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L'impero dei narcos
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E-book434 pagine6 ore

L'impero dei narcos

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Info su questo ebook

Libro dell'anno per «The Times»

La vera storia dell'uomo che ha sfidato la più grande organizzazione criminale del mondo

Jorge Salcedo è in trappola. Pur facendo parte da anni del cartello della droga di Cali, la più grande organizzazione criminale al mondo, è riuscito a conciliare la sua morale con il suo ruolo, evitando il lavoro sporco, tenendosi pulito: tutte cose che gli consentivano di dormire relativamente tranquillo. Fino a oggi. Il giorno che temeva è arrivato, ha solo una scelta: uccidere o essere ucciso. Salcedo non è sempre stato uno spregiudicato uomo dei narcos, ha una famiglia e una coscienza. Le sue mani non erano macchiate di sangue. Ma adesso gli è rimasta solo una cosa da fare, e significa rischiare la propria vita, quella dei suoi familiari e la sicurezza di chiunque abbia mai amato. Significa distruggere l’intera organizzazione. È il prezzo da pagare per la sua redenzione.

L’incredibile storia dell’uomo che sfidò il cartello di Cali

«La Colombia è stata massacrata dai signori della droga: questa è una storia appassionante di come un uomo gli si sia opposto.»
The Times

«In questo intenso e avvincente lavoro d’inchiesta Rempel dimostra le virtù del giornalismo investigativo.»
David Grann, autore di Z. La città perduta

«L’impero dei narcos rivela l’abilità di un grande narratore, che ritrae la sanguinosa guerra della droga da un punto di vista interno.»
James Risen, autore di Stato di guerra. Le attività segrete della CIA durante l’amministrazione Bush
William C. Rempel
È stato per oltre trent’anni giornalista investigativo e editor per il «Los Angeles Times». Tra i temi di cui si è occupato ci sono al Qaeda, l’11 settembre, Ferdinando e Imelda Marcos, le tecnologie nucleari e i cartelli della droga in Colombia. In ambito nazionale, i suoi reportage hanno più volte rivelato scandali politici e portato alla luce questioni controverse all’interno della Casa Bianca. È stato premiato con numerosi riconoscimenti in ambito giornalistico tra cui l’Overseas Press Club award, il Loeb Award ed è stato tra i finalisti per il Goldsmith Prize per il giornalismo d’inchiesta.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2017
ISBN9788822715111
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    Anteprima del libro

    L'impero dei narcos - William C. Rempel

    546

    Titolo originale: At the Devil’s Table

    Copyright © 2011 by William C. Rempel

    Published in agreement with The Robbins Office, Inc. and Aitken, Alexander & Associates, Ltd.

    Traduzione dall’inglese di Andrea Russo

    Prima edizione ebook: novembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1511-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    William C. Rempel

    L’impero dei narcos

    La vera storia dell’uomo che ha sfidato la più grande organizzazione criminale del mondo

    Per Bill e Dorothy

    Indice

    Prologo. Numero sbagliato

    PARTE PRIMA. GLI ANNI DELLA GUERRA DEI CARTELLI, 1989-1993

    Sei anni e mezzo prima

    Un rumore terribile

    El Doctor e il gentiluomo

    Benvenuto al cartello

    Obiettivo: Pablo

    Prigioniero delle nuvole

    Maternità e legge marziale

    La strega ne sa di più

    Quanti ne ha uccisi?

    L’agente segreto del cartello

    Incontra il rivale

    La trappola del Dragonfly

    Portatemi una forchetta!

    Nel mercato nero

    Il lato oscuro

    Agguati

    Un tentativo con l’FBI

    Troppo profondo

    PARTE SECONDA. L’UOMO DEL CARTELLO, 1993-1995

    Ergastolo

    Nuovi accordi

    Tutt’altro che eroico

    Un uomo onesto

    Sesso, spie e videocassette

    Il conto dell’Avvoltoio

    Si chiamava Emilia

    Nuovi ragazzi in città

    Il limite

    PARTE TERZA. GLI ULTIMI GIORNI, ESTATE 1995

    Ancora sul numero sbagliato

    L’agenda piena di un assassino

    El Dorado in una scrivania

    L’amore ai tempi della crisi

    Chi è Pallomari?

    Stanno arrivando

    Vi prego, non ve ne andate

    Sono un uomo morto

    Molto strano

    I gentiluomini omosessuali

    Proviamoci

    Il figlio in ascesa

    Aizzare l’assassino

    Un funerale di fine settimana

    Sappiamo cosa state facendo

    L’uomo che era stato

    ANTEFATTO. STORIE DIETRO LA STORIA

    Io e Jorge

    Epilogo. Conclusioni

    Ringraziamenti

    Fonti e note

    Prologo

    Numero sbagliato

    Washington, D.C.

