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Sulle tracce di Leroux
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Sulle tracce di Leroux
E-book455 pagine6 ore

Sulle tracce di Leroux

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Info su questo ebook

Una true crime story in cui la realtà supera ogni immaginazione.
Dopo una carriera nell'ambito della sicurezza informatica, Paul LeRoux, nato in Zimbabwe e cresciuto in Sudafrica, ha iniziato a sviluppare un modello di business senza precedenti per il crimine organizzato transnazionale e ha costruito un vero e proprio impero criminale, Cartel 4.0, utilizzando la gig economy e gli strumenti dell’era digitale. Le sue attività hanno generato milioni di dollari in vendite di armi, droghe, prodotti chimici, tecnologia missilistica e omicidi. Inizialmente LeRoux era solo un'immagine fantasma sui radar di forze dell’ordine e intelligence, ma tutto comincia a cambiare quando attira l’attenzione della divisione Operazioni Speciali della DEA, che riesce a penetrare nella sua cerchia ristretta e a sgominare l'organizzazione.
Elaine Shannon si è immersa in questo mondo oscuro dando vita a una narrazione mozzafiato, che illustra una realtà più incredibile di un romanzo e racconta un nuovo tipo di criminalità e di vera crime story. Una terrificante storia vera che si legge come un romanzo. Un'autrice d'eccellenza, una reporter investigativa che gode della fiducia delle forze dell’ordine e dell'intelligence, esperta di spionaggio, terrorismo e crimine organizzato. Da questa vicenda sarà presto tratto un film diretto da Michael Mann.

“Sulle tracce di LeRoux è un capolavoro investigativo. Uno sguardo affascinante su un sindacato criminale internazionale e sul carismatico e letale signore della criminalità che ha armato internet per costruire un nuovo tipo di impero. Meticolosamente documentato e con un accesso esclusivo alle fonti, questo è il libro definitivo sull’ascesa e la caduta del malvagio Paul LeRoux, nonché una saga crime che lascia a bocca aperta” - Don Winslow

“Il resoconto incisivo di Elaine Shannon sul padrino del crimine cibernetico, Paul Calder LeRoux, è uno sguardo bruciante su un nuovo tipo di criminale che è totalmente terrificante perché totalmente reale”. - Dennis Lehane

“Una storia incredibile, un trionfo di reportage investigativo e narrazione” - Mark Bowden, corrispondente per The Atlantic"
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2020
ISBN9788830505582
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    Anteprima del libro

    Sulle tracce di Leroux - Elaine Shannon

    Uniti

    PREFAZIONE

    di Michael Mann

    Siamo su un Gulfstream II; davanti a noi c’è un muscoloso ex tiratore scelto della NATO imbottito di steroidi. È ammanettato e guarda fuori dal finestrino mentre decolliamo da Monrovia, in Liberia. Il tedio sul suo volto si trasforma in angoscia: sa che negli Stati Uniti lo aspettano lunghi anni di carcere. Non ha detto una parola sull’ironia del suo destino. Lui e il suo socio, Tim Vamvakias, un tempo membro della polizia militare dell’esercito americano, erano partiti da Phuket, in Thailandia, per eliminare un capitano di mercantili e trafficante di droga libico, poi diventato informatore della DEA (Drug Enforcement Administration, l’agenzia federale antidroga statunitense), e l’agente suo capo. Ma ad arrestarli è stato proprio l’informatore libico.

    I bersagli dei due killer, infatti, erano esche per attirarli in trappola, così come chi aveva fatto da tramite fornendo le loro foto, il registro quotidiano dei loro spostamenti e l’indicazione del luogo migliore per colpirli. Era una montatura anche il mercenario francese che aveva organizzato i trasferimenti di Vamvakias e socio in Africa occidentale e che aveva procurato loro le pistole calibro 22 con silenziatore e gli MP7 Heckler & Koch.

    Sul jet, di fronte a Dennis Gögel – il muscoloso sicario – siede Taj, agente sotto copertura, una superstar della DEA e membro della segretissima squadra di élite denominata Gruppo 960. A vestire i panni dei due bersagli sono stati proprio Taj e il capo del gruppo, Lou Milione.

    Contemporaneamente, a Tallinn, in Estonia, sono stati arrestati altri due mercenari pericolosi quanto Gögel e Vamvakias, e, in questo preciso istante, a Phuket si sta procedendo a fermare altri killer a pagamento, tra cui il loro reclutatore, Joseph Rambo Hunter, istruttore in pensione di tiratori scelti dell’esercito americano. Siamo dunque catapultati all’interno di un complesso piano suddiviso in cinque distinte operazioni sotto copertura che hanno richiesto la collaborazione delle forze di polizia di tre stati in varie parti del mondo; operazioni condotte in perfetta sincronia per concludersi simultaneamente con gli arresti, per evitare che i mercenari di LeRoux potessero avvertirsi a vicenda.

