prendeva in giro: «Allora… chi è il ragazzo a cui pensavi oggi?».

    Io avevo un fidanzato (ssh!), perciò cominciai a credere che in qualche modo la mia faccia mi stesse tradendo, e così decisi che era tempo di investire nella skin care. Comprai una boccetta arancione acceso, un detergente antibatterico che usavano tutte le mie amiche. Sapevamo che era un prodotto valido perché rendeva la pelle così tesa e secca che sorridere era quasi doloroso. Dopo poche settimane, visto che la situazione non migliorava, comprai i dischetti dermopurificanti, che lasciavano una forte sensazione di bruciore sulla pelle. Come dicevano le mie amiche: se pizzica, significa che sta facendo effetto.

    Inutile dire che il mio tentativo di prendermi cura della pelle si arenò lì. Aveva portato più problemi che altro, e se dovevo provare pizzicore e bruciore per combattere e sconfiggere l’acne, ero pronta ad arrendermi. Era semplicemente troppo complicato – nessuno che conoscessi sembrava saperne qualcosa, né era interessato a scoprirlo. Mia madre aveva una pelle quasi perfetta malgrado avesse raggiunto la mezza età, ma non pensai di chiedere a lei, perché, come sanno tutte le adolescenti, le mamme non capiscono niente!

    Anche la pigrizia giocava un ruolo importante nella mia noncuranza. Perché dovevo affannarmi per avere un volto perfetto quando potevo sistemare tutto rapidamente usando correttore, fondotinta e cipria? Era molto più facile mettere lo stucco sulle imperfezioni che eliminarle. Inoltre, ero dell’idea che la cura della pelle fosse roba da vecchi, e di avere decenni davanti a me prima di dovermi preoccupare delle rughe.

    Con il tempo dalla mia parte, spendevo i soldi per acquistare l’ultimo profumo in, e le mie amiche erano sulla stessa lunghezza d’onda. Con tutti i lucidalabbra e i profumi che compravamo, la cura della pelle non rientrava nel nostro budget, ma cavolo se avevamo un buon odore.

    La mia strategia di skin care migliorò quando andai all’università, ma in pratica durò molto poco. Lavoravo come cameriera in un ristorante esclusivo e decisi di utilizzare le mance per provare costosi prodotti dermatologici. Rimanevo comunque pigra, soltanto che il centro commerciale Bloomingdale’s era proprio lì accanto e io avevo soldi da sperperare. Ero sopraffatta dall’assortimento del reparto cosmetici e una commessa ben intenzionata, con i suoi personali problemi cutanei, ammise che nemmeno lei sapeva bene cosa consigliarmi. La maggior parte delle clienti, donne tra i trenta e quarant’anni, volevano creme miracolose per sbarazzarsi delle zampe di gallina o per risollevare ciò che la forza di gravità aveva reso floscio, ma io avevo solo ventidue anni e una vaga idea di dovermi interessare maggiormente alla mia cute. Alla fine uscii con un tonico da ottanta dollari, perché il mio buonsenso mi diceva che a quel prezzo doveva per forza essere efficace, sebbene non sapessi con precisione per cosa.

    Con il mio nuovo tonico e la crema idratante, e lo sporadico scialacquamento in trattamenti per il viso alla spa di qualche hotel, sentivo di prendermi realmente cura della mia pelle, soprattutto quando mi paragonavo alle mie coetanee, che sprecavano tempo a scegliere un mascara nella corsia dei trucchi, o a preoccuparsi di come calzava sul sedere l’ultimo paio di jeans firmati. Ma sul serio, chi potrebbe biasimarle? Perché avremmo dovuto preoccuparci della pelle? Non c’erano rughe in vista!

    Per quanto mi fossi goduta al massimo l’adolescenza californiana, quando entrai nell’età adulta la mia esistenza tutta spiaggia e hamburger perse gran parte del suo fascino. L’università mi sembrò un prolungamento del liceo, e iniziai a rimpiangere di essere rimasta nella mia città natale. Ero stufa del clima perfetto, delle case tutte uguali, con la stessa tinteggiatura giallo aranciata per chilometri, e dei centri commerciali. Perciò affondai il mio naso pieno di punti neri nei libri e mi laureai in soli tre anni. Capii che dovevo andarmene da lì.