    Lunedì, 12 giugno 1995

    Un temporale di tarda primavera aveva trasformato la capitale degli Stati Uniti in una città cupa e bagnata. A mezzogiorno, sotto quel cielo denso e plumbeo, le strade erano così buie da costringere gli automobilisti ad accendere i fari. Ma in C Street il sole splendeva in un angolo del dipartimento di Stato, nell’ufficio del sottosegretario agli Affari internazionali sui narcotici e l’applicazione della legge, o ufficio del «segretario alle droghe e ai teppisti», come lo avevano soprannominato i dipendenti. La squadra dell’ambasciatore Robert S. Gelbard stava festeggiando una notizia: gli agenti della narcotici colombiani e americani avevano catturato uno dei più importanti nomi del cartello di cocaina di Cali. Dopo mesi di incessanti persuasioni, sollecitazioni e intimidazioni da parte di Gelbard, il governo di Bogotá aveva finalmente catturato un trafficante di spicco. Tuttavia, non sarebbe certo bastato per abbattere l’organizzazione criminale più ricca del mondo. Il capo dei capi del cartello era ancora a piede libero e sotto la protezione – a quanto sembrava – dei più importanti politici colombiani. A ogni modo, Gelbard e i suoi osavano sperare di riuscire a smantellare il cartello di Cali.

    Dall’altro lato del fiume Potomac, a Langley, in Virginia, una centralinista rispose a una chiamata intorno all’una e trenta.

    «Central Intelligence Agency», disse con voce cortese.

    «Sì, pronto. Mi scuso per il mio inglese», rispose una voce con un forte accento latino, ma in perfetto inglese. «Chiamo dalla Colombia. Ho delle informazioni importanti sul cartello della droga di Cali… il capo del cartello: so dove si trova».

    «Sì, signore. E a chi posso inoltrare la chiamata?»

    «Be’, nella vostra agenzia ci sono delle persone che stanno cercando di trovare quest’uomo. Vi sto offrendo il mio aiuto».

    «Grazie, signore. A chi posso inoltrare la chiamata?».

    Dopo una lunga pausa, l’uomo disse di non conoscere il nome di nessun funzionario della CIA, ma che avrebbe parlato volentieri con chiunque fosse interessato a catturare Miguel Rodríguez Orejuela, il numero uno del traffico di cocaina colombiano. La centralinista non sembrava né scettica né colpita. Continuò a parlare in tono cortese e piacevole, chiedendo un ufficio, un funzionario o un interno specifico a cui inoltrare la chiamata.

    L’uomo insistette: «Avete un numero di fax?»

    «Mi dispiace».

    «Avete un numero per le soffiate o le fonti anonime?»

    «No, mi dispiace. Magari può provare a chiamare più tardi».

    Circa quattromila chilometri più a sud, l’uomo che aveva appena chiamato la CIA posò la cornetta nera. Era alto, con i capelli scuri e una barba ben curata. L’abbigliamento informale ma elegante, tipico dei tropici, non diceva molto sulla sua provenienza. Chi si trovava nell’edificio affollato della Telecom, nel centro della città, avrebbe potuto scambiarlo per un professore universitario di mezza età, un giudice fuori servizio o un vicedirettore di banca.

    Rimase qualche secondo all’interno della sicurezza della cabina telefonica insonorizzata. Le mani continuavano a tremargli. Aveva rischiato la vita per fare quella telefonata. Fece un respiro profondo e lento e ripensò alla conversazione. Sembrava assurda… finché non si rese conto che l’operatrice non era incompetente: stava semplicemente filtrando le chiamate in arrivo. Si accorse di essere l’ennesimo scocciatore, l’ennesimo pazzo agli occhi della centralinista. E in effetti, forse, era davvero impazzito.

    Se Miguel e gli altri padrini del cartello di Cali avessero sospettato che aveva appena chiamato la CIA, sarebbe stato un uomo morto. Nessun processo, nessuna possibilità di difendersi, solo dei proiettili in testa… se fosse stato fortunato. C’erano modi peggiori di morire, e alcuni aveva dovuti vederli da vicino. Ma quel pomeriggio di metà giugno sapeva di fare qualcosa di pericoloso. Era disperato, non un pazzo.

    Aveva quarantasette anni ed era un padre di famiglia, oltre a essere, da sei anni e mezzo, un importante affiliato di uno dei più spietati e potenti criminali del mondo. Adesso non voleva più avere niente a che fare con il cartello… un’organizzazione che non incoraggiava certo al pensionamento o alle dimissioni.

    Quando uscì dalla cabina telefonica, tenne gli occhi aperti, alla ricerca di eventuali conoscenti, pronto a giustificare la sua presenza nell’edificio della Telecom. Dopotutto, i telefoni del cartello erano lì vicino, a portata di mano. Ma non poteva usarli. Avevano piazzato cimici ovunque. Sapeva meglio di chiunque altro che non c’era un telefono pubblico a Cali che fosse davvero sicuro.