    Sulle tracce di LeRoux di Elaine Shannon ci consente di conoscere da vicino pericolosi criminali dislocati nei luoghi più instabili del pianeta. La suspense con cui vengono ricostruite le cinque operazioni di cattura è palpabile in molte sezioni del libro e credo che difficilmente un romanzo riuscirebbe a raggiungere un tale livello di tensione e a descrivere in maniera così vivida le nuove dimensioni del crimine. L’autenticità di questa storia si basa sulla profonda conoscenza da parte di Shannon delle forze dell’ordine (federali e transnazionali) e delle imprese criminali, e sulla veridicità delle fonti esclusive. In poche parole, è molto meglio di qualsiasi giallo si possa architettare. Shannon ha la grande capacità di immergersi nel flusso degli eventi, facendo prendere loro vita con la scrittura. Sai che è tutto vero, e ci sei dentro.

    Mentre leggevo la prima bozza del libro, quasi due anni fa, ho avuto l’impressione, come mai mi era capitato prima, di ritrovarmi davvero all’interno di un impero criminale e di seguire passo passo la quotidianità del suo fondatore, geniale e spietato. La sensazione di pericolo e di ansia ininterrotta è tangibile. È come finire in una serie dal titolo Vite di uomini ricchi e malvagi.

    Allo stesso modo, il libro ci conduce nelle esistenze di Tom Cindric ed Eric Stouch, i due agenti del Gruppo 960 della DEA protagonisti dell’indagine che ha portato all’individuazione di LeRoux. Da un continente all’altro, attraversando fusi orari, buie stanze di motel e paesi pericolosi, siamo al fianco dei più grandi cacciatori di criminali al mondo.

    Ma la vera scoperta al centro di questa avvincente saga di true crime è Paul Calder LeRoux con la sua innovazione. LeRoux è un genio dell’informatica diventato un signore del male che si è lasciato qualche omicidio a sangue freddo alle spalle. Ha rivoluzionato la struttura della criminalità organizzata transnazionale demolendo gli schemi tradizionali, spesso anche sofisticati, con cui erano soliti operare i cartelli della droga e i mercanti di armi. Erano schemi ancora legati a modelli di business dal produttore al consumatore, integrati verticalmente, e spesso vincolati a un luogo fisico. Infrastrutture e gerarchie li rendevano agli occhi di LeRoux vulnerabili, obsoleti e troppo esposti.

    Lui ha smontato quel modello e ne ha creato uno completamente diverso. Le sue aziende illegali – collegate da un dark web di sua invenzione – erano molto simili alle startup all’avanguardia della Silicon Valley: sfruttavano la gig economy, scartavano all’istante le idee fallimentari, presentavano una rapida scalabilità e generavano profitti la cui curva era costantemente impennata verso l’alto.

    I criminali che hanno seguito la sua strada oggi si occupano di traffico di sistemi avanzati di armi, di grosse quantità di droga e materiali fissili, e di riciclaggio di denaro; corrompono piccole regioni in difficoltà in paesi sull’orlo del fallimento per creare snodi per i loro traffici e inserirsi così nei conflitti locali. Ma l’architetto e creatore di questo nuovo mondo è Paul Calder LeRoux.

    Il Gruppo 960 ha capito subito che LeRoux era l’Elon Musk o il Jeff Bezos del crimine organizzato transnazionale. Era convinto che non solo fosse il nuovo, ma anche il futuro.

    Molti di quelli che l’hanno conosciuto parlano della sua aura letale, in cui si mescolano intelligenza, devianza e sociopatia.

    Da sceneggiatore, c’è una qualità in particolare di Sulle tracce di LeRoux che mi affascina, forse ancora più delle rivelazioni contenute nel libro, ed è la capacità di portarci dentro la storia. Ci ritroviamo all’interno del racconto perché tutti crediamo a Elaine Shannon. È una giornalista coraggiosa che va dritta al cuore delle notizie, non rivela mai le fonti confidenziali e dice sempre la verità, per questo si è guadagnata un’ottima reputazione tra le varie agenzie di intelligence e i vertici delle forze dell’ordine. La loro fiducia in lei, la loro trasparenza, unite alla profondità delle intuizioni di Shannon – ma anche alla sua ironia e al suo charme – donano al libro un’atmosfera unica e garantiscono il coinvolgimento del lettore.

    Gli agenti responsabili dell’indagine – Cindric e Stouch, i loro capi Lou Milione e Derek Maltz, e l’agente sotto copertura Taj – hanno condiviso con Shannon i loro racconti in prima persona, i diari, gli appunti, i documenti, le sensazioni, le intuizioni, i sospetti, le paure e anche i successi. I loro punti di vista si intrecciano alla trama appassionante del libro.

    Lo stesso accade con Jack, l’uomo che LeRoux chiamava il suo ragazzo prodigio. Attraverso i suoi occhi entriamo nell’attico di lusso di LeRoux a Manila, stranamente spoglio; impariamo a interpretare i gesti e assistiamo ai lampi di genio e alle repentine sfuriate di quest’uomo biondo di quasi centosessanta chili. Anche noi siamo blanditi dal suo eloquio seducente e avvertiamo la sensazione di pericolo nel suo sguardo penetrante. Nel caldo e nell’umidità percepiamo l’odore della minaccia.

    Per LeRoux, Jack ha costruito una specie di fortino e arruolato una milizia in Somalia, l’ha aiutato a trasferire denaro e a comprare sontuosi nascondigli. Poi è passato dalla parte degli agenti Cindric e Stouch ed è diventato il loro informatore, riportando e registrando di nascosto ogni mossa di LeRoux, correndo rischi enormi. Perché LeRoux aveva assoldato varie squadre di killer, ma aveva anche cominciato a premere il grilletto da solo.