    La cultura della pelle a Seul

    Dopo essermi laureata, iniziai a lavorare presso una piccola agenzia pubblicitaria nella contea di Orange, ma restai in allerta, in cerca di qualcos’altro. Un precedente viaggio a Seul, capitale della Corea e città natale dei miei genitori, mi aveva ispirato un forte desiderio di viaggiare, e appena tornata a casa volevo già disperatamente tornare indietro. Ero convinta di poter emergere professionalmente a Seul, perciò iniziai a mettermi in contatto con persone che avevano conoscenze nel mondo della pubblicità in Corea, con l’idea di trasferirmi lì e nel frattempo coltivare la mia carriera. Per sfizio, risposi a un annuncio su un giornale anglo-coreano e, proprio quando stavo per dimenticarmene, ricevetti un’e-mail per un colloquio alla Samsung. Poche settimane dopo mi recai alla sede centrale della Samsung a Houston, in Texas, dove tre vicepresidenti dell’azienda mi trovavano perfetta per il lavoro nelle pubbliche relazioni internazionali. Ricordo di aver timidamente chiesto se la mia fluidità con il coreano poteva rappresentare un problema, e con mio enorme sollievo mi risposero che la Samsung era una compagnia internazionale, con tantissimi colleghi bilingue, e quindi non ci sarebbe stata alcuna difficoltà. Dato che avrei gestito tutti i progetti delle pubbliche relazioni internazionali, l’inglese sarebbe stata la lingua principale.

    A essere onesta, penso di aver ottenuto il lavoro perché furono colpiti dal fatto che mi ero pagata l’università da sola e avevo concluso gli studi in tre anni, mentre in Corea è consuetudine che i genitori provvedano economicamente ai figli finché non si sposano, pagando anche le nozze. Non avrei mai nemmeno immaginato che questo mi sarebbe valso un’offerta di lavoro dall’altra parte del mondo, ma è proprio ciò che successe: volevano che andassi a lavorare a Seul. Quando mi resi conto dell’opportunità che mi stavano dando con quel biglietto di sola andata, rimasi estasiata. Oltre a ciò che poteva significare per la mia carriera, la vidi come un’occasione per esplorare i quartieri in cui erano cresciuti i miei genitori e per mangiare i deliziosi ed economici piatti coreani ogni volta che ne avevo voglia. A parte la previsione di rimpinzarmi di bibimbap, non avevo idea di quello a cui stavo andando incontro.

    Sarebbe riduttivo dire che i miei genitori rimasero sconcertati quando gli comunicai i miei piani. Avevano fatto tantissimi sacrifici per lasciare la Corea, e non parlando inglese avevano passato negli Stati Uniti diversi anni di isolamento, solo allo scopo di poter offrire le migliori opportunità ai figli che ancora nemmeno avevano. E ora eccomi lì, dopo più di trent’anni, ad abbandonare tutto per tornare nel paese che pensavano di essersi lasciati alle spalle per sempre.

    Mi avvisarono che Seul era frenetica ed esageratamente competitiva, cosa che mi preoccupava: e se non fossi riuscita ad ambientarmi, o se non fossi stata eccellente nel mio lavoro? Molti dei miei amici mi dissero che avrei avuto nostalgia di casa e che avrei trovato difficoltà a fare conoscenze. In Corea avevo una zia, uno zio e dei cugini che conoscevo a malapena, e quando i miei genitori li informarono che sarei andata lì, loro si mostrarono riluttanti. «Perché dovrebbe venire in Corea quando sta così bene in America?». Nonostante tutto ciò, non potevo essere più entusiasta. Ero convinta che gli anni che avrei trascorso a Seul, sotto le luci lampeggianti del karaoke, in mezzo ai fumi del maiale alla griglia e lungo i sentieri che costeggiavano il fiume Han, sarebbero stati i migliori della mia vita.