    Uscendo dall’edificio, venne investito da un’ondata di caldo umido. Dall’altra parte della strada c’era la Iglesia di San Francisco, una chiesa del XVIII secolo in mattoni rossi, un’attrazione turistica col caratteristico campanile in stile mudéjar. Entrò in quel freddo e buio santuario, avvicinandosi all’altare. Doveva pensare alla prossima mossa. Non aveva confidato a nessuno il suo piano disperato per far catturare il capo del cartello, nemmeno a sua moglie, anche se stava mettendo lei e i loro figli in pericolo. Si disse che non avrebbe voluto saperlo, che sarebbe stata terrorizzata e, ancora peggio, incapace di nascondere la propria paura. Si era dovuto tenere per sé la verità per proteggere lei e la famiglia. Non si era mai sentito così solo.

    Oltre al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo a cui rivolgeva le sue preghiere, l’uomo che quel pomeriggio s’inginocchiò all’altare dell’Iglesia de San Francisco non si fidava che della CIA… e non riusciva nemmeno a superare la centralinista di Langley.

    PARTE PRIMA

    Gli anni della guerra

    dei cartelli, 1989-1993

    Sei anni e mezzo prima

    Bogotá, Colombia

    Metà gennaio 1989

    Jorge Salcedo sistemò il bagaglio a mano nello scompartimento in alto e si lasciò cadere sulla poltrona accanto al finestrino del vecchio Boeing 727. Era un volo di prima mattina da Bogotá a Cali, Colombia, ma Jorge non aveva alcuna voglia di fare quel viaggio. Oltre all’ora scomoda, il quarantunenne uomo d’affari non si poteva permettere di togliere tempo al suo ultimo progetto: una piccola raffineria per ritrattare l’olio motore usato. Sebbene fosse stretto con i tempi, stava partendo per un viaggio misterioso. Non aveva idea del perché stesse andando a Cali. Anzi, fino a un’ora prima, cioè quando era arrivato all’aeroporto internazionale El Dorado di Bogotá, non sapeva nemmeno dove stesse andando.

    «Jorge, devi venire con me. Ci sono alcune persone che vogliono incontrarti», gli aveva spiegato Mario al telefono, in tono risoluto. Il suo amico gli aveva detto anche di preparare un borsone, e poi riagganciò. Adesso erano sull’aereo insieme.

    «Che succede, Mario?», domandò Jorge, impaziente. Voltandosi verso l’amico, vide che si stava ancora sistemando sulla poltrona sul lato corridoio. «Che ci facciamo qui?».

    Come Jorge, Mario aveva poco più di quarant’anni, ed era un uomo atletico e impeccabile che trasudava sicurezza da tutti i pori. Persino in borghese sembrava un militare, come un attore pronto per i provini. Ma il maggiore Mario del Basto, ritiratosi da poco dall’esercito, era un vero soldato pluridecorato.

    «Parliamo dopo il decollo», disse l’ex maggiore, indicando con un cenno del capo i passeggeri ancora in piedi.

    Jorge si era sempre fidato di Mario. I due erano buoni amici dal 1984, quando Jorge si era arruolato nelle riserve dell’esercito colombiano. Mario, un ufficiale in servizio regolare, venne nominato comandante dell’unità di riserva di stanza a Cali in cui si trovava anche Jorge. Il maggiore lo considerava un ottimo ufficiale d’intelligence con preziose abilità con le armi, i dispositivi elettronici di sorveglianza, le tecnologie radio e la fotografia.

    La riserva dell’esercito era una posizione non retribuita e volontaria, ma diede a Jorge un assaggio della carriera militare di suo padre, il generale Jorge Salcedo. Quest’ultimo era stato in corsa per la posizione di comandante delle forze armate colombiane, ed era ancora una figura di pubblico rilievo quasi venticinque anni dopo il suo ritiro a metà degli anni Sessanta.

    Jorge vedeva dei riflessi di suo padre nel maggiore del Basto. Entrambi erano ufficiali dell’esercito con un’ottima carriera. Entrambi indossavano uniformi piene di medaglie al valore. Ed entrambi avevano una grande esperienza nella controguerriglia.

    Essere il figlio di un generale aveva sempre portato a Jorge molti vantaggi, dalla stabilità economica al rispetto sociale e alle opportunità di viaggiare, incluso un lungo soggiorno negli Stati Uniti quando a suo padre era stato affidato un incarico nel Kansas. E aveva influenzato anche la sua opinione di gruppi come le FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), a cui suo padre aveva dichiarato guerra. Sia a casa sia nelle riserve dell’esercito, Jorge vedeva i guerriglieri come terroristi irrecuperabili, sentendosi frustrato – come accadeva spesso nell’esercito – riguardo ai colloqui di pace autorizzati dal governo, poiché non facevano che permettere ai guerriglieri di riorganizzarsi e rifornirsi.