    A supervisionare l’operato di Cindric e Stouch c’è l’agente speciale Lou Milione, uno dei fondatori del Gruppo 960, e, sopra di lui, il capo della Divisione operazioni speciali Derek Maltz. Milione e il suo braccio destro, Wim Brown, hanno catturato alcuni dei più introvabili e sofisticati criminali del mondo, tra cui il trafficante di armi Viktor Bout, detto il Mercante di morte, Monzer al-Kassar e Haji Juma Khan, boss dell’eroina afghana. Il Gruppo 960 opera in silenzio, ma è il fiore all’occhiello delle forze dell’ordine.

    Con Sulle tracce di LeRoux, Shannon crea un’opera nella quale indossiamo i panni di tutte queste persone, viviamo nella loro pelle e guardiamo le cose con i loro occhi. È una saga di true crime rivelatrice di un mondo.

    Michael Mann è un regista acclamato, nominato quattro volte all’Oscar, uno scrittore e un produttore. Tra le sue pellicole più famose: Strade violente, Manhunter – Frammenti di un omicidio, L’ultimo dei Mohicani, Heat – La sfida, Insider – Dietro la verità, Alì, Collateral, Miami Vice, Nemico pubblico e Blackhat. Ha prodotto The Aviator di Martin Scorsese, le serie tv Miami Vice, Crime Story, Luck, Witness, e la miniserie premiata agli Emmy Agente speciale Kiki Camarena – Sfida ai narcos, basata sul bestseller di Elaine Shannon del 1988 Desperados, che ricostruisce la storia del sequestro e dell’omicidio dell’agente della DEA Enrique Camarena in Messico.

    INTRODUZIONE

    LA RETE CRIMINALE

    Per comprendere l’importanza di Paul Calder LeRoux, colui che ha creato il primo impero criminale transnazionale dell’Età dell’Innovazione, bisogna partire dall’altro capo della scala evolutiva.

    L’epilogo dell’ultimo cowboy della cocaina, infatti, non è stato particolarmente dignitoso.

    Joaquín El Chapo Guzmán era riemerso da una fogna maleodorante nel tentativo di sfuggire ai marines messicani, e credendo di passare inosservato aveva rubato a un’anziana signora una Ford Focus rossa come un camion dei pompieri. La polizia federale messicana lo aveva intercettato nel giro di pochi minuti e rinchiuso in un fetido motel a ore finché un elicottero del governo non lo aveva ricondotto nel carcere da cui era evaso sei mesi prima scavando un tunnel.

    El Chapo, preso in custodia l’8 gennaio 2016, era una delle ultime reliquie della prima fase dell’invasione della cocaina – la cosiddetta epoca Miami Vice – quando i cowboy della droga costruivano la loro immagine su pistole tempestate di diamanti e cinturoni, auto, cadaveri, furgoni, SUV, corrieri, puttane, cavalli, alberghi, nightclub, squadre di calcio, reti televisive, zoo, barche e altri cadaveri. I più famosi e leggendari si sono ammazzati o traditi a vicenda finché quasi tutti non sono finiti in prigione o sono morti.

    La seconda fase è cominciata all’inizio del Ventunesimo secolo, quando il mercato nero globale delle droghe illegali era ormai un’industria matura che produceva, secondo le stime, un giro di affari di quattrocento miliardi di dollari all’anno (ma probabilmente molti di più), una cifra superiore alla somma dei proventi del commercio clandestino di armi, esseri umani e diamanti. Attirato dalle opportunità di profitto sia nell’economia sommersa, sia in quella legale, questo universo sotterraneo si è globalizzato. I trafficanti si sono militarizzati e i rivoluzionari sono diventati criminali incontrandosi in una palude dai confini sfumati. I cartelli colombiani, i gruppi libanesi e gli uomini di Hezbollah hanno unito le forze in Sudamerica, Africa ed Europa. I guerriglieri marxisti delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, Forze armate rivoluzionarie della Colombia) si sono dati alla produzione di cocaina su scala industriale: stando ai dati ufficiali della DEA, nei primi anni Duemila più della metà della cocaina in circolazione a livello mondiale proveniva da loro. Le organizzazioni criminali messicane avevano fatto la loro comparsa in Nigeria e in Cina; la mafia serba era presente nel mercato illegale delle armi da fuoco in ogni continente. La mafia russa si occupava di riciclaggio di denaro, contrabbando, corruzione, azioni intimidatorie e attacchi informatici su commissione. L’insurrezione talebana è stata finanziata con il denaro dei boss dell’eroina afghana.