    Mentre facevo i bagagli per la mia avventura, sognavo a occhi aperti di essere corteggiata da un ragazzo coreano con capelli bellissimi. Ero certa che avremmo avuto una relazione clandestina, perché senza dubbio sarebbe venuto fuori che lui era il figlio di un ricco uomo d’affari, presidente e proprietario di uno dei più grossi chaebol (conglomerato industriale) della Corea. Immaginai come mi sarei battuta con la mia maligna futura suocera affinché l’amore tra me e suo figlio trionfasse. Sarebbe stato proprio come nei drama tv coreani.

    Non appena atterrai a Seul, tra un mare di teste dai capelli neri e lucenti, mi sentii subito a casa, come non mi era mai successo prima. La Corea che i miei genitori si erano lasciati alle spalle era un paese che cercava di risollevarsi dalla povertà, ma adesso era un concentrato di energia da cui, apparentemente da un giorno all’altro, erano germogliate giungle di cemento. Seul sfrecciava, alimentata dalle grandi speranze e dai sogni di milioni di persone determinate a realizzarli. C’erano infiniti vicoli da esplorare, un’intera cultura da assorbire e una pletora di caffetterie accoglienti in cui potevo sedermi a osservare la gente. Mi aspettavo qualcosa del genere, ma ben presto mi resi conto che la mia fame non si limitava alla grigliata coreana, ma era per una prospettiva del tutto nuova.

    Poi la realtà mi investì. Mentre nella contea di Orange ero una coreana, a Seul ero chiaramente americana, e stavo per subire il mio primo shock culturale. Avevo ventidue anni, abbronzatura perfetta, mèche spesse e le capacità linguistiche di una bambina di tre anni. Scoprii subito che il mio coreano semicolloquiale era tutt’al più rudimentale.

    Ricordo il mio primo giorno al lavoro. Era febbraio, pieno inverno, e dopo essermi destreggiata tra i pendolari dell’ora di punta in metropolitana, in collant e su un paio di tacchi vertiginosi, mi persi. Finalmente, per caso, trovai l’edificio giusto e un addetto delle risorse umane mi scortò all’incontro con il mio capo. Rimasi ad attendere da sola in una sala riunioni, poi entrò un uomo che sembrava un po’ più giovane di mio padre. Il suo nome era signor Hong, e il modo rispettoso di rivolgersi a lui era Hong Boo-Jang-Nim, che significa alto dirigente Hong. In coreano, mi chiese: «Parla coreano?». Risposi: «Un pochino». Poi lui mi disse: «Bene, benvenuta nel team di hongbo». «Ehm» feci umilmente, «che cos’è hong-bo?».

    «Hong-bo significa pubbliche relazioni» spiegò. Il dipartimento di cui era a capo. Il dipartimento in cui avrei lavorato. Oh, merda. Addio possibilità di fare una buona impressione. Il signor Hong era visibilmente preoccupato.

    Emerse che, nonostante al colloquio mi avessero rassicurata, la maggior parte del team di hong-bo non parlava bene inglese. I miei nuovi colleghi erano spaventati all’idea di conoscermi quanto lo ero io di conoscere loro.

    In California avevo preso così tanto sole che a Seul molti credevano venissi dal Sudest asiatico, e al lavoro ero la prima assunzione internazionale della mia squadra. Penso che quando arrivai rimanemmo tutti sorpresi da quanto fossi fuori luogo: non avevano idea di cosa fare con me.

    Ma ero decisa a trarre il massimo vantaggio dal tempo che avrei passato a Seul e sapevo di dovermi adattare alla città, perché lei non si sarebbe adattata a me. Non ci volle molto prima che iniziassi a gestire senza problemi tutte le novità. Mi aiutò il fatto che i colleghi mi presero subito sotto la loro ala protettiva. Le donne mi trattavano come la cugina a lungo perduta a cui era capitato di essere allevata dai lupi. (Tra l’altro, nonostante fossimo partiti col piede sbagliato, il signor Hong e io lavorammo talmente bene insieme che in seguito lui divenne un socio importante di Soko Glam, dopo essersi ritirato dalla carica di sangmoonim – ossia vicepresidente – della Samsung.)

    In ufficio mi prendevano in giro perché avevo i capelli in disordine e spettinati; mi rispondevano con sguardi fissi quando spiegavo loro che tentavo di ottenere un look mosso, da spiaggia. Mi ritenevano una barbara

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