    «Dovremmo agire, e smetterla di parlare», si lamentava Mario con Jorge.

    Persino per un eroe militare come il maggiore del Basto, criticare la supremazia del potere civile era pericoloso. Aveva sempre condiviso le sue opinioni soltanto con amici intimi, finché non riuscì più a contenere la rabbia. Alla fine del 1988, del Basto rifiutò una promozione a colonnello e lasciò l’esercito. Criticò pesantemente il presidente Virgilio Barco per la sua indulgenza nei confronti delle FARC. Poi scomparve. Jorge non lo sentiva da giorni, fino a quella telefonata misteriosa che lo aveva portato a bordo di quel volo della linea aerea Avianca.

    «Ci dobbiamo incontrare con alcune persone di Cali», cominciò Mario poco dopo il decollo. Si stava sporgendo sulla poltrona vuota tra loro. Il rumore del motore garantiva maggiore riservatezza.

    «Li conosco?»

    «È possibile. Sono importanti uomini d’affari locali».

    Jorge aveva vissuto a Cali da ragazzo, quando suo padre era ancora comandante di brigata. Vi abitò di nuovo all’inizio degli anni Ottanta, quando lavorava come socio e ingegnere in una fabbrica di batterie nell’immediata periferia della terza città più grande della Colombia.

    «Quello che posso dirti», continuò Mario, «è che queste persone hanno un grave problema con Pablo Escobar. Sta facendo fallire le loro attività, e minaccia le loro famiglie: è una situazione insostenibile».

    All’improvviso l’espressione di Jorge s’indurì. «Non dirmi… che stiamo andando a parlare con alcune persone del cartello di Cali».

    Nel gennaio del 1989, tutta la Colombia era ormai a conoscenza della violenta guerra tra il cartello di Medellín di Escobar e i rivali di Cali. Da quasi un anno i giornali riportavano notizie raccapriccianti di attacchi dinamitardi, smembramenti e sparatorie. Il numero di innocenti morti aumentava sempre di più. Come la maggior parte dei suoi amici e conoscenti, anche Jorge temeva e odiava Pablo Escobar. Il signore della droga aveva dichiarato guerra al governo colombiano in una campagna per annullare il trattato di estradizione di Bogotá con Washington. I suoi sicari avevano assassinato funzionari pubblici, investigatori criminali e giudici. Gli assassini di Medellín avevano anche colpito da vicino Jorge, uccidendo un suo amico d’infanzia, un noto ministro della Giustizia: Rodrigo Lara Bonilla.

    Jorge non sapeva molto dei rivali di Escobar a Cali, se non la loro reputazione. Si diceva che fossero meno violenti: quantomeno non uccidevano personaggi pubblici. E in effetti i padrini della città meridionale erano ampiamente conosciuti come i gentiluomini di Cali. Ciò nonostante, Jorge non prese mai in considerazione l’idea di schierarsi. La guerra tra i cartelli non aveva niente a che fare con lui.

    «Avresti dovuto dirmelo», disse Jorge. «Forse non voglio incontrarli».

    Mario si strinse nella spalle. «Ma loro vogliono conoscere te».

    Jorge scosse la testa, confuso. Un’enorme organizzazione criminale voleva conoscerlo. Perché? Mario guardò intorno per vedere se qualcuno li stesse ascoltando, poi andò avanti.

    Subito dopo aver lasciato l’esercito, disse Mario, era stato chiamato a Cali, dove gli avevano offerto la posizione di addetto alla sicurezza per la famiglia di Rodríguez Orejuela. Jorge riconobbe subito quel nome. Erano proprietari di una catena nazionale di farmacie e di una squadra di calcio, oltre a molti altri interessi legittimi. Ma era risaputo che fossero anche grossi trafficanti. Come Escobar, negavano qualsiasi legame con la droga. A differenza del concorrente, mantenevano un profilo basso.

    «Queste persone temono per la loro vita e le loro famiglie», disse Mario. «Pablo sta cercando di ucciderli: uomini, donne, bambini… tutti». Disse che era particolarmente ingiusto nei confronti del clan di Rodríguez Orejuela, perché «non sono persone violente». Mario spiegò che il suo nuovo lavoro prevedeva proteggere le donne e i bambini innocenti dai sicari di Escobar.

    «E pensano anche che tu possa aiutarli».

    «Quindi non si tratta del traffico di droga del cartello», disse Jorge con evidente sollievo.

    «No, certo che no». Mario abbassò la voce al punto che persino Jorge fece fatica a sentirlo. «Ma non parlare di cartelli. Detestano quella parola. Non esiste nessun cartello di Cali, intesi? Sono uomini d’affari».

    «Capisco. D’accordo, ma… perché io?».