    Gli uomini e le donne ai vertici del crimine organizzato transnazionale hanno saputo restare al passo con le novità dell’era della globalizzazione. Sono stati sufficientemente furbi e discreti da non ostacolarsi a vicenda: il loro scopo era fare soldi, non fare scalpore. Si sono appropriati degli strumenti dell’epoca digitale: dispositivi mobili criptati, telefoni satellitari, archiviazione su cloud, dark web. Erano ferventi capitalisti devoti al dio denaro. Bevevano, giocavano d’azzardo, frequentavano prostitute, violentavano e bestemmiavano. Le ideologie non li interessavano, erano solo mezzi per destabilizzare i governi che minacciavano la loro impunità. La strategia era investire nel caos, perché la principale minaccia contro di loro non era costituita dai rivali, dall’esercito o dalla polizia, ma dalla pace. Pagavano bande armate per avere in pugno interi territori attraverso il controllo delle strade, dei porti, dei fiumi, dei valichi di frontiera e delle piste di atterraggio. Non sono mai stati il volto del conflitto, erano i soldi custoditi nel retrobottega; e sono stati proprio i soldi a mantenere la situazione incandescente.

    Per quanto sofisticata fosse l’infrastruttura, in questa seconda fase la maggior parte delle organizzazioni illegali si basava su un modello industriale. Avevano un controllo diretto sulle forniture e su ogni segmento della produzione, dal produttore al consumatore. Quindi servivano tantissime persone e impianti per la coltivazione, la raccolta, la raffinazione, il trasporto, la lavorazione, la produzione, la difesa, il contrabbando, la protezione attraverso una rete interna di sicurezza e di controspionaggio, la distribuzione, la riscossione e il riciclaggio del denaro. Tanta gente. Tanta organizzazione. Tante infrastrutture, clandestine e non, tutte estremamente vulnerabili agli attacchi degli avversari e delle forze dell’ordine.

    Oggi siamo nella terza fase – il modello per il futuro crimine organizzato transnazionale – e tutto sta cambiando. L’autore di questo rinnovamento è Paul Calder LeRoux, che ha applicato i principi dell’imprenditoria del Ventunesimo secolo al lato oscuro dell’economia globale.

    LeRoux è nato in Rhodesia, l’odierno Zimbabwe. Ha una psiche complessa e un’intelligenza che sfiora la genialità. Con i suoi quasi centosessanta chili, la testa tozza e gli occhi blu scuri, quasi neri, che brillano come braci di sigaretta, è uno di quei tipi che, quando entrano in una stanza, prendono subito il comando; emana la solennità minacciosa di un potente re medievale, di un imprenditore senza scrupoli o di un antieroe wagneriano. I suoi modi ricordano quelli del colonnello Kurtz di Marlon Brando, il disertore delle Forze speciali americane divenuto signore della guerra in Apocalypse Now, l’epopea di Francis Ford Coppola sulla guerra del Vietnam. Esattamente come Brando/Kurtz, LeRoux trasmette tutta la tensione della sua anima in conflitto quando si sfrega la testa bianca e rasata, piega il collo e sorride anche se non c’è motivo. Appartiene a quel genere di persone molto intelligenti e affascinanti che hanno fatto una valutazione tra il bene e il male e hanno scelto il male, e si giustificano sostenendo che è più onorevole dell’ipocrisia. «Non c’è niente che io detesti di più dell’odore di marcio delle bugie» dice Brando/Kurtz al suo interlocutore, vantandosi di essersi circondato di guerrieri, «con un senso morale e allo stesso tempo capaci di utilizzare il loro primordiale istinto di uccidere senza sentimenti, senza passione, senza giudizio. Perché è il giudizio che ci indebolisce.» Ovviamente per il colonnello Kurtz era tutta una questione di potere. Nessun giudizio significa nessuna ragione e nessun rimorso. È follia, ma chi ha più potere di un folle?

    LeRoux ha compreso benissimo l’utilità della paura. Sulla scia di Kurtz, si vantava di essersi comprato un’isola al largo delle Filippine perché «tutti i cattivi devono averne una». La password del suo portatile era Hitler. Aveva stretto alleanze con vari criminali per cui nutriva ammirazione: uomini dei cartelli colombiani e della Triade cinese, oligarchi russi, pirati somali, mafiosi serbi. Si era circondato di assassini spietati quanto i tagliatori di teste di Kurtz.

    Il direttore operativo dell’impero di LeRoux è stato per anni Dave Smith, inglese, forte bevitore, fumatore di metanfetamina e sadico che, stando alle parole del suo capo, «traeva grande piacere dalla tortura di animali ed esseri umani e dall’omicidio. Ovviamente, è un uomo molto violento: esattamente il tipo di persona che mi serviva». LeRoux aveva incaricato Smith di ingaggiare altre persone come lui che si divertissero «ad ammazzare, torturare e picchiare».

    Se Kurtz aveva decorato la sua dimora nella giungla con teschi umani, LeRoux ne ha riproposto una versione aggiornata, conservando sul suo computer numerose foto dei corpi insanguinati delle persone che ha fatto uccidere. Nel suo attico quasi spoglio, lavorava alacremente in gloriosa solitudine, con l’ossessione di accumulare dollari, euro, rand, rubli, dirham e rupie attraverso il commercio di sostanze chimiche, droga, oro, legname e armi. I suoi clienti, ha dichiarato orgoglioso, erano «signori della guerra e criminali: sostanzialmente chiunque avesse del denaro».

    L’avidità e la crudeltà sono vecchie quanto il genere umano. A essere rivoluzionaria in LeRoux è la combinazione unica di un’intelligenza sorprendente e di un’assoluta mancanza di coscienza, qualità che gli hanno permesso di sviluppare uno stile formidabile negli affari e di diventare il più grande innovatore nel campo del crimine organizzato transnazionale. LeRoux è come Netflix in confronto a Blockbuster, Spotify in confronto alla Tower Records.