    Jorge stesso si considerava un uomo d’affari che riciclava olio motore e un ingegnere che realizzava sistemi industriali o che armeggiava con radio o macchine fotografiche. Nelle riserve dell’esercito si specializzava nella sorveglianza e nella raccolta d’informazioni, un’area di interesse relativamente nuova. Eppure, non vedeva alcun motivo evidente per essere chiamato a Cali.

    Domandò di nuovo: «Perché?».

    Mario sorrise e tornò a sedersi in modo composto, senza rispondere.

    Quella mattina di gennaio Jorge non era alla ricerca di un lavoro. Aveva già alcuni progetti in sospeso su vari fronti, incluse alcune trattative potenzialmente redditizie con l’esercito colombiano. Di recente Jorge aveva cominciato a rappresentare alcune compagnie europee interessate a ottenere appalti pubblici per la Difesa in Colombia e in altri Paesi dell’America del Sud. Si era procurato questi clienti l’anno precedente, durante un’esposizione internazionale di fornitori militari a Londra. Tornò a casa con campioni di attrezzature per la visione notturna, radio criptate e dispositivi per la sorveglianza che sperava di vendere agli ufficiali addetti all’approvvigionamento dell’esercito a Bogotá.

    Ma ciò che intrigò uno dei generali di Bogotá fu il biglietto da visita di David Tomkins, un pittoresco trafficante d’armi che operava vicino a Londra. Tomkins e un gruppo di soldati delle forze speciali britanniche non più in servizio si offrirono di addestrare l’esercito colombiano nelle tecniche di controguerriglia. Fu Jorge a riferire la proposta.

    «E questi addestratori sono anche mercenari?», domandò il generale. Un tempo aveva prestato servizio come aiutante di campo per il padre di Jorge. Sapeva di potersi fidare del figlio del vecchio generale. «I tuoi contatti prenderebbero in considerazione una missione segreta contro le FARC?».

    Nel giro di qualche giorno, Jorge era già di ritorno in Inghilterra per presentare la missione: attaccare e distruggere il quartiere generale di montagna delle FARC, noto come Casa Verde. L’esercito colombiano avrebbe supportato segretamente l’attacco con armi, esplosivi e trasporti, ma questo doveva essere condotto in modo che l’esercito potesse negare qualsiasi coinvolgimento.

    I mercenari britannici avevano ideologie flessibili che potevano andare incontro a un’ampia gamma di clienti, ma tendevano a essere fermamente anticomunisti. Per chiudere l’affare, Jorge fece notare che le FARC avevano il sostegno, ormai da molto tempo, di Fidel Castro. I britannici firmarono subito. Il loro comandante era uno scozzese di nome Peter McAleese, un rude ex sergente e parà del SAS (Special Air Service) che sopravvisse a un lancio con un paracadute che non si aprì.

    Dopo aver attaccato villaggi isolati, catturato agricoltori, minatori e proprietari di ranch per chiedere un riscatto, e persino rapito narcotrafficanti, le FARC si erano guadagnate molti nemici. Quando i mercenari britannici arrivarono in Colombia, furono accolti da un’improbabile alleanza di ricchi allevatori di bestiame, minatori e capi del cartello di cocaina di Medellín. Il finanziatore principale della missione, José Rodríguez-Gacha, era un grande proprietario terriero e socio di Pablo Escobar nel traffico di droga. Con i dissidenti dell’esercito che fornivano armi e munizioni, i britannici avevano il sostegno di una squadra faustiana, che i colombiani chiamarono la mesa del Diablo: il tavolo del diavolo. E Jorge faceva da maître.

    Nell’estate del 1988, Jorge – nome in codice: Robert – era il ponte segreto tra i mercenari e gli alleati colombiani. Se la missione fosse stata scoperta, l’esercito avrebbe negato qualsiasi coinvolgimento. Jorge aveva la responsabilità di nutrire, ospitare, rifornire i britannici, il tutto nella massima segretezza possibile. Uno dei pochi con cui condivideva i dettagli dell’operazione era Mario del Basto, che Jorge accompagnò nei campi di addestramento nella giungla e presentò a Tomkins e McAleese.

    I preparativi per la missione si trascinarono per mesi. I britannici erano pronti, ma i dissidenti dell’esercito esitavano. Avevano paura di un contraccolpo politico e, in definitiva, non erano disposti a rischiare la carriera militare. Alla fine, la stessa conventicola di ufficiali dell’esercito che aveva ideato il piano segreto lo annullò.

    A ogni modo, i mercenari lasciarono la Colombia felici e ben pagati, grazie ai ricchi proprietari di ranch e trafficanti di Medellín che rimborsarono i britannici per aver addestrato gli elementi più disparati dei loro eserciti privati. Un signore della droga aveva persino inviato suo figlio nella giungla per un addestramento nelle tecniche di combattimento. Nel novembre del 1988, Tomkins e McAleese furono gli ultimi a tornare a casa. In un incontro di addio con Jorge, lo abbracciarono e gli dissero che erano ansiosi di partecipare ad altre missioni in futuro.

    «Alla prossima», salutò McAleese.

    Jorge tornò subito a occuparsi dei suoi affari, ma adesso – otto settimane più tardi – stava andando a Cali, e si domandava perché.

    Ad aspettarli all’aeroporto internazionale Alfonso Bonilla Aragón trovarono un’auto dell’InterContinental Hotel. Li attendevano anche due suite di lusso, complete di frutta fresca e fiori: omaggio della famiglia Rodríguez Orejuela. Un biglietto diceva che l’appuntamento di quel pomeriggio con i gentiluomini era stato posticipato. Un’auto sarebbe passata a prenderli quella sera intorno alle dieci.

    L’orario non era certo casuale. Alle dieci di sera, infatti, non ci sarebbe stato molto traffico, e chiunque avesse cercato d’inseguire la vettura sarebbe stato notato più facilmente. Jorge conosceva bene Cali, e si rese subito conto che stavano girando in cerchio, per assicurarsi che nessuno li stesse pedinando. Jorge sentì il primo accenno di panico. Da quando era piccolo, infatti, aveva sempre avuto leggeri attacchi di claustrofobia. Nel sedile posteriore dell’auto del cartello di Cali, sentì stringersi la gola. Fece un respiro profondo e si asciugò la mano sudata sui pantaloni. Non voleva che Mario se ne accorgesse. Ma non riusciva nemmeno a non pensare che era stato proprio il suo amico a metterlo in quella situazione.

    Il viaggio tortuoso alla fine li portò a un complesso circondato da alte mura. L’auto attraversò un ampio cancello che si chiuse alle loro spalle. Quando scese dalla vettura, Jorge si guardò intorno. Vedeva falle nella sicurezza ovunque. Decine di guardie del corpo armate camminavano avanti e indietro, ma sembravano impegnate soprattutto a schiacciare le zanzare. Nessuno controllò l’auto. E curiosamente, tutte le sentinelle erano all’interno delle mura. Non c’era nessuno di guardia all’esterno.

    Persino al buio, Jorge vide che il parcheggio era pieno di auto – per lo più berline e SUV di media grandezza Mazda – posteggiate senza alcun ordine. Una manciata di macchine più piccole bloccavano le altre. In un’emergenza, quasi tutti sarebbero rimasti intrappolati.

    Un addetto alla sicurezza del cartello li accolse appena fuori dalla porta della casa principale. José Estrada, sulla quarantina, era un ex sergente dell’esercito. Accompagnò Jorge e Mario all’interno della casa, apparentemente vuota. I pavimenti erano di marmo lucido bianco, così come le pareti e i soffitti tinteggiati di recente, mentre i mobili erano di una lussuosa pelle bianca. Jorge non vide libri, giocattoli, bambini, nemmeno un accenno di vita familiare. Sembrava un’esposizione di mobili per stilisti d’interni. Agli occhi di Jorge, quello stile era un primo indizio dei modi e dei gusti dei signori della droga: pratici, efficienti e concreti.

    I visitatori furono accompagnati in un ufficio spazioso dove quattro uomini li stavano aspettando. Quindi sono questi i padrini del cartello di Cali, pensò Jorge: uomini che potevano giocare a fare Dio con la vita delle persone, dettare le politiche del governo e influenzare l’economia della nazione. Dal punto di vista fisico, non erano particolarmente imponenti. Jorge, un metro e ottantotto, era più alto di tutt’e quattro. A mano a mano che Mario faceva le presentazioni, Jorge salutò ognuno dei padrini con un sorriso e una stretta di mano. Sembravano contenti d’incontrarlo… e completamente inoffensivi, quasi affabili.

    Pacho Herrera, trentasette anni, era il più giovane dei quattro. In quel momento si trovavano in una delle sue case, con le tonalità di bianco e le stanze sterili. Pacho sembrava appena uscito dalle pagine di una rivista di moda. Era l’unico padrino non sposato ed era omosessuale. Jorge pensò che avesse l’atteggiamento empatico e bonario di un giovane prete. Quello che tuttavia non sapeva era che quel delinquente gay gestiva l’ala più violenta del cartello.

    Chepe Santacruz, quarantacinque anni, indossava jeans e maglietta, e sembrava il tipico agricoltore o proprietario di un ranch appena tornato dalle stalle. Sembrava gioviale e con una bassa opinione di sé, persino un po’ malizioso. Ma a volte portava all’estremo la sua propensione per gli scherzi. Le asprezze del suo carattere erano evidenti nel modo di parlare rozzo. Chepe andava fiero di non essere sofisticato. Era anche un combattente di strada. E nelle risse, così come negli scherzi, l’eccesso era il suo marchio di fabbrica.