    Per lui il denaro è solo il segno del successo. Ha il classico look dimesso dei miliardari della Silicon Valley: pantaloni beige sdruciti e polo dai colori sgargianti che si vedrebbero anche dallo spazio. Si abbuffa di pizza e Big Mac; le sue donne sono sacrificabili e intercambiabili. Il sesso è uno spuntino, come una barretta energetica o un antistress.

    Ma negli affari è freddo e preciso. I suoi risultati farebbero invidia anche ai più intraprendenti della Silicon Valley. A partire dal 2004, quando è emerso in Asia orientale come giovane e sfacciato fondatore di un nuovo genere di e-commerce, ha costruito un impero criminale che si estendeva da Manila a Hong Kong, da Gerusalemme a Dubai, dal Texas a Rio. Nel 2012 aveva alle sue dipendenze quasi duecentomila persone. La sua prima azienda gli ha fruttato almeno tre milioni di ordini dal valore stimato di circa trecento milioni di dollari.¹ Più recentemente ha sviluppato un numero imprecisato di flussi finanziari legati a varie imprese legali e illegali.

    Inoltre, com’è tipico dello stile Silicon Valley, le sue attività quasi non avevano bisogno di infrastrutture. Non gli servivano né una sede, né mezzi di produzione fissi; nessuna scorta, nessuna squadra, nessuna gang. Ha sfruttato la gig economy per procurarsi mercenari e dipendenti temporanei che poi istruiva via e-mail o via SMS con un codice segreto da lui stesso creato e che spediva negli angoli più remoti del globo a confiscare beni, corrompere ufficiali e negoziare accordi commerciali. Nessuno dei suoi aiutanti a contratto sapeva dove si trovava, né che aspetto avesse. La lealtà, il collante delle mafie, della Triade cinese e dei cartelli, non gli interessava. Appena qualcuno non gli serviva più lo metteva da parte oppure, se diventava un problema, lo faceva ammazzare. Definiva marginali i suoi sottoposti filippini, africani o israeliani, lasciando intendere che fossero sacrificabili, e meno che esseri umani.

    Durante la prima e la seconda fase le organizzazioni criminali avevano una struttura tendenzialmente lineare e razionale, ed erano legate alla geografia fisica. LeRoux è stato il primo signore del crimine a operare nel regno del cyberspazio. Comunicava con clienti, fornitori, faccendieri e consulenti tramite il web e li incontrava ovunque la fibra ottica o i collegamenti satellitari glielo permettessero. La sua spiccata intelligenza gli consentiva di destreggiarsi contemporaneamente tra vari progetti e di ricordare tutto. Né la coscienza, né il pentimento erano un freno alla sua ambizione.

    Il suo stile imprenditoriale ricorda quello di Elon Musk, anch’egli sudafricano, e di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, uno degli uomini più ricchi del mondo. Come Musk, che è passato agilmente dagli annuari commerciali a PayPal, allo spazio, alle auto elettriche e poi a guida autonoma, e ai tunnel stradali, il cervello di LeRoux balza senza difficoltà dai casinò su Internet, all’e-commerce di farmaci, alle piccole armi, alla tecnologia missilistica, al crystal meth nordcoreano.

    Così come Bezos ha creato il Negozio Totale, un supermercato online che aspira a vendere qualsiasi tipo di prodotto a chiunque lo voglia, LeRoux ha messo in piedi un efficientissimo Amazon delle armi che può contare su una struttura per il carico e scarico delle merci in una sorta di fortino autosufficiente e difeso militarmente nelle terre aspre e brulle della Somalia.

    La maggior parte dei termini usati per descrivere l’imprenditoria del Ventunesimo secolo si applica anche a LeRoux: disprezzo per la tradizione, rottura, gestione snella, portata globale e rapida scalabilità. LeRoux sa come scoprire e sfruttare le nicchie, stravolgere i mercati, viaggiare leggero, spostarsi velocemente ed essere sempre pronto.

    Ha protetto la sua rete di affari clandestini creando un personale dark web pressoché inviolabile. Non è un hacker; non gli è mai interessato penetrare nei sistemi governativi o aziendali, anche se avrebbe potuto imparare facilmente tutti i trucchi per riuscirci. Per lui i computer sono strumenti, come una biro o un apriscatole. Usava un vecchio Dell che aveva configurato da solo per essere certo che non potesse essere violato, mentre non sarebbe stato altrettanto sicuro con modelli più recenti. Inoltre gli hacker hanno la regola di non uccidere nessuno; LeRoux invece ha ammazzato, direttamente o per procura.