    Gilberto Rodríguez Orejuela, quasi cinquant’anni, era il portavoce del gruppo, in genere un affascinante oratore con l’aspetto di un ben nutrito professore. Mise subito Jorge a suo agio, e sembrava essere l’ospite ufficiale, il cerimoniere dell’incontro. Nel corso della serata, Jorge riconobbe la tacita autorità di Gilberto quando gli altri si rimettevano al suo giudizio.

    Il fratello minore di Gilberto, Miguel, di quarantacinque anni, era un uomo dal volto severo e dall’aspetto costantemente stanco. Parlava poco, ma non si perdeva niente. A causa della sua posizione nel cartello, era conosciuto come Don Miguel o semplicemente El Señor. A Chepe piaceva chiamarlo Limón, o Limone, per la sua espressione tesa e per il temperamento acido. Nessun altro osava utilizzare quel soprannome di fronte a lui. Miguel s’incaricava delle operazioni quotidiane del cartello, il che lo rendeva il capo dei capi. Ma lui e Gilberto erano stretti collaboratori, e tutte le questioni importanti del cartello erano discusse dai quattro cervelli che avevano accolto Jorge e Mario.

    I due visitatori si sedettero su poltrone di pelle bianca. Una cameriera con un grembiule bianco offrì dei succhi di frutta freschi. I gentiluomini di Cali andarono dritto al punto. Prima di tutto, volevano una mano sulla sicurezza personale.

    «Pablo è un bandito… un criminale… un folle», dichiarò Chepe. Disse a Jorge che Escobar stava minacciando di uccidere chiunque avesse un legame con i padrini di Cali: mogli, bambini, amici. «Nessuno è al sicuro».

    «Sì, capisco», rispose Jorge, pensando al suo ex compagno di classe, il ministro della Giustizia assassinato. «Escobar ha ucciso il mio amico Rodrigo Lara Bonilla, una bravissima persona».

    Jorge sentì crescere una forte emozione. Era difficile che parlasse dell’assassinio del suo amico, eppure in compagnia dei nemici di Escobar stava riaffiorando la sua profonda avversione. Non doveva sopprimerla. Era chiaro che condividessero tutti lo stesso potente sentimento: l’odio.

    Gilberto sembrava sia sorpreso sia felice di sentire della perdita personale di Jorge per mano di Escobar. «È stata una tragedia terribile», simpatizzò. «È stato anche stupido. A volte, Pablo ignora i suoi migliori interessi. Va in guerra e si aspetta di conquistare nuovi amici. È uno stupido. Uno stupido pericoloso».

    La conversazione virò sulle attuali difese del cartello. Estrada, l’uomo che li aveva ricevuti fuori dalla porta, non ce la faceva da solo a proteggere i padrini. L’altro addetto alla sicurezza era un ex ufficiale dell’esercito colombiano a cui gli altri si riferivano in tono impaziente come Major Gómez. Era evidente che non soddisfacesse le aspettative dei padrini. La sua rete di informatori era deplorevole. Non era aggressivo. Nessuno dei quattro si fidava più di lui, e la sua assenza quella sera non era casuale. Jorge, tuttavia, non era ancora sicuro di che cosa volessero i signori della droga di Cali finché…

    «Vogliamo Pablo Escobar morto», disse Miguel.

    «E vogliamo che tu e i tuoi mercenari britannici lo uccidiate», aggiunse Gilberto.

    Guardandosi intorno, Jorge si rese conto che tutti i presenti aspettavano una risposta. Mario doveva aver raccontato dei suoi contatti segreti con i britannici. Adesso Jorge capiva il motivo della sua convocazione a Cali. Non lo infastidiva il fatto che quel segreto fosse stato rivelato a terzi, ma anzi, si sentiva più lusingato che spaventato.

    Fino a quel momento, Jorge non aveva mai pensato di vendicare l’assassinio del suo amico. Spettava alla polizia e ai tribunali applicare la legge. Sfortunatamente, gli agenti che avevano cercato di formulare un’accusa formale contro Escobar erano stati tutti uccisi. Il caso rimaneva ufficialmente irrisolto. Se l’invito di Gilberto aveva colto Jorge di sorpresa, lo aveva anche intrigato. Forse era possibile fare giustizia, dopotutto.

    Jorge poteva quasi sentire la colonna sonora del suo film preferito, I magnifici sette. L’idea di cavalcare in città con un gruppo di pistoleri stranieri per sconfiggere il cattivo Escobar eccitava le sue fantasie di eroismo patriottico. E appellava alle stesse passioni che lo avevano spinto ad arruolarsi nelle riserve dell’esercito: la brama di azione e avventura… al servizio di Dio e della nazione. Voleva saperne di più sul piano dei padrini.