    Per anni è stato un fantasma che appariva e scompariva dai radar della DEA, della CIA e delle Nazioni Unite, ma senza mai diventare un vero obiettivo dell’antiterrorismo e delle unità anticrimine globali. È passato quasi inosservato anche quando ha cominciato a fare affari con l’Iran e la Corea del Nord. I sistemi di monitoraggio del governo statunitense e dei suoi alleati miravano a rintracciare i segnali dei gruppi criminali convenzionali, caratterizzati da gerarchie classiche e ben visibili. Gli agenti della DEA che hanno cominciato a dare la caccia a LeRoux all’inizio del 2012 si sono trovati di fronte solo il profilo di uno spettro, decisamente più misterioso e impegnativo di qualsiasi altro signore del crimine con cui avevano avuto a che fare fino a quel momento. «Stava realizzando un’industria del tutto nuova e originale che andava oltre il concetto di traffico di droga e di armi» ha detto Lou Milione, a capo dell’unità che si è messa sulle sue tracce. «Era capace di creare grandi economie di scala, e se nessuno lo avesse fermato sarebbe diventato sempre più forte e potente. A quel punto, solo Dio sa fin dove si sarebbe spinto. E non gliene sarebbe importato nulla.»

    La caccia è cominciata con una soffiata a Tom Cindric ed Eric Stouch, due dei migliori agenti di Milione; lavoravano in coppia da anni e all’epoca erano stati assegnati al traffico internazionale di droga che passava dall’Africa.

    Cindric, Stouch e i loro colleghi del Gruppo 960, un’unità segretissima all’interno della Divisione operazioni speciali, sono tra gli investigatori più coraggiosi e creativi del governo americano. In gioventù Milione ha fatto l’attore e ha all’attivo una serie di film e spettacoli off-Broadway. Entrato nella DEA, è diventato famoso per la cattura di Monzer al-Kassar, soprannominato il Principe di Marbella, la cui storia è stata raccontata sulle pagine del New Yorker. Kassar, siriano, uno dei maggiori mercanti di armi del mondo, ha rifornito varie generazioni di terroristi e di pericolosi leader politici, da Abu Abbas (capo del Fronte per la Liberazione della Palestina e responsabile del dirottamento della nave da crociera Achille Lauro nel 1985) al dittatore iracheno Saddam Hussein. Milione e i suoi agenti hanno preso in custodia anche Haji Juma Khan, boss del cartello afghano dell’eroina. Tra le operazioni sotto copertura più spettacolari di Milione e della sua squadra c’è quella che ha portato all’arresto nel 2008 del mercante di armi russo Viktor Bout, soprannominato il Mercante di morte, colui che ha ispirato il film Lord of War.

    Milione seleziona personalmente i suoi agenti, li vuole svegli, curiosi, abili nell’inganno, in costante movimento, intraprendenti, irriverenti. Non devono mai essere ciò che sembrano: devono rispettare la legge, ma saper violare le regole. Cindric e Stouch incarnano tutte queste qualità. La caccia a LeRoux, raccontata nei minimi particolari per la prima volta in questo libro, è illuminante e inquietante al tempo stesso. Affidandosi alla loro vivida immaginazione e a colleghi altamente specializzati, con un pizzico di fortuna e ascoltando il proprio istinto – doti che non si possono né imparare, né insegnare – gli agenti hanno reclutato come informatore uno dei collaboratori di LeRoux e si sono infiltrati nel suo mondo sotterraneo.

    L’abilità di capire cosa si para all’orizzonte non è per forza una benedizione. Più si calavano, per così dire, nella tana del Bianconiglio, più le loro scoperte si facevano sinistre, più i loro presentimenti si rivelavano corretti.

    «Paul è il futuro» ha detto Cindric. «È un passo avanti rispetto a chiunque altro. E noi non siamo pronti per una cosa del genere.»

    1

    25 SETTEMBRE 2013

    Il gigante biondo piangeva, scosso dai singhiozzi; grosse lacrime gli bagnavano i pantaloncini da surf turchesi e le infradito, con cui pensava forse di mantenere un basso profilo.

    Dennis Gögel, ex cecchino e tiratore scelto dell’esercito tedesco, era appena atterrato a Monrovia, in Liberia, per conto del suo datore di lavoro, Paul Calder LeRoux, imprenditore eccentrico che aveva fatto fortuna inventando un nuovo modello per la vendita di farmaci su Internet.

    LeRoux aveva cominciato a espandersi in settori di rilevanza geopolitica con il commercio della cocaina colombiana, del crystal meth nordcoreano e di sistemi avanzati di armi, speculando nelle zone di conflitto e aggirando le sanzioni all’Iran. Per i suoi regolamenti di conti aveva reclutato una squadra di mercenari tra le fila sempre più numerose di militari americani ed europei che avevano combattuto in Afghanistan o in Iraq e che avevano partecipato alle missioni di pace della NATO. La maggior parte dei veterani si riabitua senza difficoltà alla vita civile, ma alcuni, come Gögel, restano Bimbi Sperduti drogati di avventura in cerca dell’Isola che non c’è. LeRoux, felice di interpretare il ruolo di Capitan Uncino, li aveva radunati in un luogo sicuro all’interno di un resort su una spiaggia thailandese della chiassosa Phuket in cui potevano fare baldoria a sue spese. In cambio, dovevano soltanto eliminare di tanto in tanto qualche minaccia o qualche intralcio.

    A Gögel, il miglior tiratore della squadra, sarebbero stati assegnati gli incarichi più complessi, i cosiddetti lavori extra poiché pagati a parte. L’incarico a Monrovia, il primo per conto di LeRoux, prevedeva di uccidere un agente della DEA, Joey Casich, di stanza all’ambasciata americana nella capitale liberiana, e il suo informatore, un libico di nome Zaman (o Sammy per gli amici colombiani), capitano di mercantile e trafficante di professione. LeRoux si lamentava delle continue interferenze di Casich e Sammy con i suoi nuovi soci in affari, un’organizzazione colombiana che stava aprendo una rotta della cocaina dal Sudamerica in Europa attraverso l’Africa orientale.

    Il capo degli scagnozzi di LeRoux, Joseph Hunter, addestratore di cecchini e sergente istruttore dell’esercito americano in pensione, aveva ricevuto delle foto scattate in segreto degli incontri tra Casich e Sammy in diverse zone di Monrovia, oltre a un rapporto di sorveglianza che descriveva nel dettaglio i loro spostamenti quotidiani. Hunter, che si vantava della propria efficienza e del proprio sangue freddo nel portare a termine le richieste del suo datore di lavoro, aveva appeso le foto sul muro del nascondiglio dei mercenari e detto a Gögel e a Tim Vamvakias, la sua spalla, un ex membro della polizia militare dell’esercito americano, di memorizzare quei volti e di mettere a punto un piano d’attacco.

    Secondo i due killer, Sammy era un obiettivo facile. Era giovane e presuntuoso, aveva la pelle ambrata, gli occhi scuri e un sorriso diabolico. Vestiva in modo appariscente, alla maniera dei gangster della West Coast, con magliette nere, pantaloni cargo sempre neri e occhiali da sole Oakley.

    Riconoscere l’agente americano, invece, sarebbe stato più complicato. Casich era bianco, di mezza età, con altezza e corporatura medie. Indossava giacche a vento con la zip, polo e pantaloni beige: in pratica, era identico ai tanti uomini d’affari sempre in viaggio che affollano gli aeroporti e gli alberghi di tutto il mondo. Ma il suo aspetto anonimo non era casuale. Come sapevano bene da entrambe le parti, la prima regola per passare inosservati è confondersi con l’ambiente. Per un agente della DEA, questo significa non indossare abiti vistosi, non camminare mai a passo deciso, scordarsi di sfondare le porte a calci, arrampicarsi sui muri o saltare giù dalle finestre; significa invece indossare scarpe sportive che consentano di correre, ma non in colori sgargianti, scegliere camicie e giacche in toni neutri con tasche per nascondere la pistola, il distintivo, le manette e due o tre cellulari (almeno uno per ogni identità). Niente pantaloni corti – solo per andare in palestra – e i completi esclusivamente per lauree, matrimoni, udienze di divorzio o funerali.

    Per affrontare i quattro voli necessari per raggiungere Monrovia da Phuket, Gögel aveva ignorato le regole di Hunter sull’anonimato, come anche un detto del paese d’origine di sua nonna: Man soll das Fell des Bären nicht verteilen, bevor er erlegt ist (Non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato). E così si era tirato a lucido, come per festeggiare gli ottantamila dollari che lui e Vamvakias avrebbero intascato per il lavoro extra; il primo di una lunga serie, sperava Gögel. LeRoux e i colombiani avevano molti nemici e sbarazzarsi di loro lo avrebbe reso ricco.

    «Io comunque mi diverto» aveva detto a Hunter mentre progettavano i colpi. «Amo il mio lavoro… Mi rende molto felice.»

    Purtroppo, le cose non erano andate secondo i suoi piani. Ora, ammanettato al sedile di un jet privato pronto al decollo, tendeva inutilmente i bicipiti gonfiati dagli steroidi, mentre il pilota e il copilota impostavano la rotta per il piccolo aeroporto di White Plains, New York. Da lì Gögel sarebbe stato condotto in un tribunale federale di Lower Manhattan.

    Le catene erano abbastanza lunghe da permettergli di portare le mani alla bocca e così, di tanto in tanto, baciava un foglietto di carta con il numero di telefono di una russa che aveva conosciuto a Phuket. Doveva essere una ragazza davvero speciale, perché sembrava impossibile che un tipo grande e grosso potesse piagnucolare a quel modo. Si potrebbe pensare che anni passati a osservare il genere umano attraverso un mirino annientino qualunque impulso romantico, ma a volte l’amore è strano.

    Vamvakias era seduto in fondo al jet; se ne stava curvo, quasi inerte. Magrissimo, quarantun anni, di San Bernardino, in California, lavorava nel settore da più tempo di Gögel. Come avrebbe poi dichiarato in tribunale, aveva alle spalle tredici anni nell’esercito, otto dei quali in servizio nelle unità cinofile dei cani anti-bomba e in una squadra di polizia militare all’interno degli SWAT. Da soldato non era mai stato inviato in una zona di guerra, ma dopo essersi congedato nel 2004 aveva lavorato privatamente come contractor guidando operazioni con cani anti-bomba a Doha, in Qatar, e a Kandahar, in Afghanistan. Era stato licenziato dopo l’ultimo incarico per aver nascosto di avere il diabete. La sua salute era cagionevole e aveva capito che non sarebbe finita bene.