    Avevano già selezionato un luogo: Hacienda Nápoles, la tenuta di Escobar da trenta chilometri quadrati lungo il fiume Magdalena. Era una sorta di parco divertimenti con laghi artificiali per gli sport acquatici, enormi piscine, un aeroporto e uno zoo con elefanti, leoni, zebre e ippopotami; questi ultimi si riproducevano rapidamente. Era il luogo preferito da Escobar per offrire grandi pranzi e organizzare feste. Gilberto, che era stato ospite della tenuta, disse che quando Pablo era a Nápoles, si poteva presumere che fosse ubriaco tutti i giorni.

    Jorge domandò dei trasporti: avrebbe avuto bisogno di elicotteri.

    «Li avrai», disse Gilberto.

    Jorge domandò dei piloti.

    «Avrai dei piloti che conoscono l’area», disse Gilberto.

    Jorge sottolineò l’importanza di una buona rete d’intelligence e di dispositivi per le comunicazioni di ottima qualità, radio affidabili persino in terreni isolati e accidentati.

    «Qualunque cosa ti serva, l’avrai, e puoi contare sull’eterna gratitudine di tutti i presenti in questa stanza».

    Era ovvio che i soldi non erano un problema. Jorge rimase colpito dal contrasto: mentre l’esercito colombiano a volte non aveva nemmeno il carburante per gli elicotteri, il cartello di Cali era in grado di finanziare un attacco armato. E rimase colpito anche da un altro contrasto: nonostante le loro ricchezze, i quattro miliardari nella stanza erano terrorizzati da Pablo Escobar.

    Jorge era elettrizzato. Si sentiva importante, scelto per un compito fondamentale, una grande avventura… e un servizio pubblico. Era anche contento all’idea di rivedere i suoi amici mercenari britannici. E il pensiero che quattro degli uomini più ricchi della nazione sarebbero stati in debito con lui… be’, era impagabile. Eppure esitò.

    Un altro ritardo prolungato avrebbe messo a rischio la sua nascente attività di recupero di olio motore. Sperava di cominciare a costruire la piccola raffineria all’inizio dell’anno successivo. E Lena Duque? Era l’amore di Jorge, la sua compagna, la sua fidanzata. La missione di Escobar avrebbe potuto ritardare il matrimonio.

    I padrini lo rassicurarono che per preparare l’assalto ci sarebbe voluto non più di qualche mese. Dopo la morte di Escobar, Jorge sarebbe tornato a Bogotá «con più soldi di quanti ne avrai mai bisogno», come gli disse Gilberto.

    L’incontro si prolungò ben oltre la mezzanotte. Jorge sapeva di dover prendere una decisione. Avrebbe lavorato al servizio di potenti criminali, di nuovo al tavolo del diavolo. Ma si disse che sarebbe stato per poco tempo, e non avrebbe avuto niente a che vedere con il traffico di droga. Sapeva che avrebbe potuto perdere la sua nuova attività di raffinazione, ma in cambio avrebbe avuto nuovi amici potenti e persino migliori opportunità di lavoro in futuro. Poi Jorge rifletté sulla famiglia. Forse non valeva la pena di rischiare la reputazione per lavorare così a stretto contatto con i padrini del cartello. Fu allora che Jorge pensò di rifiutare.

    Nel corso della serata, i capi parlarono delle proprie famiglie, di mogli e di ex mogli, e della propria paura per la sicurezza di tutti. Le informazioni personali non erano così dettagliate perché Jorge potesse, ad esempio, rintracciare la terza moglie di Miguel, ma erano fornite in un’atmosfera di fiducia tale che sarebbe stato difficile per Jorge tirarsi indietro a quel punto.

    Per un attimo immaginò di scusarsi, dicendo: Grazie, ma no, grazie. E a quel punto? Sarebbe stato visto come un rischio per la loro sicurezza? Dopotutto, aveva lavorato a stretto contatto con i soci di Escobar che avevano finanziato la missione dei britannici per attaccare Casa Verde. Non aveva dubbi che i padrini di Cali fossero a conoscenza di quella parte del progetto dei mercenari. Se avesse detto di no, avrebbero preso quella risposta come un rifiuto personale… o peggio, come un segno di fedeltà ai capi di Medellín. Sarebbe finito nel bagagliaio di una delle auto parcheggiate fuori? Trattenne un brivido.

    Jorge si rese conto di aver paura a dire di no. E grazie a Dio. Perché, nel profondo, Jorge sapeva anche che in realtà non voleva rifiutare. Si sentì sollevato quando annunciò: «Sì, accetto».

    Un rumore terribile

    È la più antica democrazia dell’America del Sud, un centro regionale d’istruzione superiore e una potenza economica. Ma sotto a quell’apparenza di sofisticazione e modernità, la Colombia del XX secolo era uno dei luoghi più violenti del mondo.

    Guerre civili, vendette personali e gruppi criminali seminavano il caos. La Colombia era leader

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