    Sul jet, Gögel non riusciva a stare fermo. Si agitava, il suo viso si contorceva. Di certo non lo aiutava il fatto che seduto di fronte a lui ci fosse Taj, un preparatissimo agente della DEA di trentaquattro anni. L’aveva informato, non senza una certa cortesia, che avrebbe pensato a qualunque sua necessità durante il volo. Taj si era allacciato la cintura di sicurezza e con un sorriso aveva detto all’assistente di volo di portare un’altra Pepsi «al surfista» e che no, non poteva consolarlo, anche se le faceva pena.

    Il bel giovane tedesco aveva solo ventisette anni, e la sua vita era finita. Lo aspettavano forse vent’anni in una cella di due metri per tre da cui sarebbe uscito quasi cinquantenne, pallido e inflaccidito (alla fine, sia Gögel sia Vamvakias furono dichiarati colpevoli di associazione per delinquere per il tentato omicidio di un agente delle forze dell’ordine e del suo assistente, oltre che di altri reati gravi, e ricevettero una condanna a duecentoquaranta mesi di prigione).

    Taj non era affatto dispiaciuto per lui: vent’anni di galera erano pur sempre meglio di ciò che quel pezzo di merda si meritava davvero. Taj era appena tornato dall’Afghanistan, dove aveva vissuto per quattro anni in incognito per reclutare informatori tra i talebani e all’interno del cartello afghano dell’eroina che li finanziava. Si era spesso ritrovato in prima linea con le truppe speciali americane e alleate, e aveva visto morire tanta brava gente – spesso più giovane di lui e di Gögel – dilaniata dalle bombe che LeRoux aveva venduto all’Iran per rifornire i terroristi. L’agente guardava il prigioniero con un misto di furore gelido e distaccata ironia. Avevano combattuto in Afghanistan nello stesso periodo, in teoria dalla stessa parte. Taj si chiedeva quanti civili avesse ucciso Gögel solo per controllare che il suo fucile funzionasse.

    Poco dopo il decollo, l’agente, che indossava un giubbotto militare blu con l’enorme scritta gialla DEA, si era avvicinato a Gögel, e fissandolo con due occhi che ardevano come braci gli aveva detto brusco: «Mi riconosci?».

    Gögel lo aveva guardato scuotendo il capo.

    Poi aveva sgranato gli occhi. Che cazzo, è Sammy il Libico? Gli hanno dato il distintivo?

    Era stato allora che il giovane mercenario era scoppiato in singhiozzi: in quel momento aveva capito che era stata un’operazione sotto copertura, una messinscena, una trappola, e che lui aveva abboccato. Era Taj l’uomo che doveva uccidere a Monrovia. I due si erano studiati dalle rive opposte di un abisso incolmabile.

    Diversamente dalla sua preda, Taj aveva goduto di certi vantaggi. L’infanzia di Gögel era stata triste ma comune a tanti; quella di Taj era stata estrema, riscaldata dall’amore incondizionato della sua famiglia, però, oltre le mura di casa, assediata dalle fiamme di una società sul punto di crollare. Era nato a Kabul nel 1979, qualche mese prima dell’invasione dei carri armati russi. Aveva passato i primi dieci anni della sua vita a schivare le pallottole dei guerrieri mujaheddin e delle truppe sovietiche che avevano occupato la sua città. Ogni sera con i suoi familiari era costretto a nascondersi in un umido rifugio antiaereo che loro stessi avevano scavato sotto il tavolo da pranzo. Ogni giorno esplodevano bombe davanti a casa e alla scuola elementare. Suo zio, un medico, era rimasto ucciso in un attacco missilistico contro l’ospedale mentre curava i feriti. I nonni e un altro zio erano stati ammazzati dai soldati sovietici durante un attacco alla loro fattoria.

    Nel febbraio del 1989, durante gli ultimi giorni dell’occupazione russa, la polizia segreta comunista pianificava di uccidere suo padre, un ingegnere che lavorava per la sezione politica dell’ambasciata americana. Era già stato accusato di essere una spia e torturato. Lui e la moglie avevano ricevuto un avvertimento da un amico dell’intelligence: «Lasciate subito il paese!». E così erano stati costretti a prendere una decisione terribile. Avevano consegnato Taj, che all’epoca aveva dieci anni, e le due sorelle adolescenti a un trafficante che aveva promesso di portarli in Pakistan attraverso il passo Khyber. Loro, invece, avevano coperto per bene il figlio più piccolo, ancora neonato, ed erano saliti sul furgone di un altro trafficante. Avevano spaccato in due la famiglia nella speranza che, se loro fossero stati intercettati e uccisi, i figli più grandi sarebbero sopravvissuti.

    Taj aveva detto addio all’infanzia sulle pendici ghiacciate dell’Hindu Kush, sopra Tora Bora. Suo padre gli aveva detto che ora era lui l’uomo di famiglia: avrebbe dovuto proteggere le sorelle e scortarle attraverso i pericolosi passi di montagna. Taj sapeva bene quale fosse il valore delle vergini nei bazaar. E sapeva anche cosa fare: tenere gli occhi aperti, nascondersi, non dormire mai e restare sempre in movimento. Miracolosamente la famiglia era riuscita a riunirsi a Peshawar. Dopo un paio di anni a girovagare per il mondo, erano capitati in una cittadina californiana multietnica piena di taquerias, chioschi di pho e tatuatori. Suo padre era

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